Il secolo che muore/Capitolo IX
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Capitolo IX.
AMORE TERRENO,
E se la Parca ti proceda amica, ella non può fare a meno, che pigliando un tosone di oro per filare la tua vita, non ci mescoli dentro alquanto di lana scura: così ordinarono i fati; mentre se all’opposto, per elezione, o per destino, la Parca scelga per te il vello nero, tutti bui si succederanno i tuoi giorni, e pieni di amarezza: fra le tenebre del tuo sepolcro e quelle della tua vita, aspetta e vedrai che non ci corre differenza alcuna.
I casi avversi chiama la gente Sventura, come se fossero una cosa sola, e di qualità pari; invece la Sventura è molteplice, simile in tutto ai serpenti di Laocoonte; o se pure ella ha un corpo solo, mirala (Dio ti preservi da provarla!) i suoi capi sono infiiiiti! Cotesta idra spietata ti lacera il corpo, e nello stesso punto lo spirito; nel punto stesso t’investe la facoltà del pensare e quella del sentire; il sepolcro non ti possiede ancora, ed ogni giorno senti la morte.... Ch’è mai l’uomo fra gli artigli della Sventura?
Eppure, guarda cotesta onda mostruosa dell’Oceano! Anco il mare conosce le sue catene di monti, pari a quelle della Imalaia, delle Cordigliere e dello Alpi, quantunque esse sieno mobili, ed ei le faccia e le disfaccia senza posa.... Osserva.... osserva.... vedi quel punto nero che apparisce e scomparisce?.... Non vedi nulla! Ecco, guarda con questo telescopio e fa presto, elle il punto nero sta per iscomparire per sempre. Lo vedi!... Ebbene, l’onda mostruosa investì uno dei Leviatan del mare, i quali col ferro e col fuoco portano la schiavitù e la morte; lo travolse giù nell’abisso, lo trabalzò fino al cielo, e quivi lo disperse ai venti insieme con le sue spume; tutto scomparve, alberi, vele e la bandiera che nei giorni sereni, ventilata dalle brezze dell’Oceano, pareva che collo zufolare delle pieghe dicesse: anche l’Oceano mi riconosce signora!....
Cotesto punto nero è un uomo, che combatte contro l’Oceano. Con quali forze? Non ci pensa. Per quanto tempo? È già sparito, ma ha combattuto. Vissero e vivono anime non degne di trovarsi abiettato dentro mi corpo di creta, che non piegano alla forca caudina del fato, e Bruto sputò la sua anima in faccia alla Sventura esclamando: «Vergognati della tua onnipotenza» E così Spartaco schiavo, e Catilina patrizio: entrambi caduti supini sul campo di battaglia, entrambi laceri di ferite nel petto, e con gli occhi aperti, trucemente fissi nel cielo, e co’ ferri stretti nel pugno sfidavano ad un punto e maledivano i fati. La paura consacrò la fama di costoro agli Dei infernali, e la esecrazione mantiene sopra essi e la rinnova contro quelli che gli somigliano, perchè dura la medesima paura. Furono virtuosi? Io non lo so; so bene quest’altro, che chi li spense sarebbe stato in ogni caso più malvagio di loro.
Impertanto possono combattersi i fati; vincersi no. Taluna di quelle povere creature che si chiamano re ebbe la presunzione di farsi sudditi i fati, e Carlo di Angiò al primo urto di sventura superbamente vantava: «Buono studio vince rea fortuna.» Quando poi senti trafiggersi da strali più fitti, che non appaiono atomi dentro il raggio del sole, curvò la testa supplicando: «Sire Dio, fa che la mia caduta sia a piccoli passi!»
Concetto degno di re, non già di uomo, imperciocchè dimostri com’egli non intendesse perseverare nei supremi contrasti, bensì accomodarsi agli eventi a patto gli fornissero un nido dove riparare. Pure di non essere portato via, gli bastava durare sbattuto, come la pianta marina abbarbicata sul fianco dello scoglio vive vita di tremito.
