La giustizia/VI
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VI.
Una mattina d’autunno Serafina sellò il cavallo, legò alla sella la piccola bisaccia bianca a fiorami rossi, e salì per avvertire il padrone che tutto era pronto.
Nel salottino sentì don Stefano e la moglie in intimo colloquio, e naturalmente si fermò un momento ad origliare. — Se lo incontro lo frusto, come è vero Dio! — diceva il padrone sdegnosamente, andando di qua e di là per completare la sua toeletta da cacciatore, e facendo molto chiasso con le sue polacche gialle scricchiolanti.
— No, no, per carità, no, no.... — ripeteva Maria, supplicando paurosa.
— Chi diavolo frusta? — pensò malignamente Serafina.
— Se lo incontro in un luogo deserto che nessuno ci veda, ti assicuro che gli faccio la festa.... — disse Stefano, e aggiunse un energico aggettivo.
— No, no, che sciocco che sei....
— Sciocco davvero! — pensò Serafina, — se volesse frustarlo potrebbe farlo più vicino di quel che crede.
Ma probabilmente ella si sbagliava sulla persona minacciata, perchè cambiò fisonomia quando Stefano, ch’era entrato nella camera attigua, ritornò dicendo:
— Se viene ancora sua moglie gettala giù per le scale....
— Ecco una cosa che non saprò fare! — rispose ridendo Maria.
— È Arcangelo Porri che frusta! — pensò la serva, e picchiò, dicendo: — Il cavallo è pronto.
— Addio, cara, — disse Stefano alla moglie, sollevandosi per staccare il fucile dalla panoplia delle sue armi. Si mise ad armacollo il fucile e baciò Maria.
— A che ora sarai qui?
— Non so. Farà una bella giornata. Addio, Maria.
Ella lo accompagnò per le scale tenendogli la mano e pregandolo di non far sciocchezze; ma appena fuori del paese egli prese appunto la via che conduceva a Nuraghe ruju, la tanca ov’era l’ovile del Porri.
Scuotendo le piccole orecchie, inarcando elegantemente la coda, il cavallo trottava a testa alta; i tre cani, di cui due color caffè-latte, con occhi castani limpidissimi, si rincorrevano, mordicchiandosi per gioco, fiutando per terra e abbaiando: talvolta restavano indietro, si fermavano, infilavano sentieri diversi da quello percorso, e allora Stefano fermava il cavallo, fischiava e li richiamava.
— Tè, tè, Josto! Jostooo?... Va avanti, che diavolo? Non la finiremo più, oggi? Gelsomina? Tè, Gelsomina, tè, tè, psss, psssiii! Se smonto ti dò una pedata che ti tronco le reni.
I cani ritornavano, s’aggiravano attorno al cavallo, rizzandosi sulle zampe; e visto il frustino del padrone sollevarsi con minaccia, ripigliavano la giocosa corsa in avanti, salvo a sbandarsi ancora dopo pochi istanti.
La giornata era splendida, il cielo purissimo, le lontananze così azzurre da confondersi col cielo. La fine e breve erba d’autunno stendeva lunghi tappeti di felpa verde nei lati ombrosi delle strade campestri, i cespugli soleggiati brillavano di rugiada, sui sassosi argini rivestiti di musco, fra cui stillavano freschi rivoletti d’acqua, qualche bianca margherita sfumata in violetto, qualche tralcio di vitalba dai bottoni verde-argento, tremavano vivificati da un invisibile soffio. Passava nell’aria un largo, indefinibile profumo di freschezza selvaggia e pura, un lontano fragore di torrente, qualche vago tintinnìo di greggi erranti, qualche nota canora d’uccello silvestre, distinta appena nell’intenso silenzio della solitudine che smorzava ogni suono.
Lasciatosi alle spalle il lontano profilo delle ultime case pietrose del villaggio, Stefano provò una piacevole sensazione fisica e morale.
Più che con l’intenzione di cacciar pernici o lepri, o scovare magari qualche cinghiale, egli quella mattina era partito col desiderio d’incontrare Arcangelo Porri e violentemente rimproverargli la sua viltà.
Il giorno prima la moglie del pastore, recatasi dagli Arca, aveva detto a Maria:
— Mi manda mio marito. Lei sa ch’è stato citato per testimonio; è andato a Nuoro e disse che Saturnino Chessa gli confidò una volta di voler uccidere don Carlo, buon’anima....
— E chi l’aveva incaricato?
— Questo, mio marito non l’ha detto. Dio ne scampi e liberi; se egli dice così è un uomo perduto....
— Ma la verità?
— La vita è prima della verità! Mio marito è padre di famiglia. Però....
— Però?
— Mio marito è nuovamente citato: l’hanno fatto citare loro?
— Chi, noi? Nient’affatto. Ma sarà forse perchè si farà il dibattimento in contumacia.
Visibilmente spaventata, la donnicciuola si fece il segno della croce, mettendosi un po’ di saliva sotto il mento.
— E mio marito dovrà giurare?
— Infine! — proruppe Maria. — Che cosa siete venuta a dirmi, buona donna?
— Che, a costo di perder l’anima, mio marito non può pregiudicare sè e la famiglia, se...
— È una storia che sappiamo a memoria, disse Maria sdegnosa ed infastidita. — Ad ogni modo ne parlerò con mio marito. Ritornate domani.
Ora, dopo il suo sdegno, galoppando attraverso la campagna autunnale, Stefano pensava:
— Dopo tutto, se quel vecchio diavolo avesse ragione? Se si potesse pigliarlo con le buone, oppure se si potesse giocar d’astuzia con lui? Tè, Gelsomina, dove vai? Ohè, che c’è là?
C’erano tre pernici su un pero selvatico, dietro un muro rovinato: fermò di botto il cavallo, smontò; e mentre i cani s’acquetavano fremendo, spianò il fucile, mirò con la testa bassa e un occhio chiuso, e sparò.
Due pernici volarono via, una cadde: il cavallo diede un balzo, i cani si slanciarono a coda ritta verso il muro, che sveltamente saltarono, e lo sparo si perdette in lontananza, echeggiando. Col fucile in mano, ed i piedi in un cespuglio d’erba bagnata, Stefano fermò il cavallo e stette ad aspettare.
