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mente eguale, risuonava, or distinta, ora sfumata, or vicina ed or lontana, l’acuta squilla d’una campana di chiesetta campestre.

Qualche festa doveva esserci dietro la valle, dietro la metallica linea degli ultimi lentischi; e in quell’ora, mentre le cavalle bianche e i sauri puledri nitrivano fra le macchie, le fanciulle dai grembiuli di damasco e i giovani dai giustacuori di porpora lasciavano il circolo dell’antico ballo sardo per entrare all’ultima messa; e le donne mature preparavano la minestra colla giuncata e gli uomini arrostivano i lombi degli arieti per l’omerico banchetto.

Stefano ebbe la visione della festa, che sotto la doppia appariscenza di quadro biblico e d’antica rappresentazione ellenica, celava un indomito spirito selvaggio; e sorridendo fra sè disse:

— Beviamo!

Bevette, rovesciando la testa sotto la stretta bocca del fiaschetto di legno inciso, e sentì il vino scendergli fresco per la gola un po’ arsa, poi spanderglisi caldo e vibrante per l’interno del petto; e la piacevole sensazione di benessere e d’ottimismo cominciata a provare poche ore prima crebbe e lo vinse tutto dolcemente.

I cani, scesi sino al fiume, risalirono correndo, ansando, e s’accovacciarono con la rossa lingua penzoloni; legato ad un ulivo, il cavallo strappava ciuffi d’erba.