Ai giorni nostri l’uomo, pauroso di rimanere sbranato di un tratto dalle granfie del leone, preferisce disfarsi lentamente in polvere sotto la roditura del tarlo; non vi state a confondere; se Napoleone I avesse provato appetito della bella morte, l’avrebbe trovata: io non dirò che la sua scelta fosse coraggiosamente codarda1, ma egli è certo che volle vivere per giustificare lo abuso delle facoltà concessegli da Dio.
Perduto il trono, intese conservare la fama: e convertita Sant’Elena in pulpito, si mise a predicare concetti che non ebbe mai; o se pure egli li accolse nella mente, e’ fu per disperderli. Vincitore, oppresse la umanità; vinto, la ingannò. Oh! non badate al tiranno caduto, che favella di libertà; le sue parole hanno per fino di costituire il fondamento di un altro trono. Dall’isola di Sant’Elena, Napoleone I legò al mondo Napoleone III, nella medesima guisa che Augusto legava ai Romani Tiberio.
Il poeta della Francia ha pianto sulla demolizione della colonna di piazza Vendôme, doveva piangere quando fu eretta. Tutti i popoli di Europa conservano memorie di avere sbranato, e di essere stati sbranati: se le tigri e i leoni conoscessero le arti, avrebbero anch’essi le loro colonne traiane, napoleoniche e nelsoniane.
Le arti cortigiane possono lamentare la dispersione dei trofei di sangue; la umanità se ne rallegra. Il cantore che lusinga gl’istinti feroci del popolo non riceverà mai il premio dello amplesso di Dio; bene l’amore sarà una corda della sua lira, non già un sentimento del suo cuore. Fin qui i francesi delirarono ubbriacarsi di sangue, più che di vino, ed oggi, non si potendo inebriare col sangue altrui, bevono il proprio.
E l’uomo ragnatelo, che fu Napoleone III, il quale prima ridusse la Francia in condizione d’insetto, e poi la risucchiò; adesso torna, pieno di speranza, a ordire la sua tela per riagguantare la mosca morta.... Almeno Belzebub era il demonio delle mosche vive! Anco co’ denti fradici si mangia, anco con la viltà si campa, anco allo strepito delle maledizioni assuefannosi le orecchie, e si dorme: uomini siffatti prima di ogni altra cosa vogliono vivere, ed a ragione; curano la materia, perchè sono e sentono essere totalmente ed unicamente materia.
Con lo amore si cammina a gran giornate, e poichè il conte Ludovico ed Eponina si amavano senza incontrare ostacoli, potete immagmare voi se la macchina scivolasse a tutto vapore. Però bisogna dire che lo amore di questa non fosse uguale in tutto e per tutto allo amore di quello; la differenza chi sapeva cercarla la trovava. Era l’amore di Eponina amore di conquista e trionfale; amore, che nato appena, squassato l’arco gridò: «Valgo, e voglio regnare solo»: amore, che di ogni fiore fece ghirlanda ed anco, pur troppo, di ogni pruno siepe; amore, di quelli che alternano il nudrimento con desiderii terreni e con aspirazioni divine: simili alla rondine, la quale rasenta la terra per terminare la sua curva in mezzo dei cieli, essi pigliano per volare le ali in presto così dalle passioni come dallo ingegno e dai talenti; che la rondine anco quando rade la terra vola, e lo amore posandosi sulla materia alla impaziente a levarsi più in alto: però Eponina se avesse voluto spegnere il suo amore avrebbe potuto; certo le sarebbe stato mestieri pigliarsi il cuore e adoperarlo a modo di pietra per ischiacciargli il capo, ma lo avrebbe potuto: Ludovico all’opposto, quando pure avesse voluto, non avrebbe potuto per propria virtù; ma, in forza d’impulsi esterni, avrebbe potuto, anco senza volerlo. Natura da paternostro la quale non si ripromette resistere alle tentazioni, ma si raccomanda quotidianamente a Dio per non essere indotto in tentazione.