Primo a ricomparir sul muro fu Josto, con in bocca la pernice dalle variopinte ali picchiettate di grigio scuro, bianco, nero, giallo cupo e color cannella, ancora spiegate, e il rosso becco aperto: il cane ritornò correndo, con occhi scintillanti, seguito dagli altri due cani, che a metà strada si fermarono, quasi umiliati dalla prodezza del compagno.
Stefano tolse la pernice, le piegò l’ali sul petto ferito ancor palpitante, e la gettò entro la bisaccia; e rimontò in sella, facendo camminar passo passo il cavallo, con la speranza che i cani scovassero altre pernici nelle macchie di bassi peri selvatici e di olivastri; ma per un buon tratto di strada, per quanto Josto fiutasse e frugasse, non si scorse altro volatile che qualche corvo perduto nelle azzurre trasparenze del cielo sereno.
Rasa e deserta la campagna; si susseguivano solo in lunghe linee d’un verde cupo e melanconico le scapigliate macchie degli ulivastri, dei peri selvatici, dei rovi, schiarite qua e là da qualche verdissimo cespuglio di brusco: e così intenso ed esteso era il silenzio che l’eco dei passi del cavallo risuonava lontano.
Dopo un buon tratto di galoppo, Stefano mise capo nella regia strada che attraversava la bassa montagna al di là della quale erano le tancas di Nuraghe ruju. Sotto lo stradale scendeva rapida una valle, sul cui fondo scorreva un torrente, detto anch’esso di Nuraghe ruju perchè una sciocca tradizione popolare affermava che quelle povere acque raccogliticcie scaturivano sotto il nuraghe del versante opposto e attraversavano tutto il seno della montagna per canali scavati dai giganti.
Percorso un tratto del pittoresco stradale, Stefano doveva salir la montagna; ma essendo forse le undici, volle prima scender e far colazione in un angolo soleggiato della sottostante china. Il luogo, l’ora, il cielo, il paesaggio, avevano qualche cosa di ineffabilmente dolce. Sotto ai piedi di Stefano scendevano per la china soleggiata vecchi ulivi nodosi, cespugli e macchie spioventi dalle roccie; e le fronde e le foglie brillavano smaltate d’argento. Quasi nero nell’ombra saliva in faccia a lui l’opposto versante della valle, sul cui orizzonte una fila di lentischi stendeva una frastagliata linea verde; negli sfondi pianure e montagne azzurre; al di sopra della sua testa la muraglia dello stradale, di pietra schistosa, scintillava al sole come acciaio brunito, e sulla linea del paracarri, sul fondo inenarrabilmente turchino del cielo, alcuni cespugli sfumavano guardando la valle. E sopra ogni cosa due grigi fili telegrafici solcavano nettamente l’aria, quasi vigilanti sull’insidioso sogno e le selvaggie solitudini della valle e della montagna deserta. Invisibile, il torrente correva incessantemente, roteando nello stretto alveo di pietra: e sul cupo sfondo della sua nota bassa e fragorosa, sempre monotonamente e melanconicamente eguale, risuonava, or distinta, ora sfumata, or vicina ed or lontana, l’acuta squilla d’una campana di chiesetta campestre.
Qualche festa doveva esserci dietro la valle, dietro la metallica linea degli ultimi lentischi; e in quell’ora, mentre le cavalle bianche e i sauri puledri nitrivano fra le macchie, le fanciulle dai grembiuli di damasco e i giovani dai giustacuori di porpora lasciavano il circolo dell’antico ballo sardo per entrare all’ultima messa; e le donne mature preparavano la minestra colla giuncata e gli uomini arrostivano i lombi degli arieti per l’omerico banchetto.
Stefano ebbe la visione della festa, che sotto la doppia appariscenza di quadro biblico e d’antica rappresentazione ellenica, celava un indomito spirito selvaggio; e sorridendo fra sè disse:
— Beviamo!
Bevette, rovesciando la testa sotto la stretta bocca del fiaschetto di legno inciso, e sentì il vino scendergli fresco per la gola un po’ arsa, poi spanderglisi caldo e vibrante per l’interno del petto; e la piacevole sensazione di benessere e d’ottimismo cominciata a provare poche ore prima crebbe e lo vinse tutto dolcemente.
I cani, scesi sino al fiume, risalirono correndo, ansando, e s’accovacciarono con la rossa lingua penzoloni; legato ad un ulivo, il cavallo strappava ciuffi d’erba.
Stefano si sdraiò sulla rada erba della china, e stette così, riscaldato internamente dal vino ed esternamente dal sole, immerso nella visione del cielo azzurro, nella musica dell’acqua e della campana, nella fragranza dei cespugli e delle erbe. Era un piacere: era ancora la voluttuosa sensazione delle sieste estive, ma goduta nel pieno possedimento e nel completo risveglio dei sensi; era anzi il senso stesso della vita, l’ineffabile piacere dell’esistenza sentita fra le sane visioni e le misteriose voci della Natura.
Era il continuo e sonoro stormire d’immense foreste, nella cui voce gemente prorompeva il grido d’un popolo intero, d’una solitaria razza inneggiante patetiche e selvaggie melodie, mescolate d’antiche preghiere e d’antiche maledizioni, di pianti sommessi e superbi e di risate dolcissime e sardoniche, — grido di guerra e grido d’amore che s’alzava verso idoli ignoti, verso occulti nemici, verso simboli strani, verso il Sole, la Luna, il Fuoco, il Ferro, la Passione e l’Odio; — era la voce della razza sarda, trasfusa nel fragore del torrente, simile al mormorar delle patrie selve da cui il popolo, discendente dagli Jolei, avea tratto il motivo triste e solenne delle sue musiche e dei suoi canti. E il sottile e metallico squillare, or vicino ed or lontano, della campana librata sul corroso portico della invisibile chiesetta campestre, ricamava su quel sonoro sfondo una trama di fili iridescenti, diafani e brillanti come tela di ragno, dando a sua volta l’illusione di tenere voci infantili, di gridi d’uccelli, di cristalline risate, di fiori selvatici che sfogliandosi sull’alto della valle spandessero diafani petali rosei e cremisini sulla vitrea e spumosa acqua del torrente, che li stravolgeva e affogava nel suo incessante fragore.
