La giustizia/VII
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VII.
Nonostante l’irrisoria cacciagione che portava nella piccola bisaccia, Stefano rientrò a casa sua sereno e lieto; ma trovò Maria triste, don Piane cupo, e le domestiche d’umore terribile.
Inoltre Ortensia, che da qualche tempo non andava pienamente d’accordo con la compagna, aveva di tratto in tratto un breve sorriso ironico negli occhietti slavati e loschi.
— Burrasca! — pensò Stefano; e sentì anch’egli svanire la limpida serenità portata dalla campagna.
— Cos’hai? — domandò a Maria, che lo seguì nelle camere di sopra.
— Nulla.
— Nulla! E già! non trovi mai altra parola! — diss’egli inquietandosi; — Cosa c’è stato? Sei pallida.
— Proprio nulla, ti assicuro. Ma ho dormito poco stanotte. Ti aspettai sino alla mezzanotte, e avevo paura, tanta paura, non vedendoti rientrare.
— Come? — esclamò egli stupito. — E il figlio di Arcangelo Porri non ti ha portato un biglietto?
— No! — rispose Maria guardandolo un po’ meravigliata. Poi scoppiò a piangere come una bimba, e gli narrò ciò che era accaduto. Ah, il figlio del Porri? Giusto, quel ragazzo alto e robusto, quel bellissimo adolescente dai capelli rossi, glauchi occhi obliqui e i denti di perla? Bel soggetto! La notte prima, verso le undici, mentre aspettava suo marito, Maria aveva inteso piccoli rumori nel salotto da pranzo. E per scuotersi dal sonno, e pensando fosse stata Serafina a lasciar dispettosamente i gatti nella stanza, scese pian piano. Altro che gatti! Trovò Serafina fra le braccia di Bore Porri, il bel ragazzo a cui tutte le paesane dai tredici ai diciotto anni andavano pazzamente appresso.
— Ma Serafina ha dieci anni più di lui! E si arriva a questo punto? — gridò Stefano. E tutto il limpido orizzonte dei sentimenti puri e sereni tornò ad offuscarglisi.
— Ecco a qual punto è ridotta casa Arca! — disse non meno amaramente Maria. — Questa notte volevo mandar via Serafina, ma tuo padre mi disse di andarmene piuttosto io.
Si rimise a piangere desolatamente, mettendo ne’ suoi singulti tutta l’intensità dell’ira sua, della sua umiliazione e del suo giusto dolore.
— Finiscila! — disse Stefano irritato. Poi si raddolcì. — Non sei più una bimba; e sai che babbo non ha la testa a posto.
— Sì, è finita..., è finita..., ella rispose, continuando a piangere, — è finita..., ed io non ne posso più! Tuo padre mi odia, ed io devo andarmene, sì, devo andarmene.... Devo lasciarvi tutti tranquilli (che amarezza ella mise in quel tutti!); — ma sebbene tuo padre me lo rinfacci ogni giorno, che io sono un’intrusa, tu lo sai bene, Stefano..., tu lo sai... che io non volevo venir qui.... Il cuore mi diceva ciò.... che ora accade.
— Maria! — gridò egli, pallido d’ira e d’emozione, guardandola intensamente. — Eppure non ti credevo così sciocca, così imprudente e bambina! Oh, chi ci ha maledetto in tal modo che la nostra casa debba andar sempre più in malora! — esclamò poi, battendosi disperatamente le mani sul volto.
— Se la causa delle discordie son io, è giusto che me ne vada..., continuò Maria, piangendo infantilmente, ma nel suo accento vibrava tal fermezza ribelle che Stefano ebbe paura d’uno scandalo sciagurato. E in quell’istante, dinanzi alla ribelle e angosciosa desolazione della moglie, e ricordando tutte le disgrazie piombate in pochi anni sulla sua famiglia, si domandò se Arcangelo Porri non aveva ragione di credere che le maledizioni dei perseguitati s’avveravano sui persecutori.
— Non sei tu la causa, disse andando su e giù per la camera, a passi concitati, — è la maledizione, è la malasorte o il diavolo che ci perseguita. Ma questa volta voglio farla finita con quella..., — e qui scaraventò una trafila di energici aggettivi, accompagnati da imprecazioni ed esclamazioni così violente che Serafina, la quale naturalmente origliava alla porta, impallidì e pensò:
— È finita! — E sembrandole che il padrone stesse per uscire e gettarla giù per le scale, s’allontanò spaventata, digrignando i denti per rabbia. — Guai se mi manda via, guai, guai! Dirò cosa che manderà in perdizione lui e tutta la sua stirpe! — disse ad Ortensia, che incontrò per le scale.
— Cosa puoi dir tu? — fece l’altra con un po’ di sprezzo, fissando gli occhi loschi sulla vôlta, mentre voleva guardar il viso di Serafina, contro la quale, sentendola perder terreno, apertamente si schierava.
— Cosa posso far io? Lo vedrai, bella mia, e lo vedrà anche donna Corcuzza (Donna Zucca, spregiativo nomignolo che dava a Maria.) — Serafina, Serafina! — ammonì l’altra, facendo la savia. — Ti stai procurando il pane!
— Il mio pane è procurato. Procuratelo bene tu, ora, guercia....
Le due donne alzavano la voce, e forse l’avrebbero finita male se una lunga scampanellata, proveniente dal salotto di Stefano, non avesse riempito la scala di forti vibrazioni argentine.
— Va, il padrone ti chiama, — disse Ortensia, sorridendo beffarda e trionfante.
— Se mi chiama non è con lo scopo per cui talvolta chiamò te..., e Serafina risalì stridendo come una vipera.
Ancora vestito da caccia, il padrone aspettava ritto vicino alla porta, guardandosi le unghie con calma forzata. Maria s’era ritirata nell’attigua camera.