La madre Isabella invece di temperare gli ardori della figliola, gettava legna sul fuoco, e poi ci soffiava dentro: se l’avessi a dire proprio come la penso, io per me credo, che mutatis mutandis (per valermi dello stile dei notari) ella fosse iavaghita del contirno Anafesti, poco meno di Eponina. O come mai? Ordinariamente la va così; garbavano alla Isabella i modi del contino, spruzzati in pelle in pelle di nobilesca albagia, il suob fare amabilmente contegnoso, la grazia della persona, lo incesso, la parola, il volto, e tutto, perfino il balbutire, vizio col quale i gentiluomini di razza manifestano la propria virtù. Isabella, a fine di conto, popolana nacque, e venne educata da pari sua: però tu che leggi, se sei popolano, devi confessare che grande è la potenza dei titoli sopra i cervelli popoleschi e sul tuo.
Quando un popolano pesta le mani ed i piedi gridando uguaglianza, per ordinario non gli do retta, imperciocchè io pensi che uguaglianza gli appetisca sìi, ma a patto di diventare co’ marchesi marchese. Allorchè tu presenti al popolano un conte, quantunque spiantato, tu, il più delle volte, lo miri, confnso per non saperlo onorare abbastanza, facendogli di berretta, e profondendogli inchini: caso mai il popolano od abbia, o si immagini avere l’amicizia di un titolato, tu lo udrai ricordare a tutto pasto il suo amico barone, o conte, o marchese, od anco cavaliere scusso. Là dove il popolo è condannato a starsi terra terra, come la porcellana, urla uguaglianza; se avvenga poi ch’ei si alzi un sommesso, lo proverai superbo come tutti i servi diventati padroni. E tu che mi leggi, ricorda come un popolano, anzi plebeo, erpicato un dì nei Consigli della Corona, a mo’ di zucca sopra la pergola, immaginasse la vendita dei titoli di nobiltà, e ne prescrivesse la tariffa: egli pose a prezzo l’onore, nella stessa guisa che la Curia romana ci aveva messo il paradiso con la vendita delle indulgenze: così mentre la nuova nobilea niente acquista che turpe non sia, la vecchia perde il pochissimo lustro che le avanza. Una volta l’antica nobiltà era in parte rispettata, col manto orrevole di fodera di vaio spelacchiata, tanto la sua figura la faceva; adesso la, nuova, infagottata nei mantelli, col soppanno di pelle di gatto di fresco scorticato, pone parecchia buona gente in sospetto della propria pelle. Un dì i nobili vecchi disprezzavano i nuovi, e non a torto: oggi i vecchi ed i nuovi si disprezzano vicendevolmente, e a ragione. Una volta i nobili vecchi mandavano fuori a correre il palio titoli e servitù, i nobili nuovi ci hanno aggiunta una puledra che si chiama Rapina. Affermano che il Giusti (il gran cantore toscano, che dal bellico in giù fu moderato e dal bellico in su rivoluzionario, fiera divina2), quando cantò di un pirata in cappamagna, pigliasse la mira sopra un tale dei tali, per me credo ch’egli intendesse bersagliare tutta la classe dei pubblicani. Napoleone I, magno conoscitore dei peccati umani, che forse poteva curare da Dio ed invece volle approfittarsene da tiranno, fomentò il guazzabuglio fra la nobilea viziosamente spiantata e la nobilea colpevolmente arriccliita; e travasando fanciulle plebee con grosse doti sulle famiglie feudali, diceva che a cotesta maniera bisognava letamare l’antica nobiltà sterilita.
Certo, non può negarsi, e’ ci ha di quelli i quali si mostrano e sono alieni davvero da siffatte distinzioni artificiali, ma se tu la squattrini pel sottile, troverai che a ciò li conduce non mica amore di uguaglianza, bensì studio di non vedersi menomata la legittima disuguaglianza da essi ottenuta per opere eccelse o di mano o d’ingegno, ne vada confusa con la turpe disuguaglianza venduta a tariffa che del vile anco è fregio3.
Eccetto questo caso che, raro sempre, ogni di più si stema, titoli e croci non furono mai tanto agognati quanto in questi tempi di fior di democratici, e dai repubblicani larghi di cintura più che più, i . . . informino.
