La putta onorata/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa del Marchese con tavolino e lumi.
La marchesa Beatrice e Scanna usuraio.
Beatrice. Venite, signor Scanna, venite in questa camera, che parleremo con più libertà.
Scanna. Mi vegno dove che la comanda.
Beatrice. Ho premura di venti zecchini. Gli ho perduti al gioco su la parola. Mio marito non me li vuol dare; ed io, che sono una dama d’onore, voglio in ogni forma pagare.
Scanna. Benissimo, la gh’ha rason. Ma come vorla che femo a trovar sti vinti zecchini?
Beatrice. Far un pegno.
Scanna. Gh’ala zoggie?
Beatrice. Ho il mio fornimento. Non lo vedete?
Scanna. Ben. Su quello troveremo i vinti zecchini.
Beatrice. Ed ho da privarmene?
Scanna. Se la vol i bezzi.
Beatrice. (Oh maledetto gioco). (da sè)
Scanna. Cossa dixela?
Beatrice. (Se non pago il debito, non potrò più giocare, non potrò più andar alla conversazione). (da sè)
Scanna. (Eh, la vien zo senz’altro). (da sè)
Beatrice. Via, tenete, vi darò gli orecchini. (Già si usano anco di perle false). (da sè)
Scanna. Oh! I recchini no basta. Cossa porli valer? Vinti ducati?
Beatrice. Il diavolo che vi porti! Vagliono cento scudi.
Scanna. Ma i diamanti un zorno i val, un zorno no i val.
Beatrice. E così, che facciamo?
Scanna. La me daga anca el zoggielo.
Beatrice. Vi darò per venti zecchini il valore di cento doppie?
Scanna. Ben, se la vol de più, ghe darò anca de più.
Beatrice. Io non ho bisogno d’altro che di venti zecchini.
Scanna. Questi la li ha da pagar, e no la vol gnente per tentar de refarse?
Beatrice. Via, ne prenderò trenta, ma quanto vi darò di usura?
Scanna. Usura! La me perdona, mi no togo usura.
Beatrice. Dunque...
Scanna. La farà el solito, quello che fa i altri. Sedese soldi per ducato el primo mese, e do soldi per ducato i altri mesi per un anno, con patto che se no la le scode drente de l’anno, le zoggie sia perse.
Beatrice. E se io le riscotessi in tre o quattro giorni?
Scanna. Tant’e tanto bisogna pagar i sedese soldi per ducato del primo mese.
Beatrice. E non è usura?
Scanna. El xe negozio.
Beatrice. Vi vuol pazienza. (Maledetto gioco!) (da sè)
Scanna. Se la vol i so bezzi, ghe li dago subito.
Beatrice. Mi farete piacere.
Scanna. La vegna qua, zecchini tutti de peso. (I cala almanco sie grani l’un). (da sè)
Beatrice. Mi fido di voi.
Scanna. Uno, do, tre, quattro... (numerando i zecchini)
SCENA II.
Il marchese Ottavio e detti.
Ottavio. (Mia moglie con un ebreo! Vediamo). (in disparte)
Scanna. Cinque, sie, sette, otto... (come sopra)
Ottavio. (Buono! E sono zecchini!) (osserva in disparte)
Scanna. Nove, diese, undese, dodese... (come sopra)
Ottavio. Signora moglie, mi rallegro con lei.
Beatrice. (Che ti venga la rabbia! È venuto a tempo), (da sè)
Ottavio. Zecchini in quantità! Brava.
Beatrice. Ma! Quando il marito non ha discrezione, conviene che la moglie s’ingegni.
Ottavio. Fa qualche buon negozio?
Beatrice. Impegno le mie gioje.
Ottavio. Fa bene. E per quanto, se è lecito?
Beatrice. Lo saprete quando le averete a riscuotere.
Ottavio. Ma non si potrebbe sapere adesso?
Beatrice. Signor no.
Ottavio. Galantuomo. Voi che avete più giudizio di lei, ditemi la verità, quanto le date?
Scanna. Trenta zecchini.
Ottavio. Ed ella vi dà in pegno le gioje?
Scanna. Lustrissimo sì.
Ottavio. Bene. E quanto paga d’usura?
Scanna. Non posso sentir sto nome d’usura. Avemo fatto el negozio de sedese soldi per ducato el primo mese, e do soldi i altri mesi per un anno.
Ottavio. Sì, questo è un negozio che l’ho sentito a proporre ancora, e so che in un anno si viene a pagar d’usura il trenta per cento; e riscuotendo il pegno il primo mese, si paga in ragion d’anno il cento cinquanta per cento. Signora Marchesa, ella fa de’ buoni negozi.
Beatrice. Il bisogno me lo fa fare.
Ottavio. E tutto per il giuoco.
Beatrice. Quando la cosa è fatta, è fatta. La riputazione vuole che io paghi.
Ottavio. Ma è una bestialità il pagar tanto di usura.
Scanna. Maledetto quel nome di usura!
Beatrice. Ma cosa si può fare?
Ottavio. Direi... piuttosto venderle quelle gioje.
Beatrice. E poi?
Ottavio. E poi ne compreremo dell’altre.
Beatrice. Ho paura di non vederle mai più.
Ottavio. Sapete che ho messo in vendita il mio palazzo. Vi comprerò gioje molto più belle di queste.
Beatrice. Ma a venderle vi vuol tempo.
Scanna. Se la vol, mi le comprerò, e ghe darò i so bezzi subito. Quanto domandela?
Ottavio. Bisogna farle stimare.
Beatrice. Io non ho tempo da perdere.
Scanna. Se la vol, ghe darò intanto i trenta zecchini.
Beatrice. Datemene quaranta.
Scanna. Che ghe li daga? (ad Ottavio)
Ottavio. Sì, contentatela.
Scanna. La toga; dodese la ghe n’ha avudo, e questi altri vintiotto fa quaranta.
Ottavio. Andiamo a far stimar le gioje.
Beatrice. E il resto chi l’avrà?
Ottavio. Poco resto vi può essere, è vero, signore Scanna?
Scanna. Oh, poco seguro. Fazzo riverenza a Vussustrissima. (Che bon matrimonio!) (parte)
Ottavio. (Son arrivato in tempo. Il resto non è tanto poco; servirà per i miei bisogni, e per procurar di rasciugar le lagrime di Bettina). (fra sè, parte)
Beatrice. Chi sa? Con ventidue zecchini posso ritentar la mia sorte. Ma se il Marchese non mi ricompra le gioje, ha da sentire. Chi è mai questa creatura che piange? Pare che sia in questa casa. Mi sembra che la voce venga da qualche altra camera. Qui vi è qualcheduno senz’altro. Alla voce sembra una donna. Sarebbe bella che mio marito... Non sarebbe la prima volta. Voglio chiarirmi. Se la porta sarà serrata, la farò buttar giù. Su gli occhi miei? in casa mia? Se vi è una donna, si pentirà di esser venuta. (parte)
SCENA III.
Altra camera del Marchese con due porte, con tavolino e un lume.
Bettina sola.
Oh povereta mi! Cossa mai sarà de mi? Dove songio? In che casa songio? Chi mai xe sta che m’ha mena via? Mia sorela dove mai xela? Cossa dirà sior Pantalon? El mio Pasqualin cossa diralo? Cossa faralo, le mie raìse? Povero Pasqualin, dove xestu, anema mia? Perchè no viestu a agiutar la to povera Bettina, che te vol tanto ben? Se el lo savesse dove che son, son segura ch’el se buterave in fuogo per mi. Chi mai xe sta quel can, quel sassin, che m’ha fato sta baronada? Gh’ho paura ch’el sia stà quel Marchese. Ma pussibile che in sta casa no ghe sia nissun? Oe, zente, agiuto, averzime, muoro. Maledeti sti omeni! O co le bone, o co le cative i la vol venzer seguro. Ma co mi nol farà gnente sto can. S’el me vegnirà intorno, ghe darò tanti pizzegoni e tante sgrafignaure, che ghe farò piover el sangue. (si sente sforzar una porta) Oimei! Coss’è sta cossa? I buta zoso la porta. Agiuto per carità, che no posso più.