— Serafina, fra due giorni compiono i tre anni che sei qui. Siccome le faccende domestiche ora non sono poi tante, e gli affari non prosperano, abbiamo pensato mandar via, con nostro dispiacere, una domestica.
Le guance color albicocca della bella Serafina cominciarono a diventar livide, e la lingua guizzò in bocca, pronta a dir parole avvelenate, ma il padrone parlava così calmo, così benigno, che non era possibile rispondergli male.
— Serafina, per non dire che ti mandiamo via malamente, prima d’andartene, stasera, avrai una buona mancia; ma prepara subito le tue robe e vattene.
— Dunque son io che devo andarmene?
— E chi dunque?
— Credevo fosse Ortensia.... È inutile mi guardi così, lei, don Isténe; e certe scuse le dica alle galline....
— Macchè scuse! — diss’egli con disprezzo. — Perchè devo farti poi delle scuse?
— E allora dica semplicemente che mi manda via a pedate....
— Macchè pedate! — Stefano rise, ma d’un riso tale che a Serafina fece appunto l’effetto d’una pedata.
— Senta don Isténe; penso e so la causa per cui le viene l’estro di mandarmi via senza neppur cambiarsi la giacchetta....
— Che mi cambi o no, ciò non ti riguarda. O vuoi aiutarmi tu a levarmela?
— Chi l’ha aiutata a levarsela la giacchetta, qualche volta, è stata Ortensia.... disse Serafina a voce alta e stridente, sapendo che Maria ascoltava: — per cui....
— Serafina, non farmi uscire dai gangheri! — avvertì Stefano, ma ridendo forzatamente. — E va via in pace. Del resto so che sei sposa e quindi non ti conviene restar serva....
Le parole e il riso del padrone la pungevano crudelmente, ma egli continuava a parlare così scherzosamente, con tal grazia felina, che ella, per quanta pazza voglia ne avesse, non poteva dire la cosa terribile che sapeva. Del resto, appunto perchè il padrone pareva scherzasse, ella sperava che il suo licenziamento fosse per burla, e dopo un vivace ma rispettoso battibecco uscì sicura di sè.
Il resto della mattina passò relativamente sereno, ma nel dopo pranzo, mentre i padroni stavano ritirati nelle stanze di sopra, ecco Ortensia con aria altera e beffarda piombar in cucina.
— Serafina, il padrone ti manda queste venticinque lire.
— Qual padrone?
— Don Isténe!
— Allora le avrà date a te, non a me.
— Le ha date a me per darle a te. E ti prega d’andartene prima ch’egli scenda.
— Che il diavolo lo faccia scendere nel profondo dell’inferno! — gridò Serafina, battendosi i pugni sulle anche. E cominciò a imprecare con maledizioni e spergiuri mai uditi.
— Serafina, — disse l’altra con prudenza, cercando di calmarla, e piegando e spiegando il foglio da venticinque lire, — Serafina, fa la savia! Perchè te la pigli così? La colpa è tutta tua, e riconoscila, e sta zitta, invece di pigliarti la parte maggiore, come fai. Se ieri notte avessi fatto entrare quel moccioso di Bore Porri dalla parte dell’orto....
— Mocciosa sei tu! E del resto io non ho mai fatto entrar nessuno, nè dalla parte dell’orto, nè dalla parte dell’inferno.... Chi fa entrare gli amanti sotto i muri non son io....
Ortensia se la prese per sè, arrossì, stese il braccio col foglio da venticinque spiegato e gridò:
— Bada bene come parli, ohè! Io non conosco nè muri, nè porte..., del resto non l’hai con me e ti compatisco! Certo è che ieri notte non dicevi il rosario col figlio di Arcangelo Porri. Almeno avessi tu dato il biglietto alla padrona; ma neppur ciò hai fatto, e ciò spinse don Isténe a licenziarti.
Serafina parve finalmente capir la ragione, e cominciò a pigliarsela contro se stessa, imprecandosi, battendosi i pugni sul capo e singhiozzando senza lagrime.
No, non le pareva possibile che il suo regno fosse finito, ch’ella dovesse abbandonar quella casa dove s’era creduta padrona, ove da tre anni viveva nell’abbondanza, e ritornare fra l’indicibile miseria della sua famiglia.
— Cosa ho fatto io? Cosa ho fatto io? — piangendo confidò ad Ortensia, che cercava di confortarla. — Ma è lui che, venuto per portare quella maledetta lettera, è voluto entrare ad ogni costo. Io non volevo, io non volevo! Ma se stasera lo rivedo, come è vero che son viva, lo piglio a schiaffi e graffi, che se ne ricorderà fin che vivrà.
— Avresti fatto bene a fargli prima d’ora questa faccenda! — osservò l’altra ironicamente saggia.
Ad ogni modo Serafina dovette far fagotto, e tutto pareva irremissibilmente perduto, quando, entrata da don Piane, lo trovò piangendo.
— Ebbene, don Piane? Ebbene, don Piane? — chiese sinceramente meravigliata, chinandosi sopra. — Cosa ha?
Nel vederla aumentò il dolore del vecchietto; le piccole mani rugose tremolarono come due foglie di passiflora, e le sottili labbra si sporsero angosciosamente senza poter pronunziare parola.
Serafina s’inginocchiò, si sedette sui calcagni, guardò di sotto in su insistentemente il padrone.
Per qualche istante non s’udì che il breve ansare del vecchietto e i singulti di lei, troppo acuti e prolungati per esser verosimili. Alla fine ella parlò, e fu uno schianto per entrambi.