Stefano ascoltava affascinato; nei suoni delle acque e nel selvaggio splendore del cielo ritrovava il mistero di sè e della sua razza, della sua anima e del sangue che gli pulsava nella nuca e nelle mani e nel petto. Era egli, egli stesso la sua natura felina, la voce degli avi che potente gli risuonava in fondo all’essere; erano i suoi istinti, i suoi desideri insoddisfatti, i suoi bisogni di passione, d’amore, d’odio, di bene e di male, i suoi tedî profondi, la sua insidiosa indifferenza che, come cenere sulle brage, velava sogni tanto più tormentosi quanto più inafferrabili.
Egli si vide piccolo, ingiusto e debole. Sentì che il suo stesso carattere e non la gretta vita stagnante del paese lo rendeva scontento e cattivo: anche nelle grandi città, nei focolari di civiltà, di attività, di lusso e piacere, sarebbe stato un imbelle indolente. Povero e costretto al lavoro e alla lotta, sarebbe diventato perverso. Quando dietro alle note del ' Tannhäuser s’illudeva di trovare in sè un germe d’ideali che lo spronavano all’opera, mentiva.
Egli non desiderava lavorare, e sentiva disgusto per coloro che dicendosi socialisti non erano che egoisti invidiosi del bene altrui; e mai egli s’era doluto delle sue ricchezze, appunto perchè il suo istinto atavico, dominato dall’atanasia naturale della razza sarda, lo portava all’ozio e al disprezzo d’ogni sorta di lavoro richiedente opera manuale o sforzo intellettuale. Lavorare? Ma come e perchè? Il lavoro, tanto più se spronato dal bisogno, avrebbe acuito il suo pessimismo, forse rendendolo malvagio. Egli dunque mentiva a se stesso. Mentiva su tutto. Mentiva affermando segretamente che non amava più Maria perchè in lei non aveva trovato la donna superiore e spirituale dei suoi sogni. Ella era buona ed onesta, ed aveva finezze che niuna donna côlta poteva superare. Egli cessava d’amarla perchè la sua mala indole, ora che Maria lo amava e gli si era tutta data, lo portava al fastidio delle cose possedute; ed altrettanto avrebbe fatto con qualsiasi donna superiore e côlta.
Egli mentiva allorchè si sdegnava contro le vigliaccherie e le infamie umane: il suo non era il nobile sdegno d’uno spirito puro, ma la collera dell’uomo che dalle viltà e dalle menzogne altrui vede attraversati i suoi disegni. Avrebbe forse gridato contro il Porri se questo non avesse preteso denaro in cambio della sua falsità? — No! — gridò la coscienza. Ed egli sorrise amaramente, ma senza più sdegnarsi nè contro il Porri, nè contro se stesso.
Sentì che quella mattina si era avviato verso le sue tancas per castigare il Porri, non della falsità, ma della verità detta al giudice. E sino a pochi momenti prima egli non aveva chiaramente distinto la debolezza della sua azione; anzi, uscendo da casa sua, gli era parso d’andar a compiere un atto di giustizia.
Sempre così nella vita!
Inconsapevolmente o per malignità, individualmente o riuniti in consesso civile, gli uomini errano nel giudicare sè stessi e gli altri.
Nel formulare questo pensiero, egli si credè illuminato da una gran luce di verità; ma invece di provarne amarezza sentì aumentare il senso di gioia che tutto lo animava; gli parve che il suo spirito si purificasse, diventando incorporeo e luminoso; e neppur rapidamente lo sfiorò il dubbio che anche in quel momento egli s’ingannasse, e, giusta la sua teoria, fosse fallibile giudice di sè e degli altri.
Ma un incidente abbastanza volgare lo scosse. Era il rotare d’una carrozza sullo stradale: s’udiva lo schioccar della frusta e il grido del vetturino.
I cani si levarono abbaiando. Stefano si sollevò e volse la testa; ma la vettura passò rapidamente, e al disopra del parapetto egli non vide che il serpentino volteggiar della frusta grigia: poi il rumore delle ruote andò smorzandosi lentamente; e di nuovo imperò per tutta la valle la selvaggia e triste corsa del torrente.
Ma l’incanto era rotto, Stefano perdette quell’intima superiorità di sensazioni che per qualche istante l’aveva reso felice e puro; e rimontato a cavallo riprese la sua via un po’ pensieroso e triste, ma tuttavia invaso da un resto di dolcezza, da un ben forte e ben formulato desiderio di giustizia e di bene.
Sullo stradale fermò il cavallo vicino al paracarri, ascoltando ancora il romore delle acque, e guardando il soleggiato angolo ove si era riposato, quasi ad imprimersi negli occhi la fisionomia del luogo che aveva operato in lui il meraviglioso incanto.
Dall’alto il luogo gli parve diverso, e nella musica del torrente non sentì più che una nota monotona e melanconica; ma non ne provò dolore, perchè entro di sè sentiva ancor indelebile la profonda impressione di quell’alto cielo, di quel motivo musicale che svelava tutte le dolcezze e le grandezze, i sentimenti di scontentezza e le aspirazioni di giustizia, i grandi dolori e le fiere gioie della grande anima sarda.
I cani correvano sempre; un momento sparvero, poi ricomparirono più in alto, più in alto ancora, finchè si fermarono sull’estremo gradino del sentiero, campeggianti sull’azzurro del cielo.
Sentendoli abbaiare, Stefano pensò che qualche persona saliva forse l’altro versante, e guardò. Due dei cani sparvero, ma Josto, dal nero profilo, rimase lassù, abbaiando e aspettando il padrone.
Chi saliva, al di là?
Egli battè il fianco del cavallo, e l’animale affrettò il passo; ancora una breve giravolta, ancora un’aspra salita ed ecco la cima. Josto abbaiava sempre, e Stefano fischiò per farlo tacere, pensando che a quell’altezza, in quell’ora radiosa del mezzodì, fra tanto splendore di paesaggio e d’orizzonti, chiunque fosse che veniva incontro, o un pastore a piedi o un ricco viandante a cavallo, aveva diritto di salutare e d’esser salutato. Josto tacque.
Contemporaneamente a Stefano, apparve sulla scintillante linea dell’ultimo gradino, prima la testa, poi il busto e infine tutta la persona forte e snella di un paesano: e le due figure, di cui quella a cavallo parve una equestre statua di bronzo, campeggiarono sul vuoto turchino del cielo, poi sparvero, calarono dalla parte contraria ond’erano salite.
