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volpi e le faine che venivano negli ovili per compiervi la stessa rapina.
Stefano si trovava dunque in pieno impero di superstizione, di magie e malie pastorali più o meno efficaci; era quindi inutile sperare buona caccia, a meno che non si contentasse di querule gazze che mettevano la nota azzurra delle loro ali sulle cime verdi-giallastre degli elci selvaggi, o di grossi mosconi iridati e di larghe strane farfalle nere macchiate di sangue e di bronzo che volteggiavano intorno ai cespugli intricati di fresche vitalbe.
Tuttavia non partì. Il luogo lo incantava, proseguendo ad operare in lui il misterioso fascino incominciato a sentire nell’opposta valle. Egli continuava a sentirsi felice e sereno, si obliava, godeva, amava la vita e gli uomini, rappresentati in quel momento dal selvaggio e ipocrita pastore, poche ore prima odiato e disprezzato. Più che mai Stefano sentiva che il Porri, in tutto ciò che diceva, esagerava con malignità, adulazioni e falsità; tuttavia non si sdegnava, talvolta lo ascoltava con piacere, tal altra lo credeva sincero.
Essendosi il pastore allontanato per accomodare il cavallo, egli richiamò a sè i cani e proseguì per il sottilissimo sentiero tracciato attraverso il verde tenero e le pietre della radura, finchè giunse presso le macchie che il Porri estirpava per dissodare il terreno da se-