— È per questo, è per questo che piange lei, don Piane mio? Perchè io me ne vado! E per questo che piange? Non pianga, non pianga; già lo sa lei che l’immondezza deve esser buttata via..., ed io non sono che immondezza.... io.... Non pianga, don Piane mio; abbia pazienza, lo faccia per amor mio, per me che forse sono l’unica a volerle tanto bene! Già lo sa lei che io avrei dato la vita per don Piane Arca, per il mio padrone, già lo sa lei che io volevo consacrargli tutta la mia vita, fino all’ultimo giorno (non pensava la bella Serafina ch’ella aveva ventisei anni e il diletto padrone più d’ottanta?); — ma non hanno voluto, non hanno voluto gli eroni!1 Hanno meglio voluto separarci, come si separa l’agnello dalla madre, ed io devo lasciare il mio padrone, il mio padrone buono, il mio padrone amato; devo lasciarlo per sempre....
Che schianto, Dio santissimo! Pareva che a Serafina stesse lì lì per venire un accidente; e bevendosi le lagrime, don Piane l’ascoltava in estasi. Sì, ella, poveretta, ella sola gli voleva bene; ora egli se ne accorgeva più che mai. Gli altri, specialmente Maria, lo odiavano; ed ora, sobillato da lei, Stefano gli voleva dunque rapire quest’ultimo affetto puro ed ardente, disinteressato e immenso? Perfidi, malvagi, eroni, mai, mai più!
— Serafina, tu devi restare, disse.
— Padrone mio, padrone mio! Che mai pensa lei? Don Isténe mi ha mandato via, don Isténe in persona....
— Tu devi restare..., se no me ne vado anch’io!
Ella si vide salva, e coprì di baci e lagrime le manine del padrone; poi, dopo un commovente scambio di ringraziamenti ed affettuose espressioni, lo aiutò a salir le scale e lo lasciò davanti alla porta del salotto di Stefano.
Stefano, raramente lasciando don Piane il pian terreno, immaginò subito la gran cagione che lo spingeva là sopra; ma fu inesorabile, mentre le preghiere e le minaccie del vecchietto commovevano e impaurivano Maria.
— Sarà capace di tutto! — ella disse quando don Piane andò via indignato e barcollante.
— Faccia quel ch’egli vuole, ma ella deve andare via! — rispose Stefano, e uscì pian pianino per far attenzione a che il vecchietto non cascasse dalle scale.
E Serafina andò via, piangendo, strepitando, giurando vendetta; come ultimo trofeo, portò via tre posate d’argento, ma per non acuire lo scandalo, Maria pregò Ortensia di non rivelare a nessuno il fatto.
— E ora, — disse poscia con energico accento, — vedi bene, Ortensia, che quando una serva vuol uscire dal suo regolar posto rischia di perderlo e d’incontrare ogni brutto incidente. Il fatto di Serafina ti sia d’esempio, se vuoi lungamente mangiare il pane degli Arca.
— Monsignora, disse Ortensia, guardando i muri, mentre invece voleva umilmente fissare il suolo, — se ho avuto qualche torto, mi creda, come è giusta l’anima di Dio, la colpa era di quella sciagurata.... Ma vedrà d’ora in avanti, vedrà, monsignora, vedrà. E mi scusi e mi perdoni.
Dopo di che ella diventò, almeno in apparenza, la più fida e devota domestica che si possa immaginare: per dare alla padrona una prova della sua fedeltà cominciò col raccontarle tutte le mancanze di Serafina e ripetè le imprecazioni e le minaccie proferite dalla ragazza nell’andarsene. Fra le altre fece a Maria un po’ d’effetto la misteriosa minaccia del segreto che, se rivelato, poteva mandar Stefano in perdizione; ma, sempre con prudente intenzione di attutire lo scandalo, non indagò e tacque.
Per tre giorni don Piane pianse, imprecò sotto voce, non volle sedere a tavola, e caricò Stefano e Maria d’improperi e maledizioni.
— Stia zitto, stia zitto! — gli diceva Ortensia, mettendosi una mano in bocca.
— Ora ci mancavi tu sola a impormiti, figlia di uno scarafaggio! — gli gridò don Piane il terzo giorno, minacciandola col bastone. — A buon punto sono ridotto! A questo punto è ridotto Cipriano Arca! Ma ve lo farò vedere io chi sono; ve lo farò vedere a tutti, animali che altro non siete!
E non piccolo fu lo spavento di Maria e della domestica quando verso sera invano per la casa e per l’orto cercarono il vecchietto. Dove e come egli era sparito? Maria ebbe il dubbio doloroso ch’egli si fosse buttato nel pozzo o nella vasca, poi che fosse scappato da Serafina, e s’angosciava e mandava Ortensia a farne ricerca, quando per fortuna rientrò Stefano.
— Forse è da Silvestra, diss’egli, corrugando la fronte.
Messo infatti un biglietto nella ruota, tosto Silvestra rispose che suo padre era là dentro da due ore. Non fu facile cosa il trarnelo fuori; bisognò far venire prete Arca; e, solo dopo molte preghiere ed esortazioni, la solitaria monaca fu lasciata in pace. Ma dopo questo incidente ella si chiuse dall’interno.
A poco a poco don Piane si acquietò, ed anzi parve scordar Serafina, immergendosi tutto nell’affetto profondo ed entusiastico per quattro gattini dati felicemente alla luce da Speranza; quattro cosette bianche e rotonde come gomitoli di seta, dagli occhi celesti-lattei e le orecchie, la lingua, il muso e le palme delle zampette che sembravano foglie di rosa. Dei dentini poi, dei giochetti, dei salti sul dorso della madre, che non finiva di leccarli per ogni verso, è inutile parlarne, perchè sono cose indescrivibili. Don Piane ne restava contento e felice, tanto che, pur recitando il Rosario e leggendo sulla Nuova le importantissime corrispondenze degli arrivi e delle partenze dei brigadieri ed uscieri e le corse dei cavalli nei villaggi, sorrideva di beatitudine.