I nostri amanti non si erano promessi con parole di legittimare l’affetto onde si sentivano presi davanti il prete od il notaro, perchè nell’amore quando è di quello buono, ciò che parla meno sono le parole: con gli occhi, col sorriso, col tremito con gli effluvi della persona se lo dicevano e promettevano sempre. O chi avrebbe voluto contrastarlo? Ed anco volendo, o chi lo avrebbe potuto? La signora contessa, madre di Ludovico, lo amava troppo per pensare ne manco per sogno a far cosa che gli tornasse molesta, cotesti non sono tiri da mamme amorose, massime sè di figli unici; certo ella aveva preso lingua e le sarebbe stato caro di concimare con più letame plebeo, che non avrebbe potuto Eponina, la sua casa sfruttata, ma poi fiat voluntas tua. E quanto a babbo Marcello, non ci si pensava neppure; di tante cortesie lo colmava, tanto volentieri con lui si tratteneva, che si giudicava sicuro dovesse parergli toccare il cielo col dito accasando la sua cara figliuola con Ludovico. O non ci è un arnese che ci prenunzia il tempo cattivo? Sicuramente che ci è, e parecchi lo serbano in casa sotto forma di cappuccino, il quale quando la stagione mette al vento o al piovoso, si incappuccia, e se al buono, scapucciasi. Ora domando io perchè non potrebbe essere corredata del suo barometro anche l’anima? che difficoltà! Per me non ce ne vedo alcuna. Ma chi lo ha visto? Come è egli fatto? Chi lo fabbrica? Oh! se non si vede si sente. Quanto al fabbricante mi prevarrò dell’arguzia subalpina del ministro Galvagno: Rispondo che non rispondo. Lepidezza di cui rimase sbigottito quel desso che la profferì, e parve prodigiosa tanto là nelle parti del Piemonte, che il Municipio di Torino deliberò conservarla nell’acquavite, allato ai feti mostruosi, dentro il Museo di Storia naturale.
Fatto sta, che mal sonno aveva dormito Eponina, ed Isabella peggio: entrambe si erano alzate di pessimo umore: fin lì avevano trascurato le squisite mondizie della persona, loro cura e delizia. Eponina trascurò il pappagallo, che indarno ripeteva indiavolato: Eponina! Eponina! Isabella pestò la zampetta al suo Cialì: la prima erasi versato addosso la tassa del caffè, l’altra aveva rotto una caraffa di cristallo. Tutto insomma presagiva un giorno uzziaco. Con sospiro affannoso le donne aspettavano la posta del mattino, dacchè Ludovico, quantunque passasse la serata a veglia in casa Marcello, pure prima di coricarsi scrivesse una epistola erotica, breve o lunga, conforme gli frullava, e la faceva impostare, ovvero usciva ad impostarla egli medesimo, onde la fanciulla dell’animo suo la ricevesse la mattina per tempo: ghiribizzi d’amore.
Queste lettere specificano a parte a parte.... Rassicurati lettore; in non vo’ dirti davvero che cosa e come dicessero; ho fatto per metterti paura: tu pure ne avrai scritte, rammentale, ed immagina che quelle del conte non saranno state più argute nò più sceme delle tue: piacevano a chi le dettava. piacevano a cui le riceveva; contenti loro, contenti tutti....
— Eccolo! Eccolo! — esclamò Eponina dalla finestra dove si era affacciata. — Dio mio! fanno la leva dei gottosi per fornire di fattorini la posta.... è uno scandalo.... ne vo’ scrivere al Barbavara.... ed occorrendo anco al ministro.
Credo inutile dire che il fattorino non era neppure di leva pel servizio militare, mancandogli giusto otto mesi a compiere venti anni, e lesto in gamba così da dare tre punti a Mercurio, e le linguaccie dicevano che la prestezza non era la sola qualità da lui posseduta in comune con Mercurio.
