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scaturivano sotto il nuraghe del versante opposto e attraversavano tutto il seno della montagna per canali scavati dai giganti.

Percorso un tratto del pittoresco stradale, Stefano doveva salir la montagna; ma essendo forse le undici, volle prima scender e far colazione in un angolo soleggiato della sottostante china. Il luogo, l’ora, il cielo, il paesaggio, avevano qualche cosa di ineffabilmente dolce. Sotto ai piedi di Stefano scendevano per la china soleggiata vecchi ulivi nodosi, cespugli e macchie spioventi dalle roccie; e le fronde e le foglie brillavano smaltate d’argento. Quasi nero nell’ombra saliva in faccia a lui l’opposto versante della valle, sul cui orizzonte una fila di lentischi stendeva una frastagliata linea verde; negli sfondi pianure e montagne azzurre; al di sopra della sua testa la muraglia dello stradale, di pietra schistosa, scintillava al sole come acciaio brunito, e sulla linea del paracarri, sul fondo inenarrabilmente turchino del cielo, alcuni cespugli sfumavano guardando la valle. E sopra ogni cosa due grigi fili telegrafici solcavano nettamente l’aria, quasi vigilanti sull’insidioso sogno e le selvaggie solitudini della valle e della montagna deserta. Invisibile, il torrente correva incessantemente, roteando nello stretto alveo di pietra: e sul cupo sfondo della sua nota bassa e fragorosa, sempre monotonamente e melanconica-