I quattro gattini lo ricompensavano del perduto affetto di Serafina; tuttavia un giorno, Maria e Stefano assenti, fece da Ortensia ricolmar di frumento una corba e impose di portarlo dalla ragazza, con questa affettuosa ambasciata:
— Serafina, don Piane ti saluta e ti prega di credere che egli non ti ha dimenticata un solo istante. Quanto prima sarai nuovamente da lui; intanto accogli benigna questo piccolo dono.
— Ma, — osservò Ortensia, — se donna Maria mi vede, o viene a saperne, mi caccia via....
— Macchè donna Maria, o donna asina! Il padrone sono io: va e obbedisci, altrimenti ti caccio io a pedate.
— Non sia mai! Potrebbe cader dall’altra parte! — disse Ortensia beffarda; e prese il frumento, ma lo portò da donna Maurizia. Veramente avrebbe voluto portarlo a casa sua, ma ebbe paura d’esser spiata ed accusata ai padroni.
D’allora in poi, nonostante la sua estrema avarizia, ogni volta che poteva, don Piane inviava a Serafina regali d’ogni sorta, che, sciente Maria, finivano da donna Maurizia.
Ortensia riferì questo fatto ridendo a molte persone; e Serafina, che sempre sperava di rientrar in casa Arca, venutolo a sapere, arse di rancore.
Intanto, rappacificatosi don Piane, Maria cominciò a godere una relativa felicità: ella finalmente portava in seno il fiore del suo mite amore, e pareva che la gioia di questo evento avesse cambiato anche il carattere e i modi di Stefano.
Egli sembrava un altro.
Era tornato spesso in campagna, e cacciava sull’altipiano; luogo forse ancor più suggestivo e grandioso della montagna. Smarrendosi fra le paludi e gli argentei canneti, fra le stoppie imbrunite dall’umido e fra le macchie bruciate a sera dai dissodatori, egli aveva trascorso intere giornate con un profondo oblìo di se stesso, occupato più del volo d’una tardiva quaglia che del processo Gonnesa; ma, o per la crescente malinconia autunnale, o per l’aria già troppo fredda e il cielo vaporoso, se aveva gustato le forti emozioni del cacciatore, non aveva però ritrovato più quel complesso di profonde sensazioni per le quali s’era sentito sollevar al disopra di se stesso.
Eppure, spesso, anzi ogni volta che usciva in campagna, anelava segretamente ad un nuovo incontro con Filippo Gonnesa. Era un desiderio strano, quasi morboso, senza scopo nè perchè, non confessato, ma pungente e vivo. Mentre per la sterminata solitudine dell’altipiano, sotto la grave tristezza del cielo, dalle cui nebulosità metalliche il sole nascosto gettava per sottili squarci d’argento lunghi raggi pallidi, descriventi un enorme ventaglio d’oro sbiadito sulle chiare nebbie dell’orizzonte, cavalcando incontro al vento che rigettava indietro spartita la criniera del cavallo e apriva le falde del suo cappotto, Stefano provava un lieve brivido fra piacere e timore, se pel cupo verde dei cisti umidi o nel grigio chiarore degli sfondi del sentiero scorgeva la figura nera e bianca di un paesano.
Era lui? Chi? Filippo Gonnesa travestito. E se egli era, che intendeva Stefano di fare? Salutarlo come in cima alla montagna e ricercar nei limpidi occhi nemici il mistero dell’innocenza perseguitata; o inseguirlo quale selvaggina e far da sè quella giustizia che le autorità non riuscivano a compiere? Stefano non sapeva, ma sentiva il sangue pulsargli forte sulla nuca, e raggiunto o incontrato il paesano, e avvedutosi dell’inganno, provava un inesplicabile dolore.
Non ritrovandole dunque nella realtà, ricercava nella musica le profonde impressioni dell’indimenticabile giornata trascorsa nella tanca; ma non gli riusciva perfettamente. Lo sforzo che poneva nel fondere le varie melodie sarde, spezzava qua e là la suggestione sinfonica ch’egli s’imponeva; il passaggio, per quanto sfumato, da un motivo all’altro, riproduceva l’effetto di quel rotare di vettura, di quello schioccare di frusta che avevano interrotto il magnifico sogno musicale del torrente e della campana.
Restava ancora la pura ed intima dolcezza della salita su per la Scala dei gigli, del saluto al nemico, della sera e della notte trascorsa all’ovile, ma invano l’anima di Stefano ricercava avidamente la superiorità di percezione e di sentimenti che gli aveva lasciato una indelebile orma, un desiderio quasi angoscioso di bene.
Qualche cosa mancava ancora alle sue note; un filo, una sfumatura, un inafferrabile colore: ma egli sperava di ritrovarli un giorno o l’altro, forse in qualche melodia popolare non ancora sentita, e s’acquetava in questo desiderio.
Così, fra la caccia e la musica, passò l’autunno e venne l’inverno, un inverno straordinariamente mite e verde.
Nella misera quiete del villaggio, l’elegante casa pisana, con a fianco il vigilante muro giallo del ritiro di Silvestra, sonnecchiava al tepore del sole smorto; pareva una regina assopita, nelle cui pupille (i limpidi vetri chiusi) dilagavano tranquilli sogni di felicità. L’orto verdeggiava di chiare erbe invernali, sotto le tenui ombre dei rami spogli, rossi quelli dei peschi, dei ciliegi e degli albicocchi, grigi-argentei quelli del noce e dei salici; in fondo la vasca luccicava ad intervalli con rapidi riflessi metallici.
Nell’angolo del camino, entro cui ardeva odorando il ginepro, don Piane viveva tranquillo nella contemplazione dei quattro gattini, che se crescevano come «quattro fate» diceva il vecchio, mangiavano come altrettanti cristiani. (In media, fra gatti, cani, galline, cavalli, maiali ed altre bestie gli Arca spendevano circa otto lire al giorno.)
