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cupo e color cannella, ancora spiegate, e il rosso becco aperto: il cane ritornò correndo, con occhi scintillanti, seguito dagli altri due cani, che a metà strada si fermarono, quasi umiliati dalla prodezza del compagno.
Stefano tolse la pernice, le piegò l’ali sul petto ferito ancor palpitante, e la gettò entro la bisaccia; e rimontò in sella, facendo camminar passo passo il cavallo, con la speranza che i cani scovassero altre pernici nelle macchie di bassi peri selvatici e di olivastri; ma per un buon tratto di strada, per quanto Josto fiutasse e frugasse, non si scorse altro volatile che qualche corvo perduto nelle azzurre trasparenze del cielo sereno.
Rasa e deserta la campagna; si susseguivano solo in lunghe linee d’un verde cupo e melanconico le scapigliate macchie degli ulivastri, dei peri selvatici, dei rovi, schiarite qua e là da qualche verdissimo cespuglio di brusco: e così intenso ed esteso era il silenzio che l’eco dei passi del cavallo risuonava lontano.
Dopo un buon tratto di galoppo, Stefano mise capo nella regia strada che attraversava la bassa montagna al di là della quale erano le tancas di Nuraghe ruju. Sotto lo stradale scendeva rapida una valle, sul cui fondo scorreva un torrente, detto anch’esso di Nuraghe ruju perchè una sciocca tradizione popolare affermava che quelle povere acque raccogliticcie