Il pacchetto è consegnato alla portinaia; qpesta, punta dalla padrona, lo porta su di volo: Eponina in capo di scala glielo strappa di mano e riscontrando foglio per foglio mormora:
— Giornali.... anco giornali.... maledetti quanti giornali vivono al mondo! (e per questa volta dalla maledizione non rimase escluso veruno, nemmeno la Novità del Sonzogno, che la Eponina come patriotta preferiva a qualunque altro giornale di mode parigino).... Lettere per papà.... una per te, mammà.... per me nulla, o Dio! Nulla per me.
E la povera giovane sarebbe stramazzata sul pavimento, dove pronta al soccorso non l’avesse accolta nelle sue braccia la madre: se non che di corto ripigliava animo come sicura di non potere essere dimenticata, ne s’ingannò, che scorso un quarto d’ora appena, la cameriera discreta accostandole le labbra all’orecchio ci susurrò:
— Gaspero l’aspetta di là, in sala, per consegnarle una lettera del padrone nelle sue proprie mani.
— Che novità son queste! Ditegli che venga qna.
— Gliel’ho già detto, e mi ha risposto avere ordine di parlare a lei sola.
Eponina ansando va a pigliare la lettera, sul punto di aprirla nota come Gaspero, dopo fatto un profondo inchino, accennasse a svignarsela, onde ella imperiosamente gli comandò: — Non vi movete.
E Gaspero di cui il mestiere era obbedire si fermò, perchè tra l’ordine del padrone un po’ stantio, e quello della Eponina fresco fresco nella cronologia della obbedienza, prevaleva l’ultimo. Eponina con una ondata di virtù visiva lesse di un tratto:
«Amor mio!
«Che io ti ami non importa dirtelo; che tu conosci quanto me, forse meglio di me, che sono cosa interamente tua; quando pure volessi non potrei dimenticarti, e tu sai se io lo voglia; eppure una terribile necessità mi stringe la gola sforzandomi a lasciarti. Io mi conserverò intero all’amor mio, perchè il mio amore è il mio cuore; ma sarei peggio, che tristo se pretendessi, od anco ti consigliassi a respingere gli omaggi che ti verranno fatti da altri certo non più devoti, ma più fortunati di me, Eponina di una cosa ti supplico,’ ed è non credere verbo di quanto ti verrà fatto udire a carico dell’onor del tuo Ludovico. Per le ossa del padre mio, per la vita della madre mia, per l’amor nostro, io ti giuro che la colpa altrui mi precipita in questa desolazione. Mentre tu leggerai questa lettera, Milano avtà avuto da me l’ultimo addio».
— Ho capito — disse imperturbata Eponina e fissando di un tratto gli occhi dentro gli occhi di Gaspero gli domandò:
— E quando parte il vostro padrone?
Il servo preso così a soqquadro rispose:
— E’ non me l’ha anche detto?
— Dunque si trova in casa?
— Oh! no signora, egli è partito.
Allora Eponina, abbrancato con incredibile violenza Gaspero pel petto, gridò:
— Guai a te se mentisci! Che dalle tue bugie può uscirne un precipizio, che i tuoi occhi non basterebbero per piangere; dove si trova in questo momento Ludovico?
Il servo, conquiso dagli sguardi di Eponina, terribili di amore e di furore, come persona costretta dal fascino, rispose: — In coscienza io non lo so, uscì di casa stanotte, e non lo abbiamo visto più. La signora contessa mi ha ordinato piangendo di fare i bauli per un viaggio lungo e di portarli a Venezia
- la mia partenza è stabilita a stasera per l’ultima
corsa della ferrovia.
— Prendi e bevi — disse Eponina porgendogli una moneta, e l’altro corrucciato respingendola soggiunse:
— Nè prendo, nè bevo.... palesando il segreto del mio padrone ho commesso errore, ed ora vuole ella col suo danaro convertirmelo in colpa?
— Hai ragione, scusa, va.