Seguiva la burletta dei regali a Serafina, ed ella, dimagrita e impallidita per la bile e la misera esistenza di casa sua, passava e ripassava come un amante sotto le finestre di casa Arca, con la speranza di veder don Piane e di insultare Ortensia, verso la quale in mancanza di meglio sfogava il suo odio.
Ma appunto per farle dispetto Ortensia cercava di mantenersi forte presso i padroni, diventando d’una devozione, d’una fedeltà e d’una puntualità a tutta prova. Accudiva da sola alle più gravose faccende domestiche, e nel paese si raccontava per miracolo che in una casa come quella degli Arca bastasse una serva sola. Ma Stefano si rallegrava pensando che quel miracolo lo operava Maria, ora ch’era la vera padrona di casa sua.
Dopo tutto, poichè ella non sapeva far la signora, era bene che si fosse stabilita decisamente e fortemente nel suo posto di massaia. Sotto il suo occhio vigile le stanze, se non elegantemente disposte, erano almeno in ordine e pulite; l’orto coltivato; gli animali ben trattati; i servi pastori contenti del pane che loro si forniva; e il formaggio era finalmente ben manipolato e le provviste ben conservate. Ai bei tempi di Serafina il cacio, non abbastanza affumicato, non mosso, non esposto all’aria, si muffiva, per cui prima di venderlo si doveva raschiarlo e poi tingerlo con una certa miscela che dava alle forme un bel colore di formaggio stagionato; inoltre non era raro il caso che qualche grosso sorcio, e una volta anche un gatto, andasse a naufragare nella vasca della salamoia ove galleggiava il cacio fresco, e persino nelle grandi olle d’olio di uliva.
Ora nulla di tutto ciò accadeva; e nonostante le incalzanti faccende domestiche, Maria trovava il tempo di recarsi talvolta nella sua casa paterna ed aggiunger qualche trama alla bianca coperta dalle rosse rose; ma ora queste visite si facevan più rare, forse perchè le eleganti camere della casa pisana, sui cui pavimenti a mosaico e sui tappeti il passo leggero di lei cominciava a farsi lento e grave, la circondavano finalmente con quella tenera e profonda dolcezza delle pareti amate e conosciute; forse perchè, appunto rendendosi grave e lento il passo, ella sentiva bisogno di raccogliersi in se stessa, di sedersi accanto al camino e tagliarvi e cucirvi qualche cosa di così piccolo e così grande da richiamare tutta la sua attenzione.
Quando don Piane, che non ostante la sua apparente tranquillità covava amaro astio contro Maria, ed evitava di rivolgerle parola, s’avvide dei piccoli preparativi, provò un senso di tenerezza improvvisa: per un momento, dileguatasi la nebbia senile che velava il piccolo cervello in dissoluzione, il vecchio pensò e sentì, soffrì e gioì normalmente.
E in quel momento mille sensazioni diverse gli passarono dietro la piccola fronte, entro il piccolo petto incartapecorito.
Era una mite sera di gennaio; Maria teneva a portata di mano un canestro d’asfodelo guarnito di nastri, ricolmo di tela e piqué e trine, e tagliava piccolissime cuffiette. Al fuoco, le forbici brillavano; un gattino allungava la zampetta sul canestro, cercando d’afferrar furbescamente un gomitolo di filo.
Dietro, nella quieta luminosità della finestra, sui cui ultimi vetri moriva il sole, Ortensia, seduta per terra, davanti a un bassissimo tavolo, faceva ravioli e sebadas, focaccie di pasta e formaggio fresco passato al fuoco. Ella stirava la bianca pasta oleosa con un piccolo cilindro di legno che produceva un lieve e monotono rumore; un gattino le stava coricato sul lembo della sottana, con la rosea pancia in aria; e Speranza, seduta sulle zampe posteriori, muovendo la coda sul pavimento per divertire gli altri due gattini, guardava con occhi intenti sul tavolo, quasi contemplando il lavoro della domestica.
Don Piane guardò intorno e rivisse in un tempo lontano — forse oltre il mezzo secolo — in un invernale pomeriggio velato e tiepido; e rivide le fini mani sofferenti della sua prima sposa, donna Maria Grazia Dossuni, ricca giovinetta del paese di Mores, la cui grossa dote aveva dato principio all’attuale fortuna degli Arca. Le fini mani sofferenti, adorne di rozzi anelli con corniole e coralli incisi, tagliavano e cucivano cuffiette di damasco rosso guarnite di trine d’oro.
Allora, in quel tempo lontano, la casa pisana conservava il suo primiero aspetto, e gli arredi somigliavano a quelli che ora mobiliavano la casa paterna di Maria Arthabella: allora le donne dei villaggi sardi tessevano ancora arazzi, coperte a trame d’argento, bisaccie fiorite e tappeti di lino; posavano il nobile capo su guanciali di broccato annodati di rossi nastri, e i bimbi scuotevano la ancor crostosa testolina entro cuffie di damasco vermiglio, e venivano coperti di mantiglie di scarlatto orlate di seta turchina.
Tutto questo ricordò don Piane nitidamente, con tale intensità che perdette per alcuni istanti la percezione della realtà, e rivisse nel lontanissimo passato.
Egli aveva amato Maria Grazia Dossuni su tutte le donne della terra, e ne aveva avuto un solo figlio, il primo Stefano. Poi ella era morta, morto il fanciullo. Anche le altre due spose, Dorotea Figus e Minnèna Ledda, erano morte; morti, rinati, morti ancora gli altri figliuoli; ma di questo succedersi di nascite e funerali don Piane ricordava solo nitidamente la morte della prima sposa e del primo figlio; il resto gli si confondeva dolorosamente nella memoria, in una fuga di giorni oscuri che mettevano nere macchie sullo sfondo scialbo del passato.
