Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/201


— 193 —

campestre, ricamava su quel sonoro sfondo una trama di fili iridescenti, diafani e brillanti come tela di ragno, dando a sua volta l’illusione di tenere voci infantili, di gridi d’uccelli, di cristalline risate, di fiori selvatici che sfogliandosi sull’alto della valle spandessero diafani petali rosei e cremisini sulla vitrea e spumosa acqua del torrente, che li stravolgeva e affogava nel suo incessante fragore.

Stefano ascoltava affascinato; nei suoni delle acque e nel selvaggio splendore del cielo ritrovava il mistero di sè e della sua razza, della sua anima e del sangue che gli pulsava nella nuca e nelle mani e nel petto. Era egli, egli stesso la sua natura felina, la voce degli avi che potente gli risuonava in fondo all’essere; erano i suoi istinti, i suoi desideri insoddisfatti, i suoi bisogni di passione, d’amore, d’odio, di bene e di male, i suoi tedî profondi, la sua insidiosa indifferenza che, come cenere sulle brage, velava sogni tanto più tormentosi quanto più inafferrabili.

Egli si vide piccolo, ingiusto e debole. Sentì che il suo stesso carattere e non la gretta vita stagnante del paese lo rendeva scontento e cattivo: anche nelle grandi città, nei focolari di civiltà, di attività, di lusso e piacere, sarebbe stato un imbelle indolente. Povero e costretto al lavoro e alla lotta, sarebbe diventato perverso. Quando dietro alle note del Tannhäu-

Deledda, La giustizia. 13