Appena vedutisi, il paesano e Stefano impallidirono, e il rapido sguardo che si scambiarono fu un tragico poema.
Ma di tutte le sensazioni Stefano giunse a afferrarne una sola, e precisamente quella buona e nobile di pace e d’equità che l’aveva seguito su dalla valle sottostante: e benchè sotto il travestimento da paesano riconoscesse Filippo Gonnesa, salutò.
Ma lo colse tale un turbamento, un forte palpitare, che non s’avvide se il nemico aveva o no risposto al saluto; e solo dopo un certo tratto di strada ritrovò perfettamente tutte le sue percezioni. Allora si stupì, si sdegnò, sentì tutto il sangue salirgli ardente al volto: e di nuovo le sensazioni feline e violente vollero levarsi ribelli, rinfacciandogli quel saluto come una viltà; ma ancora una volta s’impose, solenne e limpida come l’estesa visione del gran cielo sereno, del gran paesaggio or confinante con le cerule montagne della costa, la nobile idea di giustizia e di pace che lo aveva conquiso nella valle e seguito su per la Scala dei gigli. Ianna ’e bentos (Porta dei venti), com’era chiamata l’estrema cima del sentiero, s’allontanava ancora. Scendendo lentamente il versante orientale, mentre il cavallo andava ancor più cautamente, Stefano pensò per la prima volta che il Gonnesa poteva essere innocente del delitto imputatogli. Gli restava vivissima negli occhi l’impressione del limpido e profondo sguardo direttogli rapidamente da lui.
Era egli innocente?
Doveva forse esserlo, perchè, se colpevole una volta, ora sarebbe rimasto lassù, sulla Porta dei venti, e avrebbe fulminato il suo nemico e persecutore.
Invece s’era tirato da una parte per lasciar passare colui il cui saluto non poteva che inasprirgli le più sanguinanti piaghe del cuore, e poi era disceso senza voltarsi, senza diffidare, senza porsi in atto d’offesa o di difesa; e il suo sguardo, benchè rapido e sorpreso, era stato così limpido e sereno, che anche Stefano, nel suo turbamento, era sceso senza ombra di diffidenza o di timore.
Dopo circa mezz’ora egli passò il varco della sua grandissima tanca, che scendendo giù per tutto il resto della montagna si stendeva poi in fertilissimi pascoli per un tratto della sottostante pianura. Meno aspro e meno arido dell’opposto, questo versante era vôlto ad oriente, in faccia alle lontane montagne che guardavano il mare, fra le quali spiccava, dolcemente azzurro nella sua chiara tinta calcarea, Monte Bardìa: boschi d’elci e fitte brughiere coronavano la tanca degli Arca, chiusa da muriccie di schisto le cui lastre brillavano come frammenti di metallo bruno; il nuraghe, che dava il nome al territorio, consisteva solamente in un mucchio di grossi macigni neri che parevano passati al fuoco.
Il Porri, che aveva subaffittato la tanca ritenendo per il bestiame i pascoli meno fertili e meno facili, stava appollaiato come un avvoltoio in una capanna vicina al nuraghe: di là dominava regalmente su tutta la tanca e i sottoposti pastori: aveva porci, capre e pecore; aveva una fila d’alveari addossati al muro dell’ovile, e inoltre dissodava certi aspri pendii per seminarvi orzo e frumento.
I cani di Stefano si diedero a scorrazzare allegramente fra le macchie, e dopo un poco Josto penetrò nella capanna, fiutando la pietra del focolare, e sollevò la cenere polverosa. Il grosso cane fulvo legato presso la capanna cominciò ad abbaiare cupamente, con un latrato rauco che destò gli echi sonori dell’aspro paesaggio; ma nessuno apparve.
— Dove diavolo è quel mascalzone? — domandò Stefano smontando. Senza togliergli la sella perchè sudato, legò il cavallo ad un elce: fischiò, attese, ma nonostante i continui e potenti latrati del cane, nessuno compariva. Allora avanzò per una breve radura in cerca del pastore: sulle roccie apparivano le capre bianche dalla lunga barba appuntita; guardavano con grandi occhi neri umidi, e vedendo il giovane signore si arrampicavano ancor più in alto, andando a brucare gli estremi cespugli dei dirupi: anche un branco di porci magri, neri, grigi e gialli, che rovistavano col muso un tratto della radura, sparirono grugnendo.
Finalmente s’udì una voce che gridava per radunare i porci sbandati: — Oh, oh! Och, och! ’Zo, ’zo!
— Ecco l’amico, pensò Stefano, — vediamo che viso fa nel vedermi.
Poco dopo incontrò il Porri, più che mai sporco, con la barba che sembrava proprio una foresta arrossata e ingiallita dai venti autunnali, e la berretta calata fin sugli occhi.
— Oh, compare don Isténe, oh, che Dio lo salvi, oh, che buon vento l’ha portato qui! — cominciò a gridare, cessando di batter le mani e di radunar i porci; ma bastò a Stefano un’alzata di ciglio per accorgersi che la sua presenza turbava il pastore.
— È un’ora che vi cerco! — disse rudemente. — Dove diavolo v’eravate ficcato? Vi è della caccia da queste parti?
Accorgendosi, a sua volta, della poco lieta cera del padrone, che forse aveva incontrato e indovinato donde proveniva Filippo Gonnesa, il pastore volse l’argomento in suo favore.
— Se fosse venuto un’ora fa, sì che ne avrebbe trovato buona caccia! — disse ridendo malignamente. — Non ha incontrato nessuno?
— Io? Nessuno! — rispose Stefano freddamente.
— Non sa chi c’è stato? L’aquila nuova (s’abile noa, così si chiamava il Gonnesa, il cui padre era soprannominato l’aquila antica.) — È venuto a minacciarmi che guai se pronunziavo il suo nome assieme a quello di Saturnino Chessa, buon’anima, il diavolo l’abbia sotto il suo uncino. E cosa mi puoi fare, gli dissi, facendomi più piccolo d’un capretto. S’abile non cassat muscas1. E risi, ma in coscienza mia che il mio riso era giallo come lo zafferano. Egli mi disse: L’aquila t’insegnerà il modo di vivere, vecchio falco! e se ne andò tuonando e lampeggiando. Lo vede bene, compare don Isténe, io sono un uomo rovinato, in qualunque modo mi comporti.