Ora un’altra donna sedeva presso il fuoco e tagliava le cuffiette di un bimbo futuro. Chi era colui che doveva venire?
Solo in quel momento il vecchio capì la grandezza della promessa, e capì il sorriso, prima accolto indifferentemente, con cui il giorno prima Stefano, suo ultimo e solo vivente figliuolo, gliela aveva annunziata.
Ciò ch’egli, il vecchio, aveva teneramente sognato in quel lontano pomeriggio della sua giovinezza s’avverava dunque ora? Il ramo degli Arca non si disseccherebbe sterilmente e — ciò che più premeva al vecchio — le ricchezze accumulate con tante ansie non andrebbero disperse.
In questi pensieri, che gli diedero tutta la dolcezza triste dei ricordi e lo struggimento del rimpianto delle cose morte, e la speranza per le cose da venire, stette don Piane a guardar lungamente Maria, seguendo col moto delle sbiadite pupille i movimenti delle mani di lei e la trasformazione della tela, e il riflesso infuocato delle lucide forbici.
Ella sentì con piacere questa intensa attenzione; sollevò gli occhi sereni e, incontrando lo sguardo del suocero, vide nelle piccole pupille un’espressione così insolitamente tenera e limpida che volle tentar la riconciliazione.
— Non ci credevate forse? — domandò, sorridendo e accennando alla cuffietta che tagliava.
Egli sporse le labbra per rispondere, ma le ritirò e tacque.
— Eppure è vero, proprio vero. Gli metteremo nome Stefano, come il padre?
Egli parve contrariato, e solo alla inopportuna osservazione di Ortensia:
— E se sarà femmina?
— Tu, zitta, stupida! — rispose.
Ed ella zittì. Breve silenzio, solo interrotto dal rumore del cilindro, dallo stridìo delle forbici e dal miagolìo del gattino, che introdottosi nel canestro volteggiava attorno al gomitolo. Maria si volse, si chinò e afferrata la bestiolina la tirò fuori.
— Va via, va via, cattivo.
E come ella s’indugiava curva ad avvolgere il filo del gomitolo, don Piane, non vedendosi guardato, ardì sporger le piccole labbra per esprimere il suo egoistico parere:
— Stefano! Stefano! Macchè Stefano! Cosa ci ha da veder il nome del padre! Si devono ricordare i vecchi, il nonno paterno, prima di tutti, poi il nonno materno, poi la nonna paterna, ecc.
— È vero..., cominciò Ortensia, ma un più vibrato: — Sta zitta tu, marmotta! — la richiamò a posto.
— Se il padre vuole..., per me fa lo stesso chiamarlo Piane o Stene, — disse Maria, sollevando il busto.
— Il padre, il padre! — ripicchiò don Piane, — Macchè padre! Cosa se ne intende egli degli antichi usi? Devi volerlo tu, non lui....
La vocetta si fece aspra, dispettosa: il momento di lucidità, di tenerezza e soavità era passato.
Maria pensò che doveva contentare il suocero a scanso di altri malumori. Grazie a Dio se egli sembrava finalmente riconciliante!
— Ma io lo voglio di certo, ma sicuramente, sicuramente....
Rientrando dopo qualche momento, Stefano sentì l’ancora animata discussione; ma al suo apparire si fece silenzio.
— Cosa c’è? — domandò.
Don Piane e Maria tacevano, quasi vergognosi, ma intervenne Ortensia:
— Il padrone vuole....
— Zitta, zitta, zitta tu, sciocca!... — gridò il vecchio.
— E mi lasci dire una buona volta! — gridò ella, minacciandolo col cilindro. — Il padrone vuol metterci Piane, donna Maria vuol metterci Stefano.... A chi? Ma a suo figlio! Ma facciano una cosa per non adirarsi nessuno. Ci mettano un nome che non sia nè l’uno, nè l’altro. Per esempio.... Mosè!
Don Piane ebbe una delle sue rarissime infantili risate, e Stefano stette a guardarlo affettuosamente, con tutta la pietosa tenerezza che gli destava nell’anima quella piccola vecchiaia ricondotta alle debolezze dell’infanzia; poi, per troncar la questione senza pronunziarvisi, annunziò ch’era nominato giurato delle Assise di Sassari.
Partì pochi giorni dopo, e le due quindicine che passò a Sassari furono fra i giorni più gai e felici della sua vita. Sapeva Maria e don Piane in pace, sereni nella tranquilla gaiezza della casa pisana; aveva molti denari nel portafogli e in conseguenza molti amici, coi quali le serate gli trascorrevano veloci, al teatro, nei caffè, giocando, ridendo e chiacchierando. Se in quelle ore di godimento spensierato lo spirito si raccoglieva qualche momento in se stesso, cercando d’interpretare le proprie sensazioni, queste gli rispondevano con un pieno ardente inno alla vita, e tutto l’essere suo si sentiva leggero, agile, sano e perfetto come in quell’indimenticabile istante di benessere provato nella valle. Allora, con la stessa larghezza, se non con la medesima intensità di vedute umanitarie, egli giudicava il prossimo suo.
E con questa indulgenza, e con l’idea fissa, quasi trasformata in monomania, che l’umana giustizia errasse ne’ suoi verdetti; che la giustizia ufficiale fosse composta solo d’uomini sani, ma inetti; o da uomini illusi che, spinti da istintivo desiderio di progredire nella loro carriera, vedevano in ogni accusato un delinquente da condannare; o da uomini malati di corpo e quindi non sereni, nè imparziali di spirito; o da uomini infelici nella vita privata e quindi spinti da incosciente reazione di crudeltà verso il prossimo; o infine da uomini non superiori, non integri, non sollevati al loro posto da vocazione nè conscienziosamente scelti nella società da chi, governando i popoli, dovrebbe specialmente tutelarne i giustizieri; ma innalzati ad un posto tanto alto e delicato dal materiale bisogno della vita e dalla scelta d’una carriera, Stefano, — quando sedeva nel banco dei giurati vedeva volentieri un innocente in ogni accusato, era proclive a credere falso ogni teste contrario (ricordava sempre il Porri), e quanto più il Pubblico Ministero incrudeliva, esponendo cavilli spaventosi, tanto più egli provava strano piacere nell’assolvere l’imputato.