SCENA IV.
La marchesa Beatrice e detta.
Beatrice. Chi siete voi?
Bettina. Una povera puta.
Beatrice. Che fate qui?
Bettina. Gnente.
Beatrice. Chi v’ha qui condotta?
Bettina. No so gnanca mi.
Beatrice. Chi aspettate?
Bettina. Nissun.
Beatrice. Ma chi diavolo siete?
Bettina. Mi gh’ho nome Bettina, e son...
Beatrice. Non occorr’altro; so chi siete. Siete la cicisbea del mio signor consorte.
Bettina. E chi xelo sto sior, che nol cognosso?
Beatrice. Cara! Nol conoscete? Il marchese di Ripaverde.
Bettina. Sielo maledio; che nol posso veder, nè sentir a minzonar.
Beatrice. Nol potete vedere, e venite di notte in sua casa?
Bettina. Questa xe casa de sior Marchese?
Beatrice. Per l’appunto.
Bettina. Adesso vegno in chiaro de tuto. Elo xe sta quelo che m’ha tradio. Donca ela xe mugier de sto sior Marchese?
Beatrice. Sì, son quella. Che vorreste voi dire?
Bettina. Cara lustrissima, no la me abandona, ghe lo domando per carità. Mi son una puta onorata. So mario ha fato de tuto per tirarme zozo. No ghe xe riuscio co le bone, e lu m’ha fato robar.
Beatrice. Posso creder veramente quanto mi dite?
Bettina. Ghe zuro da puta da ben, che la xe cussì; e se no la me crede, la lo vederà.
Beatrice. Quand’è così, m’impegno di proteggervi e di darvi soccorso.
Bettina. La sapia, lustrissima, che son promessa con un puto che la cognosse anca ela.
Beatrice. Chi è questo?
Bettina. Pasqualin, fio del so barcarìol.
Beatrice. Ed egli vi corrisponde?
Bettina. Assae; ma tuto el mondo ne xe contrario.
Beatrice. Lasciate far a me, che prometto di consolarvi. Or ora devo uscire di casa. Sola qui non vi voglio lasciare. Verrete con me.
Bettina. Farò quel che la comanda, lustrissima.
Beatrice. Verrete meco alla commedia.
Bettina. Oh, la me perdona, no ghe son mai stada. Le pute no le va a la comedia.
Beatrice. Le putte non devono andare alle commedie scandalose; ma alle buone commedie, oneste e castigate, vi possono, anzi vi devono andare; e se verrete meco, sentirete una certa commedia che forse vi apporterà del profitto.
Bettina. Farò quel che comanda vussustrissima. Ma sior Marchese?
Beatrice. Mio marito verrà, non vi troverà più, e avrà da far meco.
Bettina. E el mio povero Pasqualin?
Beatrice. Lo farò cercar da suo padre...
Bettina. Oh, anca quel omo, se la savesse co contrario chel me xe!
Beatrice. Non saprà per qual causa io lo cerchi.
Bettina. Oh siela benedeta! La me farà una gran carità.
Beatrice. Avete fame? Volete mangiare?
Bettina. Eh, lustrissima, no, grazie. Più presto che andemo via, xe megio.
Beatrice. Quando così, andiamo. Ma sento aprire quest’altra porta.
Bettina. Giusto per de qua i m’ha ficà drente anca mi.
Beatrice. Sarà mio marito, senz’altro.
Bettina. Adesso stago fresca; scampemo via, per amor del cielo.
Beatrice. No, faressimo1 peggio.
Bettina. Velo qua ch’el vien.
Beatrice. Spegniamo il lume. Fate quello che vi dico io, e non dubitate. (spegne il lume)
Bettina. Adesso sì che me vien l’angossa.
SCENA V.
Il marchese Ottavio dall’altra parte, e dette.
Ottavio. Bettina, ehi Bettina. (cercandola al buio)
Beatrice. Rispondetegli. (a Bellina, sotto voce)
Ottavio. Bettina, dico. (come sopra)
Bettina. Lustrissimo.
Ottavio. Perchè avete spento il lume?
Beatrice. (Parla nell’orecchio a Bellina, insegnandole cosa deve rispondere.)
Bettina. L’ho stuada, perchè me vergogno. (ad Ottavio)
Ottavio. Dove siete? Ehi. Dove siete?
Beatrice. (Come sopra.)
Bettina. Son qua.
Ottavio. Datemi la vostra manina.
Beatrice. (Come sopra. Bellina non vorrebbe, ed ella la spinge.)
Ottavio. Oh cara questa bella manina! (crede Bettina, ed è la Marchesa) Mi volete voi bene?
Beatrice. (Come sopra.)
Bettina. Sior sì.
Ottavio. Sarete mia?
Beatrice. (Come sopra.)
Bettina. Sior sì.
Ottavio. Avete avuto dispiacere, che io v’abbia condotto via?
Beatrice. (Come sopra.)
Bettina. Sior no.
Ottavio. Dunque avete gusto?
Beatrice. (Come sopra.)
Bettina. Sior sì.
Ottavio. Voi mi consolate, la mia cara Bettina.
Beatrice. (Tira in disparte Bettina, e le parla come sopra.)
Bettina. Caro elo, son stufa de star al scuro. Vorave che l’andasse a tor una luse. (ad Ottavio)
Ottavio. Chiamerò qualcheduno.
Bettina. No no, che no vogio esser vista.
Beatrice. (Come sopra.
Bettina. Che el vaga elo a torla.
Ottavio. Volentieri; vado subito. (Guardate come si è facilmente piegata. Eh, così è: colle donne bisogna usar violenza). (da sè, in disparte2)
Bettina. El xe andà via. (a Beatrice)
Beatrice. Venite, venite meco. Passate in quest’altra camera, ed aspettatemi.
Bettina. Ma no voria che nascesse...
Beatrice. Non dubitate, lasciate la cura a me.
Bettina. Se no moro sta volta, no moro mai più. (entra nell'altra camera)
SCENA VI.
La marchesa Beatrice, poi il marchese Ottavio col lume.
Beatrice. Oh, che caro signor consorte! Se l’aveva rinserrata in casa l’amica; ma eccolo che viene col lume.
Ottavio. Oh, eccomi qui... (crede trovar Bettina, e vede Beatrice)
Beatrice. Che mi comanda, signor consorte?
Ottavio. Niente. (guardando qua e là per la camera)
Beatrice. Che cerca vossignoria?
Ottavio. Niente. (come sopra)
Beatrice. (Mi pare alquanto confuso). (da sè)
Ottavio. (Come diavolo è qui venuta costei!) (da sè, osservando come sopra)
Beatrice. Ha perduto qualche cosa?
Ottavio. (Io ho pur parlato con Bettina), (da sè) Sì, signora, ho perduto.
Beatrice. E che mai?
Ottavio. Ho perduto una gioja.
Beatrice. La gioja che avete perduta, l’ho ritrovata io, ed è in mio potere. E voi, signor Marchese, pensate meglio, che non si portano di quelle gioje in casa; che alla moglie si porta rispetto, e non le si dà questa sorta di mali esempi. (entra nella camera ove è Bettina, e serra la porta)
Ottavio. Io resto stordito, come la Marchesa abbia saputo di questo fatto! Come ha potuto penetrare... Ma! Io all’oscuro ho parlato con Bettina; e ora dov’è andata? Ah sì, la Marchesa me l’ha involata! Ma prima ch’ella me la faccia sparire da questa casa, vo’ ritrovarla, vo’ meco condurla. Son nell’impegno; se vi andasse la casa, voglio superare il mio punto. (parte)
SCENA VII.
Segue notte. Strada.
Catte in zendale.