Eponina tornata alla madre la mette a parte del successo, e a lei, che si confessava povera di consiglio, risolutamente favella:
— Madre mia, qui il tempo stringe, e come vedi lo indugio piglia vizio, io non voglio ne posso essere di altri che di Ludovico; nel mio amore sta la mia vita; divisa da lui, o ammattisco, o mi ammazzo
- le parole non montano; andiamo a trovare
papà, e facciamo in modo ch’egli acconsenta subito al mio matrimonio con Ludovico; ottenuto il consenso paterno, lascia a me il pensiero di scovar lui; ci uniremo e poi partiremo insieme, dacchè io intenda partecipare come moglie alle sue ree del pari che alle sue prospere fortune.
I gesti e i detti di Eponina soggiogavano, e poi la madre conosceva a prova l’arduo volere di lei, sicchè estimando ogni opposizione vana, si piegò ad accompagnarla nello scrittoio del padre.
Ivi rinvennero Marcello, il quale seduto davanti al banco si reggeva la testa con le mani, in atto di leggere un foglio; da più di un’ora ci teneva gli occhi su, e una volta in fondo, tornava da capo; al comparire della moglie e della figlia, tolse via con precipitazione il foglio, che si ripose in tasca, nel mentre che co’ cenni invitava le donne ad assettarsi
- il suo volto era torbido, e taceva; sarebbe
toccato a Isabella incominciare, ma sì, tentava rinvenire il bandolo della matasso, e non ci riusciva; allora, come sempre, risoluta Eponina prese a favellare
- brevi le sue parole e quasi incise sopra
metallo; la voce stessa rendeva il suono che esce dalle vibrazioni di una corda metallica.... ma ahimè! non corda di metallo, bensì la più delicata fra le fibre del suo cuore mandava fuori quel suono infelice. La udì Marcello, con sembiante di mano in mano più triste; quando ella ebbe finito il suo discorso, il padre esitò, gli balenarono gli occhi, aperse le labbra per parlare, ma, appena ne fa uscito un suono inarticolato, le richiuse; tuttavia gli occhi di Eponina, fitti sopra Marcello, scottavano; non ci era verso da sottrarsi alla risposta, ond’egli all’ultimo cupamente sentenziò:
— Prima di saperti moglie a costui io vorrei vederti morta. — Perchè?
— Tanto ti basti, Eponina, e non costringermi ad affliggerti e ad affliggermi di più; a questo pensa che il padre piglia cura della felicità e della fama della sua figliuola per lo meno quanta ce ne può pigliare la figliuola stessa.
— E tu, padre, rammenta che io ho coscienza, che io ho volere, e. non posso commettere al giudizio altrui ciò che è sostanza dell’anima mia; riconosco in te l’autorità di chiarirmi e di consigliarmi, ma volere e pensare spettano a me.
— E pure bisogna che per questa volta sia così. La causa che mi fa dire venne confidata all’onore di tuo padre; pretenderesti tu che io mancassi al mio onore?
— Bisogna.... bisogna... — mormorava. Eponina.
E il padre di rincalzo: — E il suo celarsi e il fuggire dello sciagurato non ti dice nulla, figlia mia?
— Nulla, però che io sappia come noi altri cristiani adoriamo un innocente, che fu lacerato ed infamato con la morte degli schiavi.
— Eponina! — esclamò il padre, ed aperse le braccia: la figliuola vi si gettò dentro, ma non piansero, non aggiunsero parola. Tatto quello che potevano dirsi, si erano detto.
Da parecchi giorni Ludovico Anafesti si trova a Vienna sotto nome mentito. Senza amicizie, mal pratico del paese, ignaro della lingua tedesca, non bene fornito a danari, erasi ridotto a stare nel primo albergo che gli avevano proposto, e quivi viveva di pessima voglia struggendosi nell’angoscia; pur troppo lo premeva il male e lo spaventava il peggio. Dalla madre fin qui veruna lettera: mandava Gapero due o tre volte il giorno alla posta, e quando il servo dopo breve ora tornando gli annunziava da lontano: Niente! il capo gli cascava giù peso sul petto come se glielo avessero empito di piombo, a mo’ che fece il plebeo Settimuleio con quello del suo amico Caio Gracco. Per ordinario il giovine taceva; però di tratto in tratto lo spasimo che lo lacerava gli faceva forza a lamentarsi con parole tronche, nelle quali ricorrevano spesso i nomi di Eponina e, della madre: imprecava al destino che lo aveva forzato ad abbandonare questi unici amori dell’anima sua: aggiungeva poi non so che di generosità sprecata..... di condizione insopportabile...... dando in certa guisa a divedere che l’immane sacrifizio incominciava a pesargli.
