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484 | ATTO TERZO |
tano di quelle gioje in casa; che alla moglie si porta rispetto, e non le si dà questa sorta di mali esempi.
(entra nella camera ove è Bettina, e serra la porta)
Ottavio. Io resto stordito, come la Marchesa abbia saputo di questo fatto! Come ha potuto penetrare... Ma! Io all’oscuro ho parlato con Bettina; e ora dov’è andata? Ah sì, la Marchesa me l’ha involata! Ma prima ch’ella me la faccia sparire da questa casa, vo’ ritrovarla, vo’ meco condurla. Son nell’impegno; se vi andasse la casa, voglio superare il mio punto. (parte)
SCENA VII.
Segue notte. Strada.
Catte in zendale.
Dove songio? Dove vaghio? Co sto bocon de scuro no cognosso gnanca le strade. Almanco i impizzasse i ferali; ma s’aspeta la luna, ghe vuol pazenzia! Dove mai sarà la mia povera sorela! Chi mai l’ha menada via? Ah, certo no pol esser stà altro che sior Marchese. Ma senza farne morir de spasemo, no podevelo dirmene1 una parola a mi, che ghe l’averave menada fin a casa? Me despiase de mi, poverazza, che no so dove andar, e gh’ho paura de dover star sta note tuta2a chiapar i freschi. Almanco passasse qualche bona creatura, che se movesse a compassion.
SCENA VIII.
Lelio e detta.
Lelio. Quanto mi piace la mia cara Venezia! Non me ne ricordavo più, perchè son tanti anni che io manco. Ma queste donne particolarmente, queste donne, queste Veneziane farebbero innamorare i sassi. Dove si trova mai tanta grazia? Tanto brio? Tanto garbo? Anco le brutte fanno la loro figura. Si sanno