Dove songio? Dove vaghio? Co sto bocon de scuro no cognosso gnanca le strade. Almanco i impizzasse i ferali; ma s’aspeta la luna, ghe vuol pazenzia! Dove mai sarà la mia povera sorela! Chi mai l’ha menada via? Ah, certo no pol esser stà altro che sior Marchese. Ma senza farne morir de spasemo, no podevelo dirmene3 una parola a mi, che ghe l’averave menada fin a casa? Me despiase de mi, poverazza, che no so dove andar, e gh’ho paura de dover star sta note tuta4a chiapar i freschi. Almanco passasse qualche bona creatura, che se movesse a compassion.
SCENA VIII.
Lelio e detta.
Lelio. Quanto mi piace la mia cara Venezia! Non me ne ricordavo più, perchè son tanti anni che io manco. Ma queste donne particolarmente, queste donne, queste Veneziane farebbero innamorare i sassi. Dove si trova mai tanta grazia? Tanto brio? Tanto garbo? Anco le brutte fanno la loro figura. Si sanno così bene accomodare, che incantano. Veder quelle che chiamano putte, puttazze. Oh, che roba! Oh che aria! Che vite! Che visi! Che balsamo! Che vitello da latte!
Catte. (Questo el me par un foresto). (da sè)
Lelio. Parmi di vedere una donna. A tutte l’ore s’incontrano di queste buone fortune. Mi dispiace che son senza denari.
Catte. Vogio passarghe d’arente, per veder se lo cognosso. (s’accosta a Lelio)
Lelio. Signora, così sola?
Catte. Pur tropo per mia desgrazia.
Lelio. Che cosa l’è succeduto?
Catte. Ho perso la compagnia, e no so andar a casa.
Lelio. Vuol che io l’accompagni?
Catte. Magari.
Lelio. Ha ella cenato?
Catte. Sior no.
Lelio. Nè anch’io.
Catte. Cenalo la sera?
Lelio. Quando posso.
Catte. Come quando el pol?
Lelio. Intendo dire quand’ho denari.
Catte. Sta sera xelo senza?
Lelio. Son asciutto come esca.
Catte. (Ho trova la mia fortuna). (da sè)
Lelio. Vuol restar servita a bevere un bicchiere di moscato?
Catte. Ma se el dise che nol gh’ha bezzi?
Lelio. Io mi fido di lei.
Catte. Che paga mi?
Lelio. Pagheremo una volta per uno.
Catte. (Siestu maledetto!) (da sè) El moscato me fa mal.
Lelio. In casa averà del buon vino.
Catte. Piccolo, la veda, piccolo.
Lelio. Oh quanto mi piace il vino picciolo!
Catte. (L’è un sior degnevole. Oh, che bel forestiero che m’ho trova!) (da sè)
Lelio. Vuol che andiamo?
Catte. (Per non andar sola, bisognerà che gh’abia pazenzia). (da sè)
Lelio. Io son così colle donne: quando ne ho, ne spendo; quando non ne ho, lo dico, e se me ne danno, ne prendo.
Catte. Mo a Venezia el ghe ne troverà poche, che ghe ne daga.
Lelio. Favoritemi della mano.
Catte. Son qua. (Podevio trovar de pezo?) (da sè)
SCENA IX.
Pantalone con lanterna, e detti.
Pantalone. Ah cagadonao, ti xe qua? (a Lelio)
Lelio. (Maledettissimo incontro! Mio padre ha preso a perseguitarmi). (da sè, fugge via)
Pantalone. Siora Catte, cossa vedio? Qua se a st’ora? Cossa xe de Bettina? Cossa fè vi qua co mio fio?
Catte. Oh, caro sior Pantalon, quante lagreme che ho trato! Quanta passion ch’ho abuo! Semo stae chiapae tute do, come che l’ha visto. I n’ha mena no so dove, e i m’ha desligà mi, e i ha fato che vaga via. De mia sorela no ghe n’ho mai più savesto nè niova, nè imbassada.
Pantalone. E co mio fio cossa fevi?
Catte. So fio el xe quel martuffoa? Mi gnanca no lo cognosso. A st’ora no ghe vedo, e no so andar a casa. El s’aveva esebìo de compagnarme, e mi m’aveva tacà al partìo.
Pantalone. Gran desgrazià che xe colù! Siora Catte, mi gh’ho do gran travaggi. Uno xe aver un fio cussì baron, che de pezo no se pol dar. L’altro aver perso cussì miseramente Bettina. Per el primo sta notte ghe remedierò. Ho trovà i zaffi5, gh’ho dà la bona man, acciò che i lo liga, e che i ghe fazza per sta volta un poco de paura, e un’altra volta pò ghe la farò dasseno. Per el secondo no so cossa dir; no so da che cao principiar. Gh’ho suspeto sul Marchese. Dubito de Pasqualin. Gh’ho dei omeni che zira per mi. Farò tanto, che vegnirò in chiaro de la verità; e chi me l’ha fata, zuro da marcante onorato, che me l’averà da pagar. (parte)
SCENA X.
Catte sola.
Oh che zuramento che l’ha fato! No digo che no ghe sia dei mercanti onorati, ma mi so, che se ho volesto sta carpeta6 in credenza, ha bisognà che la paga do lire al brazzo de più de quel che la val. Sto zendà i me l’ha venduo per zendà dopio da Fiorenza, e el xe da Modena; e co ghe porto el laorier indrio, i dise sempre che cala el peso, per tegnirme qualcossa su la fatura. No se pol più viver; i vol tuto per lori. Ma intanto stago qua al fresco, a parlar da mia posta co fa le mate. Vedo a vegnir un feral; sel7 va da le mie bande, ghe vago drio.
SCENA XI.
La marchesa Beatrice mascherata in bauta, Bettina in vesta e zendà colla moretta8, Servitore col lampione, e detta.
Beatrice. Così è. L’acqua mi fa male: non posso andar in barca e vado per terra.
Bettina. Dove andemio, lustrissima?
Beatrice. Alla commedia.
Bettina. La me compatissa, no me par che la sia sera da andar alla comedia.
Beatrice. Vi dirò: vado al teatro e vi conduco meco appunto per consegnarvi ad una mia parente, che troverò colà senz’altro.
Bettina. Se me trova sior Marchese, povereta mi!
Beatrice. Se siete meco, non ardirà nè men di mirarvi.
Catte. Betina, xestu ti?
Bettina. Oimei! Tremo tuta. Chi è che me menzona?
Catte. No ti cognossi Cate to sorela?
Bettina. Vu sè?
Catte. Son mi, sorela.
Bettina. Oh cara, lasse che ve chiapa a brazzacolo.
Catte. Sì, vien qua che te basa. (si abbracciano)
Beatrice. Chi è questa?
Bettina. Mia sorela.
Catte. Son una dona da ben, sala? Cossa gh’ala paura? (alla Marchesa)
Bettina. Coss’è de Pasqualin? (a Catte)
Catte. Oe, no l’ho gnancora visto. M’ho perso in sta cale, e no so nè dove che sia, nè dove che vaga.
Bettina. Sorela cara, no posso più. Se no lo vedo, muoro seguro...
Catte. Dime, come xela andada?
Bettina. Te conterò. Oh che cossazze!
Catte. E el Marchese?
Bettina. Giusto elo, quel bogia.
Catte. Ghe xe radeghib?
Bettina. In materia de che?
Catte. Se ti m’intendi9?
Bettina. Oh, gnente.
Catte. No xe puoco.
Bettina. Gramarzè10 a sta lustrissima.
Catte. Chi xela?
Bettina. So mugier.
Catte. Oh cossa che ti me conti!
Beatrice. E così, l’avete ancora finita? (a Bettina)
Bettina. Adesso, lustrissima, vegno. E de sior Pantalon?
Catte. L’è passa de qua giusto adesso. El deventa mato.
Bettina. Poverazzo! El me fa pecà.
Beatrice. L’ora vien tarda. La commedia sarà principiata, (a Bellina)
Catte. Ti va a la comedia? (a Bellina)
Bettina. Sì, per forza.