Se poi questo veniva condannato, egli lo riteneva assolutamente innocente, e se ne rattristava e avrebbe provato rimorso se, come Pilato, non avesse creduto compiuto tutto il suo dovere nell’aver, per parte sua, riconosciuta la verità.
Solo nell’estremo dibattimento dell’ultima quindicina diede voto di condanna ad un reo confesso. Ma al ritorno da Sassari, mentre viaggiava nelle secondarie, essendo passato un momento in terza, giacchè nella prime classi era una desolante solitudine, rivide la moglie del condannato; una donnina curva, gialla, cieca d’un occhio, imbacuccata in una gonna d’orbace gettata sul capo, e tremante di freddo e d’angoscia. Ritto, le mani in tasca, egli stette a guardarla così intensamente che ella sollevò fino a lui il suo unico occhio fisso, scuro e lucente come un’uliva, e anch’ella, riconoscendo il giurato, ebbe nello sguardo il fiero balenìo di una imprecazione.
E se ne accorse; e, non per pietà, nè per interesse, ma per semplice impulso di curiosità, domandò:
— Voi siete la moglie del tale?.
— Sicuro! — disse la donna; e il suo occhio olivastro rimase sollevato, fisso e ardente d’odio e dolore. — E tu sei uno dei giurati?
— Sì.
— Me l’hai fatta la camicia tu; mi hai aiutato ad allevar i miei figli: che Dio t’aiuti secondo la tua intenzione! — disse ella amarissimamente; poi, sempre dandogli il latino tu usato nelle fiere libere montagne nuoresi, gli raccontò il fatto del marito, un delitto per passione; e narrò l’estrema miseria in cui ora restava la sua famiglia. Ella, era andata a piedi fino a Sassari con in mano le scarpe e sul capo un involto di pane di orzo; non ostante la neve sarebbe ritornata nello stesso modo, se la carità di molti testimoni, ora viaggianti nello stesso vagone, non le avesse procurato un biglietto ferroviario.
Stefano ascoltò e non provò pietà e neppur compassione, forse perchè l’occhio fisso della donna lo disgustava; ma si pentì del suo unico voto e pensò che anche questa volta la giustizia aveva commesso un errore sociale, togliendo a un dato numero di esseri il sostegno dell’esistenza, condannando un uomo non malvagio, che forse si sarebbe riabilitato nella libertà, mentre dal castigo riporterebbe un cumulo di vizi corporali e morali. Ed anche nella giovanissima famiglia di questo uomo, abbandonata a se stessa ed alla miseria, fecondato dall’infelicità e dal bisogno spunterebbe il germe della delinquenza e del male.
La stessa malvagità, tanto più profonda ed amara, quanto più impotente, che riluceva nell’occhio livido della donna, era un immediato effetto della condanna del marito. Prima quell’occhio non splendeva certamente così; e chi sa ora qual segreto di male la donna riportava entro il suo petto. Certo una fiala di veleno che stillerebbe sui figli aspettanti sulla spenta pietra del focolare, sui fratelli, sui cognati, su tutta la stirpe pronta a vendetta: e forse nel fiero villaggio montano genererebbe una di quelle sarde inimicizie tanto dannose al progresso della umana civiltà.
Dunque, anche condannando il reo confesso, la giustizia aveva commesso un errore sociale? Ma allora dove si andrebbe?
Stefano non trovò subito risposta, e forse non volle trovarla, perchè negativa riguardo alla sua tesi; ma sentì un improvviso malumore, uno spirituale e fisico disgusto, e lo attribuì all’ambiente di quello scompartimento, zeppo di misere donne insolentemente curiose, che lo guardavano come bestia rara, e di uomini dai capelli unti e dalle vesti puzzolenti di cuoio.
Pensò quindi d’andarsene; e nell’uscire ebbe un’idea; si fermò, ostruendo con la sua persona la porta del vagone, cavò il portafogli, ne prese qualche biglietto di banca, li arrotolò e, volgendosi, li porse alla donna:
— Buona femmina, pigliatevi un caffè.
Ella protestò e imprecò, con l’occhio scintillante: non voleva elemosine, non ne voleva da nessuno e tanto meno da chi avevale gettato il marito in galera. Ma poi si lasciò facilmente convincere dalle compagne di viaggio, prese i denari e ringraziò, chinando l’occhio; ma appena Stefano scomparve gli lanciò dietro una fiera maledizione e, fra l’invidiosa attenzione delle altre viaggiatrici, contò i biglietti.
Stefano non vide, ma intuì questa scena, e, solo nel piccolo, incomodo scompartimento di prima classe, s’abbandonò a un profondo malumore: il freddo intenso, il disagio, la melanconica visione dei fuggenti paesaggi nevosi contribuirono a renderlo triste.
La neve stendevasi fino all’orizzonte, e sul suo desolato candore i radi alberi selvaggi, le macchie e gli alti cespugli, da cui il vento aveva scosso il bianco mantello, apparivano d’un umido verde giallastro e cupo, che accresceva l’impressione solennemente triste del paesaggio.