Stefano l’aveva ascoltato svogliatamente, voltandosi di qua e di là, buttando lontano col piede una pietruzza, fischiando e chiamando i cani.
Sicuro della falsità e malignità del pastore, si sforzava invano di crederlo sincero per tenersi sulla via dei buoni sentimenti provati in quel giorno; ma faceva grave violenza a se stesso per tenersi calmo.
— Infine, — disse, — vostra moglie non è venuta a dirci che avete deposto in modo da non procurarvi malanni? Che diavolo volete che vi dica? Comportatevi come meglio vi piace. Son venuto per cacciare, oggi: non mi rompete le tasche con queste storie, delle quali ne ho già abbastanza quando sono in paese. Non vi è dunque nulla quassù? Neppur un’aquila davvero?
— Ah! Ah! — rise il pastore; ma probabilmente con un altro genere di riso giallo. — Altro che ce ne sono! Ma se avesse incontrato quella, eh?
— Gelsomina! — gridò acutamente Stefano, vedendo il cane correr dietro un povero porcellino spaventato.
— Lo prende per un cinghiale! Ohc! ohc! tè! tè! — gridò il pastore battendo le mani. Poi si volse ancora al padrone: — Se avesse incontrato quell’aquila?...
— Avrei fatto quel che mi pare e piace. E così vi prego di far voi. Il resto lo farà la giustizia. Andate e date qualche cosa al cavallo. Ma non c’è dunque nessuno, da queste parti?
— I miei compagni son tutti dispersi qua e là, che il diavolo li disperda. Io dissodavo là sotto; ma ho un bue malato e temo mi muoia. Ho mandato mio figlio nei salti d’Orgosolo, in cerca del lentischio vero, e credo tornerà stasera.
— Cosa è questo «lentischio vero»?
— Oh che non lo sa? — disse il Porri convinto. — È una delle poche macchie di lentischio sacro che si trovano nell’isola di Sardegna: ha le foglie grandi e lucenti, che guariscono le malattie del bestiame.
— Oh chi diavolo l’ha consacrato? Chi gli diede tanta virtù? — chiese Stefano, ma non rise, tanto sapeva inveterate nel Porri e negli altri pastori le antiche superstizioni tramandate dalle tradizioni popolari.
— Chissà se mio figlio lo troverà! — disse il pastore, guardando in lontananza verso le falde del monte Atha. — Io ci passai cinque anni fa e ne tolsi un mazzo di foglie che conservai, e mi servivano efficacemente; ma poche, che ancora ne possedevo, mi furono rubate, che il demonio gli rubi l’anima e il corpo a chi le prese. Ho mandato mio figlio Bòre, ma temo non che trovi il lentischio, perchè i maligni pastori delle vicinanze non solo non lo indicano, ma sviano quelli che son presso a trovarlo. Dorme qui lei, stanotte? — domandò poi, vedendo Stefano poco attento al suo discorso.
— Se potessi trovar qualche cosa, sì! Ho buscato solo una pernice ed ho vergogna a tornarmene così.
Il Porri si trovò mortificato di non potergli offrire buona caccia: per mezzo di magici scongiuri (verbos); egli e i sottostanti pastori avevano legato, cioè impedito le aquile e gli avvoltoi di avvicinarsi alla tanca per rapire gli agnelli, i capretti e i porchetti: con i medesimi scongiuri, e deponendo di tratto in tratto sui muri foglie d’oleandro colte la notte di San Giovanni, avevano allontanati i cinghiali, le volpi e le faine che venivano negli ovili per compiervi la stessa rapina.
Stefano si trovava dunque in pieno impero di superstizione, di magie e malie pastorali più o meno efficaci; era quindi inutile sperare buona caccia, a meno che non si contentasse di querule gazze che mettevano la nota azzurra delle loro ali sulle cime verdi-giallastre degli elci selvaggi, o di grossi mosconi iridati e di larghe strane farfalle nere macchiate di sangue e di bronzo che volteggiavano intorno ai cespugli intricati di fresche vitalbe.
Tuttavia non partì. Il luogo lo incantava, proseguendo ad operare in lui il misterioso fascino incominciato a sentire nell’opposta valle. Egli continuava a sentirsi felice e sereno, si obliava, godeva, amava la vita e gli uomini, rappresentati in quel momento dal selvaggio e ipocrita pastore, poche ore prima odiato e disprezzato. Più che mai Stefano sentiva che il Porri, in tutto ciò che diceva, esagerava con malignità, adulazioni e falsità; tuttavia non si sdegnava, talvolta lo ascoltava con piacere, tal altra lo credeva sincero.
Essendosi il pastore allontanato per accomodare il cavallo, egli richiamò a sè i cani e proseguì per il sottilissimo sentiero tracciato attraverso il verde tenero e le pietre della radura, finchè giunse presso le macchie che il Porri estirpava per dissodare il terreno da seminare, e dove, sotto un riparo di frasche, giaceva steso su uno strato di paglia il bue malato. L’altro bue pascolava un po’ più giù, ma di tratto in tratto scuoteva le corte orecchie pelose, e mandando un leggero vapore dalle narici e dalla bocca ruminante volgeva la testa, quasi per guardare pietosamente l’infermo compagno.
Rasentando col capo le frasche del riparo, Stefano si curvò e stette a guardare. Vedendo che il bue, un magnifico animale giallo dal muso bianco, respirava affannosamente, con gli occhi socchiusi e la bocca orlata di bava, egli indovinò che la malattia era una forte infiammazione viscerale, e appena il Porri si fece vedere gli disse:
— Fareste bene a dargli un po’ di olio, invece di praticare certe sciocchezze.
Ma il pastore aveva dato al bue e l’olio e tante altre cose. Invano.
— Sa lei, don compare, da quando è malato? Le dico la verità, come se mi trovassi alla presenza di Dio.
— Se pure a Dio direste la verità! — disse Stefano, sollevando una mano; e si preparò ad udire un’altra sciocchezza. Infatti il Porri gli confidò che, dieci giorni prima, mentre usciva dal villaggio col giogo che trascinava l’aratro, aveva incontrato il vecchio Gonnesa.
— Dove vai, Arcangelo Porri?
— In campagna.
— E questo giogo color di miele dalla faccia bianca come latte te l’hanno dato forse i tuoi padroni per la tua testimonianza falsa?
— Aquila antica, io non ho padroni, e non vendo l’anima mia per due bestie cornute.