Catte. Oh, se podesse vegnir anca mi!
Bettina. Lustrissima, se contentela che vegna anca mia sorela?
Beatrice. Senza maschera?
Catte. Eh, m’imbaucherò col zendà, no la se indubita.
Beatrice. Andiamo. (s’avanza col servitore)
Bettina. No ghe n’ho gnente de vogia. (o Calte)
Catte. Vien via, che rideremo.
Bettina. Pianzerave più volentiera.
Catte. Uh, che cossa freda!
Beatrice. Andate avanti, ragazza.
Bettina. Lustrissima sì. Quanto più volentiera andarave a filò col mio Pasqualin!
Catte. Anca mi, lustrissima?
Beatrice. Sì, anche voi?
Catte. Siela benedetta!
Beatrice. Voglio vedere se in questa notte posso terminar quest’affare. Già Pasqualino è avvisato. (parlano tutte tre col servitore)
SCENA XII.
Veduta del Canal Grande con gondole. Da una parte il casotto di tavole, che introduce in teatro. Più in qua la porta per dove si esce di teatro, ed il finestrino ove si danno i viglietti della commedia. Un ragazzo, che grida di quando in quando: A prendere i viglietti, siore maschere; diese soldi per uno, e el pagador avanti, siore maschere. Dall’altra parte una banchetta lunga per quattro persone. Ed i fanali qua e là, come si usa vicino ai teatri.
Passano varie maschere, e vanno alcune a prendere viglietti, indi entrano nel teatro, e alcune vanno senza viglietti; poi passano Nane barcaiuolo col lampione, conducendo maschere al teatro;11 poi il Servitore con il lampione, conducendo la marchesa Beatrice, Bettina e Catte al teatro; poi Menego Cainello con il Marchese e quattr’uomini, che vanno al teatro. E il ragazzo di quando in quando grida: a prender i viglietti ecc.; poi si sente di dentro gridare: Qua, se la va fuora. S’apre una porta, da dove escono Menego e Nane coi lampioni.
Menego. Compare Nane, sioria vostra.
Nane. Sana12, compare Menego.
Menego. Ola, v’ela passada?
Nane. De cossa?
Menego. De quel bocon de criada.
Nane. No me ne ricordo gnanca più, varè.
Menego. Co semo in pope, nemici, co semo in tera, amici e fradei carnali.
Nane. Bisogna de le volte criar per reputazion, siben che no se ghe n’ha vogia.
Menego. Per cossa credistu che no abia dà indrio? Per el paron? Gnanca in te la mente. Made13. L’ho fato, perchè ghe giera cinquanta barcanoi che me vedeva, e se siava, i me dava la soggia14.
Nane. Gh’astu el paron a la comedia?
Menego. Compare sì.
Nane. Anca mi son con un foresto, che xe arivao sta matina. L’ho servio de l’altre volte, e nol me fa torto.
Menego. La stichelo?
Nane. Aria granda.
Menego. Gh’alo la macchina15?
Nane. No se salo.
Menego. Caro ti, cónteme16.
Nane. Andemo al maga17.
Menego. Made, tiremose a la bonazzac. (
Nane. El zagnuco refila18.
Menego. Che caded. Con un scalfo de chiaroe, la giusteremo. Vien qua, picolo dai boletini. (al ragazzo)
Ragazzo. Piase?
Nane. Chiò sto da vinti, vane a chior un boccal de quel molesin19. Dighe al capo che te manda Cainelo; ch’el te daga de quelo che el dà ai so amici. Hastu inteso?
Ragazzo. Sì ben.
Menego. Fa presto; no te incantar, che te darò una gazzetaf.
Ragazzo. In do salti vago e vegno. (parte)
Menego. Sentemose, camerata?
Nane. Son qua.
Menego. Dime, com’ela de sto foresto?
Nane. Ben. El me dà a mi solo un ducato al zorno, e da magnar e da bever; e col vol andar a do remi, el paga lu quel de mezo.
Menego. Bisogna ch’el sia molto rico.
Nane. Ho sentio da un camerier de la locanda, ch’el xe del so paese, che i soi no i gh’ha pan da magnar.
Menego. Donca, come la stichelo?
Nane. Oe, co le sfogioseg.
Menego. E el mantien la machinah?
Nane. O ela lu, o lu ela.
Menego. Tienla conversazion?
Nane. Flusso e reflusso.
Menego. A la locanda?
Nane. Sì ben, a la locanda. Cossa credistu che sia le locande?
Menego. Xela bela sta to parona?
Nane. O de so piè, o de son mani, la fa la so maledeta fegura.
Menego. Abitazzi20?
Nane. Aria e ganzo.
Menego. Zoggie?
Nane. Diamanti da Muranj superbonazzi.
Menego. El paron xelo zeloso?
Nane. Sì ben, zeloso. El se leva la matina a bonora, e el dà liogo a la fortuna.
Menego. Senti, anca el mio paron xe de bon stomego.
Nane. Ma la to parona no xela so muggier?
Menego. Sì ben, ma cossa importa? I usa cussì. Moda niova, moda niova.
Nane. Come stalo de bezzi el to paron?
Menego. Giazzok tanto che fa paural.
Nane. E sì mo tanto lu che ela i fa una fegurazza spaventosa.
Menego. Senti, un de sti zorni: ora mi vedete, ora non mi vedete.
Nane. Vorlo falir?
Menego. Eh, sti siorazzi no i falisse, i se tira in campagna, i licenzia la servitù, i zuna21 un per de anni, e pò i toma a Venezia a sticarla.
Nane. I dise che so muggier la zioga a rota de colo.
Menego. E chi ha d’aver, aspeta.
Nane. L’altro zorno m’è sta dito che i ha fato un disnar spaventoso.
Menego. Domandeghe al galiner, che ancora l’ha d’aver i so bezzi del polame.
Nane. E ti i to bezzi te li dali?
Menego. Piase! Se i vol che laora.
SCENA XIll.
Il Ragazzo col vino, e detti.
Ragazzo. Oe, son qua col vin.
Menego. Bravo.
Ragazzo. Me deu la gazzeta?
Menego. Che cade! Son galantomo. Tiò, vatte a tior tanti pomi coti. (gli dà due soldi)
Ragazzo. A prender i viglietti, siore maschere. Oe, me lasseu vegnir drento? Xe deboto quattr’ore. (al Portinaro che apre, ed entra)
Menego. Sana, capanam.
Nane. Pro’ fazza.
Menego. A vu, compare. (a Nane)
Nane. Salute. (beve)
Menego. Vostra.
SCENA XIV.
Tita dalla porta del teatro, e detti.
Menego. Compare, vegnì a nu. (a Tita)
Tita. Compare, pania?
Nane. Degneu vegnir a nu? (a Tita)
Tita. Son qua.
Menego. Senteve, che tanto se paga. (gli danno da bere)
Tita. Bon da amigo, ma bon do volte. (bevendo)
Menego. A sti musi cussì i ghe lo dà.
Nane. Calcossa ve l’avè godesta in teatro.
Tita. Mare de diana! Che ho ridesto.
Menego. Gh’è zente?
Tita. A marteleton.
Menego. Piaseli?
Nane. Poverazzi! i se inzegna; ma ti sa cossa xe sto paese. Qua se fa acceto a tuti; lori se sfadiga, e la zente ghe dà coragio. (si sente di dentro in teatro batter le mani, e dir bravo, bravo)
Menego. Oe, senti che bocon de fracasso! (si torna a sentire l’applauso)
Tita. Via, che la vaga.
Menego. Che xe assae barcarioi drento?
Tita. Pi de cento.
Menego. Co la piase ai barcarioi, la sarà bona. Nualtri semo quei che fa la fortuna dei comedianti. Co i ne piase a nu, per tuto dove ch’andemo, oh, che comedia! oh, che comedia! oh, che roba squesita! In teatro, co nu sbatemo le man, le sbate22 tuti, e anca nu23 ne piase el bon. No ghe pensemo nè de diavoli, nè de chiassi; e gh’avemo gusto de quele comedie che gh’ha del sugo.
