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Stefano si sdraiò sulla rada erba della china, e stette così, riscaldato internamente dal vino ed esternamente dal sole, immerso nella visione del cielo azzurro, nella musica dell’acqua e della campana, nella fragranza dei cespugli e delle erbe. Era un piacere: era ancora la voluttuosa sensazione delle sieste estive, ma goduta nel pieno possedimento e nel completo risveglio dei sensi; era anzi il senso stesso della vita, l’ineffabile piacere dell’esistenza sentita fra le sane visioni e le misteriose voci della Natura.

Era il continuo e sonoro stormire d’immense foreste, nella cui voce gemente prorompeva il grido d’un popolo intero, d’una solitaria razza inneggiante patetiche e selvaggie melodie, mescolate d’antiche preghiere e d’antiche maledizioni, di pianti sommessi e superbi e di risate dolcissime e sardoniche, — grido di guerra e grido d’amore che s’alzava verso idoli ignoti, verso occulti nemici, verso simboli strani, verso il Sole, la Luna, il Fuoco, il Ferro, la Passione e l’Odio; — era la voce della razza sarda, trasfusa nel fragore del torrente, simile al mormorar delle patrie selve da cui il popolo, discendente dagli Jolei, avea tratto il motivo triste e solenne delle sue musiche e dei suoi canti. E il sottile e metallico squillare, or vicino ed or lontano, della campana librata sul corroso portico della invisibile chiesetta