L’altro rise stridendo, il Porri disse degli insulti e il vecchio imprecò:
— Che tu lasci le ossa delle tue bestie e le tue agli avvoltoi di Nuraghe ruju.
Subito arrivati, il bue s’era ammalato.
Il Porri raccontò questa storia lagrimosa con tanta passione, guardando con tale accoramento la povera bestia, che Stefano non sapeva se doveva sdegnarsi, o ridere, o aver pietà. Per tutta la sera, mentre il pastore attendeva con ansia il figliuolo, egli percorse la vasta tanca, sparando inutili fucilate che spaventarono le capre e facevano correr disperatamente i porci: visitò tutti gli ovili, e verso il tramonto risalì la montagna, fermandosi ogni tanto per contemplare il meraviglioso quadro che lo circondava. Il nitido tramonto autunnale accendeva di rosso le montagne della costa. I boschi giallastri, le macchie, i cespugli, le roccie, e ogni macigno, ogni pietra, ogni stelo, proiettavano lunghe ombre dolci e melanconiche giù per le chine solitarie.
Stefano seguiva la riva del ruscello, le cui acque, gialle al tramonto, passavano in un alveo di argento brunito; cento piccoli rumori sfumati — il lieve mormorìo del ruscello, il tintinnìo delle capre e delle pecore, l’acuto gracchiare delle gazze, qualche latrato di cane, il rumore cadenzato della zappa del Porri che estirpava le radici legnose del lentischio — animavano l’immenso silenzio, la gran pace solenne del tramonto.
Egli saliva sempre: era stanco, preso dalla misteriosa melanconia del luogo e dell’ora; non aveva trovato caccia, non aveva fatto nulla, eppur non si pentiva della giornata trascorsa. Anzi, confrontandola agli altri suoi innumerevoli giorni perduti, gli sembrava una giornata di lavoro e di lotta; non sapeva di che lavoro, non sapeva di che lotta, ma sentiva d’aver acquistato e conquistato qualche cosa di grande e buono che viva gli manteneva nel petto la calda e forte soddisfazione di se stesso, cominciata a provare sotto i selvaggi ulivi della valle opposta.
A un certo punto vide camminargli davanti un ragazzo alto e tarchiato, le cui forme robustissime gonfiavano le vesti un po’ lacere e strette; aveva gli scarponi in mano e i grossi piedi avvolti in stracci; camminava a lunghi passi, e la sua figura oscura risaltava vivamente sullo sfondo verdognolo della china.
Poco prima d’arrivare alla radura, il ragazzo si fermò, fischiò, e spinse in avanti un gruppo di pecore pascolanti, che s’avviarono stupidamente l’una presso l’altra, col muso a terra, e dopo aver formato una lunga fila si fermarono, si ristrinsero, si aggrupparono di nuovo, formando una macchia giallastra a chiazze nere; poi ripartirono a rilento, spandendo per la china la rustica melodia dei campanacci. E Stefano, che in quel gruppo guidato dalla oscura figura del mandriano, in quel fondo di paesaggio alpestre, in quell’ora dolcemente rossa del tramonto, ritrovava profonda e viva la suggestione artistica dei bei quadri del Segantini, andò dietro il ragazzo finchè lo raggiunse e lo riconobbe.
Era Bore Porri, un bellissimo adolescente rosso, ritornato poco prima dalla ricerca del sacro lentischio. Il pastore attendeva la completa scomparsa del sole per applicare al bue malato le foglie miracolose; raggiuntolo, Stefano stette a guardare curiosamente con le mani intrecciate sulla schiena.
Il sole scomparve, lasciando una zona d’oro dietro le vette; un tepore profondo dilagava per l’aria, sulle macchie e le pietre calde; e il rosso delle lontane montagne si smorzava in tiepide tinte pavonazze.
Salirono altri due pastori e aiutarono il Porri a spalancare la bavosa bocca del bue per introdurvi alcune manate di orzo macinato, fra cui eran state pestate poche foglie del sacro lentischio. Stefano si curvò per guardar meglio entro la bocca dell’animale, ma uno dei pastori gli chiese rudemente:
— Lei non ci crede, non è vero?.
— Non molto! — diss’egli, sempre curvo.
— Allora, se mi permette, la prego d’allontanarsi. In queste cose ci vuol fede, ed è la fede che fa tutto. Se una sola delle persone assistenti deride il rimedio, questo non ha efficacia.
— Ma io non derido nulla!
— Se non crede è come che derida!
— Sta bene! — disse Stefano sollevando la persona. — Dio vi aiuti.
E si allontanò, un po’ stizzito, un po’ mortificato, ma sopratutto sorpreso della misteriosa potenza che le semplici cose, dette volgarmente superstizioni, avevano su quegli uomini selvaggi, rotti ad ogni passione e scevri da tanti altri pregiudizi ben più pericolosi.
Presso la capanna trovò il figlio del Porri, che si disponeva a partire per il villaggio.
— Aspetta, gli disse, — ti dò un biglietto per mia moglie, ma lo porterai appena arrivato. A che ora arrivi? Presto? Il tuo ronzino ha, come te, le gambe lunghe come pioppi.
Il ragazzo rise gaiamente del bel complimento, e mentre si allacciava gli sproni sui piedi ignudi, Stefano staccò un foglietto dal taccuino, e curvo sopra una pietra, portando ogni tanto alle labbra la punta del lapis, scrisse quasi una letterina amorosa.
«Mia cara Maria,
«Non inquietarti se non ritorno fino a domani. Sono a Nuraghe ruju e benchè i pastori dicano che non c’è nulla, spero stanotte di far grossa caccia. La sera è calda e bella: sembra d’estate. Penso a te. Se tu vedessi che bel luogo è questo e come ispira buoni sentimenti! Riguardo al P.... ho seguito i tuoi consigli. Ti desidero, ti vorrei qui vicina, per sentir completamente la felicità di questo luogo e di quest’ora così bella. Vieni col pensiero e ricevi sulle labbra un affettuoso bacio del tuo
Stene».
Rileggendolo trovò il biglietto troppo intimo per esser spedito aperto.
— Avete qualche po’ di ceralacca nella capanna? — chiese scherzando.
— Perchè? — disse il ragazzo maliziosamente. — Per chiuder la lettera? Ma la chiuda con un po’ di pane masticato!...