SCENA XV.
Un Capitano degli sbirri co’ suoi uomini, poi Lelio e detti.
Nane. Oe, la peveradao.
Tita. Fali la sguaita24 a qualchedun?
Nane. Chi sa, i va cercando el mal co fa i miedeghi.
Menego. Eh gnente. I va per tuti i teatri, e i fa ben. Cussì i tien neto dai ladri.
Lelio. (Oh cari! Tre barcaruoli che se la godono assieme! Oh che bella conversazione!) (da sè)
Menego. Chi elo sto sior, che ne va lumandop? (a Nane)
Tita. Comandela barca?
Lelio. Padron Tita, siete voi?
Tita. Oh, sior Lelio, la xe ela?25
Menego. Chi elo? Qualchedun de queli de la marmotina? (a Titta)
Tita. El xe patrioto nostro venezian, arlevao a Livorno.
Nane. Col xe venezian, ch’el vegna. Comandela? (a Lelio)
Menego. Via, a la bona, e viva la patria. (a Lelio, e gli danno da bere)
Lelio. Questo vin el ghe xe bon, el ghe me piase assaiq. (vuol parlar veneziano, e non sa)
Menego. Me ghe xe consolo tanto. (burlando)
Lelio. Quando voleseu26 che andesemo27 a vogar in palugo?
Menego. Sala voghesar? (come sopra)
Lelio. Una volta ghe xera bravo.
Nane. Oh che caro papagà!
Lelio. Quanto che me piaseu! Me lasseseu28, che me sia sentao?
Menego. Mi lasso che ve comodar. (Lelio siede)
Lelio. Caro vecchio, dasemene un altro fiao. (torna a bere)
Nane. Comodeve, compare29 desnombolao.
SCENA XVI.
Una spia va dagli sbirri e accenna aver scoperto Lelio. Essi vanno per prenderlo. I barcaruoli lo difendono; e col boccale, coi sassi e colla banca fanno fuggire gli sbirri, dicendo: Via, cagadonai. Via, lassèlo, furbazzi, dai, ecc. Dopo fuggiti gli sbirri:
Nane. Vittoria, vittoria.
Lelio. Bravi, bravi, ve ghe son obligao.
Menego. E viva nu.
Tutti. E viva i barcarioli, e viva.
SCENA XVII.
La marchesa Beatrice mascherata cogli abiti di Bettina, Bettina con quelli della Marchesa in bauta, e il Servitore col lampione escono dal teatro.
Bettina. Perchè mai hala volesto far sto barato? Mi sti abiti no li so portar.
Beatrice. Siamo state vedute da mio marito: mi sono accorta che ci ha conosciute, e per questo, serrato il palco dinanzi, ho fatta la mutazione degli abiti.
Bettina. Mo perchè?
Beatrice. Il perchè lo saprete poi.
Bettina. Mia sorela dove xela andada?
Beatrice. L’ho mandata a casa mia colla Contessa mia cugina, acciò non frastorni quanto abbiamo colla medesima concertato.
Bettina. (Gran note per mi xe questa!) (da sè)
SCENA XVIII.
Pasqualino e detti.
Pasqualino. Oh fortuna traditora, dove mai xe andada la mia Betina?
Bettina. (Caro el mio ben, se te podesse dir che son mi!) (da sè)
Beatrice. (Ecco appunto Pasqualino; l’ho mandato a cercar apposta). (piano a Bellina)
Bettina. (A posta? Per cossa?)
Beatrice. (Apposta per voi).
Bettina. (Per mi? Ma cossa ghe n’hogio da far?)
Beatrice. (Non vi ha promesso?)
Bettina. (Lustrissima sì).
Beatrice. (Bene, andate con lui).
Bettina. (Oh, questo pò no. No l’è gnancora mio mano).
Beatrice. (E per questo?)
Bettina. (Son una puta onorata).
Beatrice. (Bel carattere ch’è costei!) (da sè)
Pasqualino. La parona m’ha mandao a cercar. La m’ha fato dir che l’aspeta qua. Cossa mai vorla? Ah dove xe mai andada la mia Betina? Xela scampada via? M’hala tradio? M’hala abandonà? Sento che me manca el respiro.
Beatrice. (Miratelo, se non fa compassione). (a Bettina)
Bettina. (Se podesse, lo consolaria).
Beatrice. (Perchè non potete?)
Bettina. (Perchè no son so mugier).
Beatrice. (Almeno datevi da conoscere).
Bettina. (Se me dago da cognosser, lu me vol ben a mi, mi ghe vôi ben a elo, no so cossa che possa succeder).
Beatrice. (Siete troppo rigorosa).
Bettina. (Son una puta onorata).
Beatrice. (Costei è rara, come la mosca bianca). (da sè)
Pasqualino. Quele do maschere le me varda. Saravela mai la parona? Me par che quelo sia el so labaro. E quel’altra co la vesta e col zendà e co la moreta saravela mai Betina? Oh, el ciel volesse che la fusse ela! (da sè)
Beatrice. (Eh via, finiamola). (a Bettina)
Bettina. (No certo, più tosto scampo via). (a Beatrice)
SCENA XIX.
Il marchese Ottavio dalla porta del teatro con li quattro uomini, e detti.
Ottavio. Ecco mia moglie con Bettina. Amici, state pronti se vi è bisogno. (agli uomini)
Bettina. Oh povereta mi! Chi è ste maschere?
Beatrice. Non vi muovete.
Ottavio. (Prende con forza per mano la Marchesa, credendola Bettina, e dice) Vi ho finalmente trovato. Ora non mi fuggirete più dalle mani. E voi, signora maschera (a Bettina, credendola la Marchesa), se non avrete giudizio, averete a far meco. Pasqualino, che fate qui?
Pasqualino. Giera... cussì... andava a la comedia. (confuso)
Ottavio. Date braccio alla Marchesa, e accompagnatela a casa. Giuro al cielo, me la pagherete, (a Bettina non conosciuta) Venite, anima mia, andiamo a felicitare il nostro cuore. (parte colla Marchesa, e cogli uomini)
SCENA XX.
Pasqualino e Bettina.
Pasqualino. Lustrissima, son qua a servirla. La me favorissa la man. Come! No la vol? No la se degna? El paron me l’ha comanda, da resto... Almanco la me diga per cossa la m’ha manda a chiamar. Gnanca? Pazenzia30. Quela maschera col zendà chi mai gierela? Betina? No credo mai. Ah, che ho perso la mia Betina! no so più in che mondo che sia. Se no la trovo, prego el cielo che me manda la morte per carità. Ghe vien da pianzer? (Bettina piange) La varda, le lagreme ghe corre su la bauta; la se cava el volto, e la se suga. No la vol? No so cossa dir. No la vol andar a casa? (Bettina fa cenno di sì) Sì? La servirò. No la vol man, no? (Bettina ricusa la mano) Pazenzia! Se no trovo Betina, son desperà. (parte)
Bettina. Desmascherarme? No certo. Do morosi de note soli? Se el me cognoscesse, no so come l’anderave. (parte)
SCENA XXI.
Camera terrena in casa del marchese Ottavio.
Menego col lampione, e Lelio.
Menego. Donca vostro sior pare ve vol far cazzar in preson?
Lelio. Pur troppo.
Menego. Mo perchè?
Lelio. Perchè è pazzo. Pretenderebbe che io facessi a suo modo, e sento che la natura vi repugna.
Menego. Sentì, sior, mi v’ho defeso e v’ho liberao da le man dei zaffi, perchè no i gh’aveva ordene de chiaparve, e perchè la xe tropa temeritae de colori vegnir in t’un bozzolor de galantomeni a far un afronto. Da resto ve digo che i fioi i ha da obedir so pare: e coi buta tressis el pare fa ben a castigarli e no filarghe el lazzo, perchè col tempo i fioi cattivi i se scusa col dir ch’el pare li ha mal usai.