In lontananza, sulle marmoree altezze delle montagne, si scorgevano nitide le fosche macchie dei boschi; il cielo era tutto un’apocalittica visione di viaggianti nuvole di un grigio chiarissimo, dissolventisi in misteriose figure di mostri profilati d’argento. Solo sopra le montagne nuoresi si apriva uno squarcio di cielo azzurro e sereno, un lungo aereo lago, la cui liquida purezza rifletteva l’oro d’un invisibile tramonto. E questo tranquillo, misterioso riflesso calava sulle nevi, gettando sulla desolazione del paesaggio un bagliore d’indicibile tristezza.
Sui vetri del finestrino alcune stille di neve liquefatta avevano pur esse il tenue riflesso d’oro del lontano orizzonte: Stefano stette a guardarle, poi i suoi occhi vagarono sul paesaggio, sulle montagne, sui cieli; e la sua tristezza aumentò, si acuì, si estese e per un momento divenne intensa così da raggiungere il senso della disperazione. Gli parve di esser solo, smarrito, portato violentemente da un’occulta forza malefica attraverso ignote e sconfinate solitudini fredde e morte. Quel lembo di cielo azzurro, quel moribondo riflesso di luce lontana non erano forse il vano desiderio di beni sempre sognati e mai raggiunti? E l’anima umana non forse somigliava alla stilla di neve liquefatta che, tremolando sui vetri, rifletteva il lontano bagliore del sogno, ma che fra un istante sarebbe evaporata e scomparsa del tutto?
Chi parlava nella triste, tranquilla luce delle nevi, nella immensa solitudine dei cieli e delle montagne lontane? Una voce muta, triste. Parlava la vanità della vita, l’impotenza dei sogni; parlavano i cari morti e sorgevano le memorie dei dolori trascorsi, delle perdute illusioni, di ciò che non torna, di ciò che passa per non tornare mai più.
Stefano curvò il viso fra le mani e con queste melanconiche idee rimpianse il mese inutilmente passato a Sassari; si meravigliò di avere potuto godere per sì vuoti e piccoli piaceri; e ancora si pentì dell’unico voto con cui s’era permesso, egli debole, egli imperfetto, egli gaudente e felice, di condannare un povero....
Più la sera avanzava, più cresceva la tristezza sua e quella dei fuggenti paesaggi: si addensavano i grigi velari del cielo, e il tenue riflesso dell’unico lontano lembo di luce smorzavasi, cangiandosi in chiarore come di luna.
Egli provò a scuotersi, cercando conforto nel pensare che l’indomani, a quell’ora, sarebbe a casa sua: ma, prima di raggiungere tanta dolcezza, ei doveva passar la notte a Nuoro e poi nuovamente viaggiare per cinque ore entro una incomoda vettura. Con quel tempo e con quell’umore! Oh, Dio! Chiuse gli occhi con raccapriccio e, quasi ciò non bastasse, ricordò che l’indomani mattina — certo, una noiosissima, orrenda mattina — doveva calpestar la fangosa neve delle vie di Nuoro per recarsi da avvocati e magistrati onde sollecitare il processo Gonnesa.
— Oh, Dio mio, Dio mio! — gemè, rialzando le palpebre; e di nuovo, trovando tanta contraddizione fra ciò che sentiva e quello che doveva operare, provò un disperato scontento. Come nella indimenticata mattina d’autunno, egli sentiva tutta la sua debolezza, tutta l’imperfezione del suo carattere; ma ora, nel freddo e morto cerchio di quel vespero nevoso, disperava di trovar la sua via.
Avvicinando il volto ai vetri, tanto che il suo fumante alito li appannò, tornò ad immergersi nella visione del fuggente panorama nivale: le nuvole invadevano anche il lontano lembo sereno, le gocce del vetro tremavano grigie, ogni luce, ogni estrema speranza, ogni sogno moriva nell’uniforme, sconfinato, gelido squallore delle nevi. Tutta la vita, tutta la natura era un immenso cimitero marmoreo, e i morti, solo i morti parlavano nel lento avanzarsi delle nuvole cineree e nell’immacolato silenzio dei pallidi orizzonti.
Stefano pensò a Carlo, l’ultimo e il più amato de’ suoi morti, e fu in quella sera di supremo sconforto che vagamente, mentre disperava della vita e di se stesso, ebbe l’idea di porre il nome del defunto al figlio nascituro. Il pensiero dei morti lo spingeva verso coloro che dovevano nascere; e mai come in quella triste sera pensò più intensamente al figlio che fra pochi mesi, forse al maturar del grano, Maria gli avrebbe dato. Oh, se i morti parlavano nelle dilaganti nuvole nevose, i nascituri avevan sorriso nel lembo di cielo sereno, e il loro sorriso d’oro restava ancora occulto, ma potente e benefico, sulla tristezza dell’anima turbata. Lassù, nella fulgida visione, era la salvezza di tutta una esistenza. Nell’educare suo figlio, il gentiluomo fannullone e annoiato avrebbe trovato lo scopo della sua vita: e questo scopo sarebbe di far del bimbo sano un fanciullo educato, un adolescente puro, un uomo forte e sicuro di sè e di quanto voleva, o tutto artista o tutto lavoratore, ma ad ogni modo giusto ed onesto, non ibrido, non felino, non incerto e scontento di sè e degli altri, come l’educazione aveva reso il padre suo.
Il piccolo treno si fermò un poco nella livida stazione del Prato di San Michele.
Stefano non si mosse: quanto v’è di tristezza, di dolore, di desolazione nella vita pareva dilagasse sul cielo di quella sera invernale e nel cuore dell’unico viaggiatore di prima classe.
Eppure, come sotto le nevi, nella indicibile desolazione della pianura, germinavano i grani, l’erbe ed i fiori, nel cuore sepolto da tristi sogni, inconsciamente spuntava una speranza salvatrice, dolce e solenne come il motivo sentito nella valle e invano avidamente ricercato nelle note sonore del cembalo.
- ↑ Erone, vocabolo senza dubbio proveniente da Nerone; significa persona crudele e malvagia.