— Puh! — gridò Stefano, e frugò diligentemente le grandi tasche della cacciatora: ne trasse una scatola di cerini, una candeletta di cera, due coltelli a serramanico, un paio di forbici chiuse in astuccio, un portasigari, l’immancabile pugno «box», spago, giornali, ecc., ma niente ceralacca.
— Faccia presto, disse il ragazzo, salendo sopra una pietra e tirando il cavallo per montarvi.
— Come diavolo devo fare? — pensò Stefano guardando tutti gli inutili oggetti tratti di saccoccia.
Il giovinetto s’accomodò sulle spalle la tasca, specie di bisaccia di cuoio con due cinghie, e mise un piede nella staffa.
— Faccia presto, ch’è tardi!
— Eureka! — esclamò Stefano, e con un fiammifero accese la candeletta, la lasciò un poco ardere, poi la reclinò e chiuse la lettera con tre gocce di cera.
Il ragazzo balzò sveltamente in sella: prese la lettera, se la mise in seno e s’avviò cantando. Il suo ronzino rosso sparve ben presto dietro i muri di schisto, il cui splendore impallidiva col morire delle lontane luminosità vesperali, e la voce si spense fra i boschi. Il mastino del pastore sonnecchiava e gli altri cani fiutavano silenziosamente l’erba attorno al cavallo, che pascolava ancora dietro la capanna.
Rimasto solo, Stefano accese una sigaretta, mise il piede sul fiammifero, e, fumando tranquillamente, attese il ritorno del pastore, mentre la luce dileguavasi e i rumori della montagna si rendevano più distinti e melanconici nell’immenso silenzio dell’alta solitudine.
Il Porri ritornò accompagnato da uno dei pastori; le capre e i porci si ritirarono nei recinti di siepi, il fuoco brillò nella capanna e a Polluce e alla Capra, gialle come pupille di ambra, fecero tremula corona altre ed altre stelle bianche, azzurre e verdi, apparse nel cielo, la cui luminosità di madreperla s’era cambiata in un dolcissimo e diffuso color di pervinca.
Per cena il Porri tirò fuori del lardo e pane d’orzo e un po’ di latte di capra; quest’ultimo, cosa assai rara in quella stagione, fu offerto a Stefano; porgendogli un corto cucchiaio grigiastro, fatto con l’unghia di una pecora, il pastore gli consigliò:
— Ci metta dentro del pane.
Ed egli, ch’era squisitissimo nel mangiare, si adattò tuttavia alla pastorale cena e non ne provò disgusto. I due pastori intanto sfregarono vigorosamente il lardo sul pane, finchè la sua grigia superficie divenne bianca; poi misero sulle brage il pane così unto, e, allentito dal calore, lo attortigliarono e se lo divorarono beatamente a grandi bocconi. Stefano li guardò come trasognato; dopo cena accese un sigaro e uscì nuovamente sulla radura. Il mastino ringhiava perchè due dei cani del signore, non contenti del pane avuto nella capanna, si degnavano di rubacchiargli destramente la cena (Gelsomina aveva in giornata dato la caccia ad una gazza, l’aveva sepolta, e verso sera disseppellita e divorata, lasciandone appena il becco e le piume rigate d’azzurro); il cavallo brucava e ruminava un fascio d’erba fragrante; vaghi bagliori guizzavano nell’imponente oscurità della montagna, e alla luce vaga delle limpide stelle autunnali le pecore ancor pascolavano, ripienendo il gran silenzio notturno con la lenta e continua vibrazione argentina delle loro campanelle. Stefano pensò vagamente alla fresca dolcezza solenne di un idillio di Teocrito, e canterellò:
“Candìda Galatea, perchè rifiuti Chi t’ama?...„ |
ripensando ai primi giorni del suo amore per Maria, ai rifiuti e alle ripulse di lei; e mille memorie giovanili, di ricordi perduti, di piccole cose lontane, di tenerezze dimenticate, gli vennero in quell’ora misteriosa, nel cerchio magico di quella oscurità rischiarata appena dagli astri, dal cielo chiaro, dai lontani orizzonti allagati ed immersi in vapori infinitamente dolci e diafani.
Fu in quell’ora, dopo quella giornata d’arcane sensazioni, che forse per la prima volta egli pensò intensamente al destino di sua sorella Silvestra e misteriosamente percepì le sottili angoscie e le ribellioni che le infinite voci della natura, battenti sui muri alti del cortile come onde di mare infuriato, dovevano suscitare nello spirito giovanile di lei sepolta viva.
Amava ella ancora?
Quasi lampi incrociantisi, rapidamente gli passarono nella mente due figure e due sensazioni: Filippo e Maria; e il ricordo degli stolti sdegni, dell’odio feroce che nella ragione e nel cuore l’amore di Silvestra e di Gonnesa gli destavano; e il ricordo della vittoriosa passione che aveva indotto quello stesso cuore e quella medesima ragione alla completa dedizione verso l’umile vedova del fratello. Pensò amaramente:
— È ben facile combattere negli altri le passioni, dalle quali noi medesimi ci lasciamo vincere! E chiusi gli occhi, chinò la testa fra le mani.
Nel gran buio che allora intimamente lo invase, mentre più vibrate e melanconiche s’avvicinavano le note delle greggie pascenti, e più larghe si spandevano le selvaggie fragranze delle macchie, lo riprese la profonda dolcezza di sentirsi superiore a se stesso, di giudicare gli uomini e le cose con sentimenti d’umanità e giustizia. Ma per la suggestiva oscurità della notte, per la stanchezza delle membra, per quella stessa cullante armonia di suoni e profumi che gli causava dolcezza di sonno, le sensazioni cominciarono a velarglisi, sentì il sigaro spegnersi fra le labbra, e ricordò la notte in cui, fumando sul verone una sigaretta egiziana, aveva atteso Maria con ansia tale da smarrir la percezione del tempo e dello spazio.
Ora vagamente rivide nel ricordo, i muri del cortile di Silvestra.
Maria era entrata, aveva parlato e se ne era andata, lasciandogli in cuore una angoscia indicibile: se Silvestra ancora amava, doveva, dietro quei muri, continuamente provare una simile angoscia. Ancora ecco la figura di Filippo Gonnesa in vetta alla montagna e l’impressione del suo rapido, limpido sguardo.