Lelio. Ma se tutto quello che piace a mio padre non piace a me? S’io fossi, per esempio, vostro figlio, e avessi a fare la vita che fate voi, sarei tutto contento.
Menego. Poderia esser che ve stufessi, perchè la xe una bela cossa vogar per spasso e per devertimento; ma vogar dì e note, a piove, a giazzi, a neve, col vento, col scuro, con quei malignazi calighi: el xe un divertimento, che se podesse, ghe ne farà ve de manco volentiera.
Lelio. Tant’è; ognuno ha la sua passione, ed io ho questa.
SCENA XXII.
Donna Pasqua e detti.
Pasqua. Bara Menego, dove seu ficao? Tuto ancuo che ve cerco, e no ve trovo.
Menego. Oh mugier! Ben vegnua.
Pasqua. Vegnì qua, caro fio; xe tanto che no ve vedo, tochemose la man.
Menego. Sì, cara la mia vechieta, se cocoleremot, no ve dubitè.
Lelio. (Quanto mi piace questa buona vecchia!) (da sè)
Pasqua. Cossa feu de sto bel zovene? (a Menego)
Menego. Ve piaselo?
Pasqua. Mi sì, varè.
Menego. Se volè, comodeve.
Pasqua. Lo poderave anca basar.
Menego. Che cade! Fè vu; aveu paura che sia zeloso?
Pasqua. (Se ti savessi chi l’è, no ti diressi cussì). (da sè)
SCENA XXIII.
Pantalone e detti.
Pantalone. Messier Menego, se pol vegnir? (di dentro)
Menego. Chi è? Vegnì avanti.
Lelio. Meschino me! Mio padre.
Pantalone. Ah, ti è qua, desgraziao? Me maraveggio de vu, messier Menego, che tegnì terzo a sta sorte de baroni, a sta sorte de scavezzacoli. Me xe sta dito, ch’el xe vegnù qua. Ho domanda de sior Marchese. I m’ha dito che nol ghe xe, ma non ostante ho voleste vegnirme a sincerar. L’ho trovà sto desgrazià, sto furbazzo.
Pasqua. Sior Pantalon, cussì la parla de so fio?
Pantalone. Cara nena31, se savezzi co mal che l’ha butta, me compatiressi. Quanto che giera meggio che l’avessi sofegà in cuna.
Menego. Mo cossa gh’alo fatto?
Lelio. Niente, niente affatto.
Pantalone. Gnente ti ghe disi, volerme bastonar?
Lelio. Io non vi conosceva.
Pantalone. E andar tutt’el dì all’osteria a ziogar a la mora, a bever sempre con zente ordenaria, no ti ghe disi gnente?
Lelio. In questo avete ragione; ma io non ne posso far a meno.
Pantalone. Oh, ben. Co la xe cussì, parecchiete de andar lontan da to pare. Za ho parla col capitan d’una nave, che xe a la vela. Ti anderà in Levante; ti farà el mariner; cussì ti sarà contento.
Pasqua. (Oh povereto! No voria che ghe sucedesse sta cossa). (da sè)
Lelio. Io in Levante? Quanto siete buono!
Pantalone. Vu in Levante, sior sì; e se no gh’anderè per amor, gh’anderè per forza. Aspetto che vegna a casa sior Marchese per usarghe un atto de respetto, e pò, sior poco de bon, vederè cossa ve succederà.
Lelio. Eh, giuro al cielo, non so chi mi tenga... (minacciando Pantalone)
Menego. Alto, alto, fermeve. (si frappone)
Pantalone. Come! A to pare? Manazzi a to pare? Adesso. Presto. I zaffi i xe da basso; oe, dove seu? Mio fio me vol dar. (verso la porta)
Pasqua. (Povero mio fio, son causa mi de la so rovina), (da sè)
Menego. Mo via, la se quieta, che giusteremo tuto.
Pantalone. No gh’ho bisogno dei vostri consegi. Quando un fio arriva a perder el respetto a so pare, nol merita compassion. Vogio che el vaga in preson.
Pasqua. Ah sior Pantalon, quieteve per carità.
Pantalone. No me stè a seccar.
Pasqua. Volè in preson vostro fio?
Pantalone. Sì ben, in t’un cameroto.
Pasqua. Mo nol gh’anderà miga, vede.
Pantalone. No! Per cossa?
Pasqua. (Cossa fazzio? Parlio, o no parlio? Se taso, el va in preson. Oh povereta mi! Bisogna butarla fuora). (da sè) Perchè nol xe vostro fio.
Pantalone. Nol xe mio fio? Oh magari! Come xela, nena, come xela?
Pasqua. Adesso che lo vedo in sto gran cimento, no posso più taser. Sapiè che mi ve l’ho barata 32 in cuna.
Pantalone. Mo de chi xelo fio?
Pasqua. De mi e de mio mario.
Menego. Piase? (a donna Pasqua)
Pasqua. Sì ben, caro vu, ho credeste de far ben. Ho fato acciochè el fusse ben arlevà; che no ghe mancasse el so bisogno; e che el deventasse un puto cossedièu.
Menego. Brava! Ave fato una bela cossa.
Pantalone. E del mio cossa ghe n’aveu fatto?
Pasqua. El xe Pasqualin, che crede d’esser mio fio.
Pantalone. Pasqualin? Sì ben. Ve credo. La sarà la verità. Pasqualin gh’ha massime civili e onorate, e costù gh’ha idee basse e ordenarie. Se cognosse in Pasqualin el mio sangue; in Lelio el sangue d’un servitor. Tegnive donca la vostra zoggia, e lasse che me vada a strucilarv el mio caro fio. A costù ghe perdono, perchè vedo che nol podeva operar diversamente da l’esser soo, e la natura no podeva sugerirghe gnente in mio favor. No ve domando mazor testimonianza del cambio; no metto in contingenza sto fatto, perchè cognosso da ste do diverse nature la verità. Ve digo ben a vu, donna matta, che meriteressi che la mia colera se revoltasse contra de vu, per esser stada lo causa de sto desordene: ma el Cielo v’ha castigà, perchè tentando co inganno de aver un fio vertuoso e ben educà, el xe riuscio pezo assae che se l’avessi arlevà in casa vostra. Onde xe la veritae, che l’inganno casca adosso a l’ingannador, che dal mal no se pol mai sperar ben, che de le donne tanto xe cattivo l’odio quanto l’amor, e che tutte vu altre bisognerave metterve a una per una in t’un morter, e pestarve, come se fa la triaca33. (parte)
SCENA XXIV.
Lelio, Menego e donna Pasqua.
Lelio. Madonna, avete detto il vero, o l’avete fatto per liberarmi dalla prigione? (a donna Pasqua)
Pasqua. No, fio mio, pur tropo ho dito la veritae.
Lelio. Io son l’uomo più contento di questo mondo.
Menego. No son miga contento mi.
Lelio. Caro padre, perchè?
Menego. Perchè no me par de star tropo ben, acquistando sto bel fior de vertù.
Lelio. Sentite, io ho fatto poco buona riuscita, perchè mi volevano far fare una figura lontana dalla mia inclinazione. Datemi una berretta rossa, un remo in mano, e una buona barcaruola al fianco, e vedrete se nuscirò bene.
Menego. E ti voressi far el barcariol col linci e squinci?
Lelio. El ghe xe, parlerò anca mi veneziano.
Menego. Via, che ti fa stomego. Siora mugier, l’ave fata bela.
Pasqua. Caro vechio, no so cossa dir. Ho fato per far ben.
Menego. Sangue de diana, che me faressi vegnir caldo.
Pasqua. Via, caro mario, no andè in colera. Vogième ben, che son la vostra vechieta.
Menego. Se avesse perso un fio bon, me la lassarave passar: ma averghene trova un cativo, la me despiase. Quanto giera megio che avessi tasesto, e che l’avessi lassa andar in tanta malora. (a donna Pasqua, e parte)
Lelio. Questo mio padre mi vuole un gran bene.
Pasqua. Col tempo el ve vorà ben.
Lelio. O bene o male, poco m’importa. Mi pare di esser rinato. Il dover far da signore mi poneva in una gran soggezione. Non vedo l’ora di buttar via questa maledetta perrucca. (parte)
Pasqua. Voleva taser, ma no ho podesto. A la fin, son so mare; e se perdo sto fio, no so se ghe n’averò altri. Chi sa! Se poderave anca dar. No son tanto vechia; e el mio caro Menego me vol ben. Causa sto mio fio, che no se avemo malistentew vardà; ma dopo cena me lo chiapo, e me lo strucolo co fa un limon. (parte)
SCENA XXV.
Altra camera del marchese Ottavio con lumi.
Il marchese Ottavio e la marchesa Beatrice, mascherata come sopra.
Ottavio. Via, la mia cara Bettina, siate buona, non siate così austera con me, che vi voglio tanto bene. Di che avete paura? Orsù, conosco la vostra modestia; mi è nota la vostra onoraratezza. So che sdegnate di amoreggiare un ammogliato; e so che fin tanto che io non son libero, sperar non posso la vostra grazia. Non dubitate. Ve lo confido con segretezza. Mia moglie ha una certa imperfezione, per cui morirà quanto prima. (Convien lusingarla per questa strada). (da sè)
Beatrice. (si smaschera) Obbligatissima alle sue grazie. Uomo perfido, scellerato che siete! A questo eccesso vi trasporta una brutale passione? Desiderar la morte di vostra moglie, e forse ancor procurarla per non avere chi vi rimproveri d’un amor disonesto? Eccovi per la seconda volta scoperto, deluso e mortificato. Ma io questa volta ho rilevato l’indegno animo vostro. Voi aspirate alla mia morte, ed io prevalendomi di un tale avviso, ricorrerò per il divorzio; mi dovrete restituire la dote; mi dovrete dar gli alimenti, e lo sapranno i miei e vostri parenti; lo saprà tutta Venezia. Pensateci, che io ci ho pensato. (parte)
Ottavio. Ah, vedo che questo amore vuol essere la mia rovina. Mia moglie è indiavolata. Sarà meglio lasciare questa ragazza. Veramente io son un gran pazzo; far tanti stenti per una donna, in tempo che le donne sono così a buon mercato. (parte)
SCENA XXVI.
Altra camera del marchese Ottavio senza lumi.
La marchesa Beatrice, conducendo per mano al buio Bettina mascherata.
Bettina. Cara Lustrissima, dove mai me menela?
Beatrice. In un luogo, dove sarete sicura dalle persecuzioni di mio marito.
Bettina. E Pasqualin dove xelo?
Beatrice. Ditemi, se Pasqualino venisse a star con voi qui al buio, lo ricevereste volentieri?
Bettina. Oh, lustrissima, no. No la fazza ch’el vegna, per amor del cielo.
Beatrice. Possibile?
Bettina. No certo.
Beatrice. (Eppure io non le credo). (da sè) Oh via, state qui un poco, che or ora verrò da voi.
Bettina. E ho da star a scuro?
Beatrice. Sì, per un poco. Fino che il Marchese va a letto.
Bettina. Oh povereta mi! Sta note m’ispirito.
Beatrice. Abbiate pazienza, che sarete consolata. (parte)
Bettina. (Si pone a sedere) Oh pazenzia benedeta, ti xe molto longa! So cossa ch’ho patio a vederme arente del mio Pasqualin e star imascherada, aciò che nol me cognossesse. Me sentiva strazzar el cuor. Ma l’onor xe una gran cossa!
SCENA XXVH.
La marchesa Beatrice con Pasqualino al buio, e detta.
Beatrice. Pasqualino, trattenetevi in questa camera fin che io torno; e acciò non abbiate paura, vi serrerò colla chiave. (forte, sicchè Bettina possa sentire)
Pasqualino. Ma perchè hoggio da star qua?
Beatrice. Lo saprete poi. Addio, buona notte. (parte, e chiude l’uscio)
Bettina. (Oh povera Bettina! Adesso stago fresca). (da sè)
Pasqualino. Anca questa la xe bela. La me cazza in t’una camera a scuro, senza dirme el perchè? Cossa hogio da far qua solo e senza luse? Oh, se qua ghe fusse la mia Betina, saveria ben cossa far! Ma sa el cielo dove che la xe. Eh, senz’altro quella cagna sassina la m’ha abandonà, la m’ha tradio.
Bettina. (Oh povereta mi, no posso più!) (da sè)
Pasqualino. Credeghe a le done! Tanti pianti, tanti zuramenti, tante mignognole34, e pò tolè, la me l’ha fata, la m’ha impianta.
Bettina. (No, anema mia, che no t’ho impiantà). (da sè)
Pasqualino. Ma chi l’averave mai dito! Una puta tanto da ben, che no la me voleva in casa mi per paura de perder la reputazion, che gnanca dopo che gh’ho dà el segno, no la me voleva tocar la man, andar via, scambiar vita, precipitarse, perder l’onor?
Bettina. (Oimè, che dolor! Oimè, che tormento!) (da sè)
Pasqualino. Ah Betina traditora! Ah ladra, sassina del mio cuor!
Bettina. (Piange forte.)
Pasqualino. Olà, coss’è sto negozio? Zente in camera? Qua ghe xe qualche tradimento. Agiuto. Chi è qua? (trova Bettina) Una dona? Oh povereto mi! Creatura, chi seu? Che fusse l’anema de Betina? Ma el xe un corpo e no la xe un’anema. Me sento che no posso più. Almanco per carità parleme, diseme chi sè. No la me responde. Coss’è sto negozio? Vedo passar una luse per el buso de la chiave. Oe, zente, agiuto, averzime.
SCENA XXVKIII.
La marchesa (BEATRICE con lume, aprendo la porta, e detti.
Beatrice. Che e’è, Pasqualino? Cos’avete?
Pasqualino. In camera ghe xe zente.
Beatrice. E per questo?
Pasqualino. M’ha parso una dona.
Beatrice. E bene?
Pasqualino. Mo chi xela?
Beatrice. Guardatela.
Pasqualino. Ti ti xe, anema mia! (si getta ai piedi di Bettina)
Beatrice. (Or ora muoiono tutti due dalla consolazione), (da sè)
Pasqualino. Mo perchè no parlar?
Bettina. Perchè son una puta onorata.
Beatrice. Veramente ora conosco che siete tale. Non avrei mai creduto che in una giovane, e sposa, come voi siete, si desse tanto contegno.
Pasqualino. Come seu qua? Come via de casa?
Beatrice. A suo tempo saprete tutto. Su via, premiate la sua onestà. Datele la mano di sposo.
Pasqualino. Son qua, vissere mie, se ti me vol.
Bettina. Senza dota, come faremio? Sior Pantalon no me darà i dusento ducati.
Pasqualino. Sior Pantalon? Velo qua.
SCENA XXIX.
Pantalone e detti.
Pantalone. Vien qua, fio mio, lassa che te strucola e che te basa. (a Pasqualino)
Pasqualino. A mi, sior Pantalon?
Pantalone. Sì, dime pare, no me dir Pantalon. Donna Pasqua no xe to mare, la giera la to nena, e la t’ha baratà in cuna. Sì, che ti xe el mio caro fio. (lo abbraccia e lo va baciando)
Bettina. Un’altra desgrazia per mi. Pasqualin no xe più mio mario.
Pasqualino. Oimè! Xe grando el contento, che gh’ho trova un pare de sta sorte, ricco, civil e amoroso; ma sto mio contento vien amanza da un dolor che me dà la morte.
Pantalone. Per cossa, fio mio? Parleme con libertà.
Pasqualino. Savè quanto ben che mi vogio a la mia Betina; sperava de averla per mugier; ma adesso che son vostro fio...