E s’egli era innocente?
In fondo in fondo, nelle incoscienti regioni dello spirito, Stefano si meravigliò per la strana calma con cui pensava a cose che solitamente gli procuravano sdegni violentissimi. E rialzò la testa, si scosse, balzò in piedi. Ma per lunghe ore della notte, mentre invano spiava il passaggio di qualche cinghiale o di qualche faina — in mancanza di meglio si sarebbe contentato d’una miserabile volpe — il pensiero del nemico e il dubbio della sua innocenza gli tornarono a intervalli, passandogli nella mente come saette rapide, ma luminosissime.
Verso mezzanotte, stanchissimo, vinto dal sonno e anche un po’ dal freddo, ritornò nella capanna e si sdraiò, avvolto nel suo lungo cappotto d’albagio foderato di panno rosso. Per un momento, nel breve e pesante dormiveglia, rivide tutti i luoghi percorsi durante quella giornata, che gli appariva come uno spazio lungo e indeterminato di tempo, e gli sembrò d’essere sdraiato sull’erba della valle soleggiata, cullato ancora dalla misteriosa melodia del torrente. Poi improvvisamente risentì il rude ondeggiare della groppa del cavallo che lo trasportava su per la Scala dei gigli, e di nuovo rivide, nitida e decisa, la figura di Filippo Gonnesa che lo fissava. Sollevò la testa e riaprì gli occhi, vitrei e un po’ spaventati, guardando l’apertura della capanna; ma nel breve spazio nero non scorse che tre stelle rosse brillanti; e, ripiegata la testa sulla piccola bisaccia che gli serviva da guanciale, si addormentò.
Svegliandosi, si trovò solo; il fuoco era spento e l’acuta frescura dell’alba inondava la capanna. Uscì: i cani si svegliarono e lo circondarono guaiendo e sbadigliando: con la prima luce argentina la tanca s’animava, le capre uscivano dalla mandria, cozzandosi l’una coll’altra; vivida e pura come diamante la stella Diana brillava ancora sopra le montagne della costa, azzurre sul metallico sfondo dell’alba saliente dal mare.
Ma in questa luce sempre più vivida, mentre le gazze ricominciavano a gorgheggiare nel bosco rabbrividente, e sulle macchie le gocce della rugiada riflettendo i bagliori dell’iride sembravano le stelle scomparse dal firmamento, Stefano assistè ad una scena dolorosa e volgare.
Il bue del Porri era morto pochi momenti prima; la gran massa gialla, abbandonata su uno strato di paglia appena più chiara, pareva respirasse ancora, ma gli occhi erano vitrei e alcune mosche impunemente passavano fra le immobili palpebre bionde: il pastore lo guardava, lo palpava e chiamava con così sincero e desolato dolore che Stefano s’intenerì.
— Dopo tutto, disse, — che volete farci? Non è poi un cristiano che vi disperiate così. Scuoiatelo ora che è caldo ancora e profittate almeno del cuoio.
Il Porri credette, e trovò interesse nel credere ch’egli parlasse ironicamente, e si diè un pugno sulla fronte.
— Invece di burlarsene dovrebbe pensare che la causa della mia disgrazia è.... quello che sa lei! Oh, questo è il principio; chissà cosa ancora deve accadermi! — disse quasi piangendo. E tornò a palpare il bue, chiamandolo coi più dolci nomi: — Povero agnello, cuor mio, aiuto mio! L’imprecazione t’è piombata come una saetta; che tutte le saette del cielo piombino su chi ti ha augurato la morte! Cosa farò io senza di te ch’eri la mia mano destra? Cosa farò io senza di te, cuor mio? Senza di te sono un uomo perduto, sono un inutile fuscello, perchè eri tu il mio aiuto, l’anima del mio lavoro. Cuor mio, cuor mio, tu non le vedrai le messi dell’anno venturo! Non ti muoverai più? Non lo vedi il tuo compagno che ti guarda dolorosamente? Non ti muovi, cuore mio?
— Suvvia! — esclamò Stefano. — Fatevi coraggio, che alla fine ne avete del ben di Dio!
— Non è tanto la perdita che mi addolora, quanto il pensare che sono stato imprecato e che le imprecazioni s’avverano sopra di me.
— Sciocchezze! — gridò Stefano, allontanando con una fronda i cani che fiutavano e leccavano il dorso della bestia morta.
Fieramente il Porri si rizzò, e negli occhi felini, umidi di lagrime, brillò la verde scintilla che li animava allorchè un cattivo sentimento lo urgeva.
— Se ne vada, per carità, don compare, se ne vada! — disse, stendendo il braccio. — Non basta l’altro, che lei viene a deridermi e dirmi che sono sciocco? Eh, sì, io sono sciocco, ma lei, con rispetto parlando, è un uomo senza cuore!
— Porri, rispose Stefano dopo un momento di silenzio, — poichè il vostro bue è morto per causa.... mia, andate, prendete una soga, recatevi nel mio ovile e sceglietevi la più bella coppia di tori spagnuoli.
La verde scintilla si spense negli occhi del pastore, che ai flebili lamenti di prima fece seguire una litania di salamelecchi e di sviscerati ringraziamenti.
— Sentite, — disse Stefano pochi momenti dopo, rimontando a cavallo, mentre il Porri gli teneva umilmente la staffa; — ora che siete riuscito a strapparmi qualche cosa — e ciò lo faccio non per voi, ma per la creatura innocente che v’ho battezzato — ora venite a dirmi che deporrete quel ch’io vorrò nel processo di Filippo Gonnesa. Quel che io voglio è la verità; null’altro. E vedete questa frusta? (e agitava in aria il frustino). Ringraziate qualche buon santo che ve n’ha liberato ieri. Se deporrete il falso però l’assaggerete, e bene, un altro giorno!
Per il momento si contentò di sbatterla sulla groppa del cavallo, che preceduto dai cani partì galoppando. Il Porri pensò:
— L’ho sempre detto io che don Stene è un po’ matto!
E tornò presso la povera bestia morta per scuoiarla e lasciarla preda alle aquile, nonostante tutto il bene che le aveva voluto.
Dietro le montagne, d’un denso azzurro bronzino, saliva dal mare, come un immenso petalo di glicina, la delicata e violacea aurora autunnale.
- ↑ Come il noto proverbio latino: aquila non captat muscas.