Pantalone. Adesso che ti xe mio fio, ti l’ha da sposar subito immediatamente. Bettina merita tutto; no averave riguardo de sposarla mi, molto meggio ti la pol sposar ti; fin che ti gieri un povero putto, fio d’un barcariol, no la voleva precipitar; adesso son contento, te la dago, e mi medesimo unisso la to man co la soa. (si avvicina)
Pasqualino. Oh cara! Oh che contento! (toccandole la mano)
Bettina. Ahi, che moro da l’alegrezza35! (sviene sulla sedia)
Pantalone. Acqua, zente, agiuto.
SCENA ULTIMA.
Il marchese Ottavio, Catte, Lelio, Arlecchino, Brighella e detti.
Tutti corrono a vedere cos’è. Tutti procurano farla rinvenire con qualche cosa.
Pantalone. Aspetta, lasse far a mi, che gh’ho speranza de farla revegnir subito. Vien qua, caro fio. (a Pasqualino. Tira fuori una forbice, taglia un poco de’ capelli a Pasqualino, li abbrucia e li mette sotto il naso di Bettina, che riviene) No ve l’hogio dito? Tiolè, imparè. L’odor de l’omo fa revegnir la donna. Sior Marchese, za l’averà savesto...
Ottavio. So tutto. So che Pasqualino si è scoperto vostro figlio. So che è sposo di Bettina, ed io ne son contento. Anzi vi prego far sì che mia moglie mi perdoni le mie debolezze.
Pantalone. Hala sentio? (a Beatrice)
Beatrice. Basta che mutiate vita, io vi perdonerò. (ad Ottavio)
Ottavio. In quanto a questo poi, se s’ha da mutar vita, l’abbiamo a far tutti due.
Beatrice. Io m’impegno di farlo.
Ottavio. Ed io giuro di secondarvi.
Menego. (Zuramenti de zogadori e de marineri). (da sè)
Lelio. Signori sposi, mi rallegro con voi. Amico, possiamo far negozio. Abbiamo cambiato condizione, possiamo ancora barattar gli abiti. (a Pasqualino)
Pasqualino. Tuto quel che volè; me basta la mia Betina.
Lelio. Da qui a una settimana non direte così.
Catte. Siori, xeli contenti che diga do parole anca mi?
Ottavio. Sì, parlate pure.
Catte. Se fa le nozze senza un puoco d’alegria? No ghe xe quatro confeti con un puoco de cicolata36? Almanco un goto de vin da bever.
Pantalone. Questa xe la solita lezion.
Pasqualino. M’arecordo del mio ducato.
Ottavio. Via, Brighella, fate portare quattro dolci del mio deser, un fiasco di vino buono. Messer Menico, andate anche voi.
Brighella. (Parte.)
Menego. Mi? a cossa far, lustrissimo?
Ottavio. A portar qualche cosa.
Menego. Mi a portar? La me perdona. I servitori de barca de la mia sorte no i porta. Fazza chi toca. Mi tendo a la mia barca. Ognun dal canto suo cura si prenda.
Pantalone. Xe la veritae, sala. I barcarioi che sta sul ponto d’onor, no i vol far altro che tender a la so barca.
Ottavio. Bene, io mi rimetto.
Brighella. (viene con altri servi con dolci e vino.)
Ottavio. Date da bevere agli sposi, alla signora Catte, a tutti.
Catte. E viva i novizzi. (beve)
Lelio. E viva gli sposi. (beve)
Bettina. (Prende un bicchier di vino in mano, e rivolta all’udienza, recita il seguente
SONETTO.
Co sto vin dolce un prindese vôi far.
Come el debito corre a chi me sente,
E un soneto dirò, che no val gnente,
Ma che per sta ocasion me pol bastar.
Vogio co le mie rime ringraziar
Chi xe verso de mi grato e indulgente,
E savendo che son insuficiente,
Tuti i difeti mii sa perdonar.
E se Puta Onorata adesso son,
A le pute voltar vogio el mio dir,
E dirghe do parole, ma in scondon.
Pute, da amor no ve lassè tradir:
Se onorate sarè, parerè bon,
Piutosto che far mal, s’ha da morir37.
Fine della Commedia.
- Note dell'autore
- ↑ Allocco, uomo grossolano.
- ↑ C’è mancamento? c’è che dire?
- ↑ Dove non si sente aria.
- ↑ Tira vento, è freddo.
- ↑ Con un boccale di vino
- ↑ Due soldi
- ↑ Colle carte da giuoco.
- ↑ Donna di partito.
- ↑ O naturalmente, o per artifizio.
- ↑ Vetri.
- ↑ Ghiaccio. Tutte le edd. stampano ghiazzo.
- ↑ È al verde, non ha quattrini.
- ↑ È un brindisi.
- ↑ In grandissima quantità.
- ↑ I birri
- ↑ Guardanao.
- ↑ Il parlare di Lelio è qui veneziano contraffatto da lui, per acquistar grazia dalla compagnia, e mostrar che sa parlare.
- ↑ In un cerchio.
- ↑ Di mal costume.
- ↑ Ci faremo vezzi.
- ↑ Come si dee. Di garbo.
- ↑ Ad abbracciare stretto e baciare.
- ↑ Appena.
- Note dell'editore
- ↑ Zatta: faremmo.
- ↑ Così tutte le edd.; forse è da correggere: indi parte.
- ↑ Sav. e Zatta: dirme.
- ↑ Zatta: tuta sta note.
- ↑ Birri: V. Boerio.
- ↑ Sottana, gonnella. Boerio.
- ↑ Sav. e Zatta; se i.
- ↑ «Maschera, ma è propriamente quella coperta di velluto nero che sta attaccata alla faccia mediante il tener in bocca un bottoncino, che v’è nel sito in cui dovrebb’essere l'apertura della bocca»: Boerio, Diz. cit.
- ↑ Così Bettin.; tutte le altre edd.: Si ti m’intendi?
- ↑ Gran mercè.
- ↑ Bettin. aggiunge: Poi Titta barcaiuolo con il lampione, conducendo altre maschere.
- ↑ «Sana capàna. Locuz. furbesca de’ nostri barcaiuoli, e vale Alla salute della compagnia. Specie di brindisi»: Boerio, Diz. cit.
- ↑ Mai, mai no.
- ↑ Dar la soia, beffare.
- ↑ La cicisbea, l’amante; vedi più avanti.
- ↑ Bettin.: contime.
- ↑ Maga o magazen, luogo dove si vende vino al minuto, taverna: v. Boerio.
- ↑ Che importa.
- ↑ Morbido, delicato, dolce.
- ↑ Accrescitivo: abiti di lusso.
- ↑ Zunar, digiunare.
- ↑ Sav. e Zatta: le sbate.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta; a nu.
- ↑ Spia.
- ↑ Sav. e Zatta: ela la xe?
- ↑ Bettin.: volseu.
- ↑ Bettin.: andesimo.
- ↑ Sav. e Zatta: lasseu.
- ↑ Sav. e Zatta: comparo.
- ↑ Così Sav. e Zatta; Paper, e altri: pacienza.
- ↑ Balia.
- ↑ Sav. e Zatta: baratao.
- ↑ Grandissimo l’uso della triaca (o tenaca) a Venezia e il commercio in Levante. Più famose per questo medicinale, ai tempi del Goldoni, erano le farmacie all’insegna della Madonna a S. Bartolomeo, e alla Testa d’oro, sul ponte di Rialto.
- ↑ Vezzi, moine.
- ↑ Sav. e Zatta: allegria.
- ↑ Sav. e Zatta: cioccolata.
- ↑ Nel codice Cicogna 360 (ora 1410) trovasi, a pagg. 136-139, questo sonetto nella sua prima forma più rozza, seguito da una lunga coda; e servì di ringraziamento o di addio alla compagnia Medebach, l’ultima sera del carnovale 1748-49. sul teatro di S. Angelo. Per intero lo leggeremo insieme cogli altri componimenti vari del Goldoni.