— Senza colpa ne peccato ho perso tutto, — egli diceva — casa, nome, patria, madre ed Eponina, che a quest’ora, o non pensa a me, o con orrore ci pensa.... Oh! se tu sapessi quanto patisco per te.... tu mi saresti accanto a temperarmi il fiele che bevo.... Io non sono avvezzo al dolore, e questo è troppo, ed incomincia adesso.
Gaspero da dieci minuti gli stava impalato davanti, aspettando la occasione opportuna per favellargli, la quale parendogli ora venuta incominciò:
— Il padrone della locanda, signor Bruksteiner, persona garbata, mi ha messo a parte essere usò di questa locanda regolare il conto co’ forestieri che si fermano una volta in capo a dieci giorni; al quale effetto....
E gli porgeva la nota: Ludovico ci getta gli occhi sopra, e vede che ella sommava niente meno che a cinquanta fiorini, ond’è che rendendola a Gaspero, lo avverti languidamente:
— Gaspero, paga e poi procura subito di trovarmi un albergo di cui il padrone sia meno garbato, ma più discreto, che, andando avanti di questo passo, in poco più di un mese mi troverei al verde.
— O la signora contessa non le diede le gioie? Forse a Vienna le gioie costano come ghiaie?
— O Gaspero, tu ti hai a rendere capace come nella vendita delle gioie, quando si scapita un terzo si scapita poco; che se caschi in mano al giudeo, il quale di questi commerci si è imposto, e noi lo sopportiamo tiranno, fa conto che s’ei non le giudicherà ghiaiottoli, la batterà di lì: e poi io tengo sacri questi ornamenti materni, e sebbene comprenda che un giorno o l’altro mi toccherà a venderli, pure io sentirei rimorso ad affrettare la necessità di disfarmene.
Graspero, provvisto di tanti bei marenghi d’oro, andava alla volta del locandiere garbato, ne stette molto a tornarsene tutto raggiante verso il suo padrone, nel cavo della mano manca stringeva tuttavia i marenghi di Ludovico, e con la destra agitava un borsellino di moneta; era fuori di sè dall’allegrezza (perchè se il vino letifica il cuore dell’uomo, a mille doppi lo esalta il danaro, col quale si compra e vino e pane e carne e ogni altra cosa) e con voce che aveva preso l’argentino del metallo ragguagliava il padrone, come il sig. Bruksteiner, proprietario della locanda l’Aquila Imperiale, avesse in quella stessa mattina ricevuta la somma di franchi duemila da consegnarsi al signor Giulio Bonatti; ond’è, che prelevatine duecento in saldo del conto, gliene contava milleottocento, dei quali, pregava gli facesse un bocconcino di riscontro, per sua regola.
-— Ma io non li aspettava....
— In coscienza, signor Ludovico, che sia benedetto, le pare questa una buona ragione per rifiutarli.
— Non ho detto questo: temo ci sia equivoco e non vorrei....
— In quanto a questo, dorma fra due guanciali; il signor Bruksteiner ha scritto sopra i suoi registri, e l’ho visto io con questi occhi veggenti: Ricevuto da M. Hans Kreutzer franchi duemila in oro da passarsi al signor Giulio Bonatti, n. 8. Tante cose ci tocca a pigliare, che non aspettiamo e che non vorremmo pigliare, che la sarebbe bella respingere i quattrini, che pigliamo più che volentieri. Dia retta a me, li pigli addirittura, che per me, mi pare di vederlo, li manda la sua signora madre.
— No, Gaspero, non vengono da mammà; me lo dice il cuore; non mica perchè non volesse, ma perchè temo, poveretta! che non possa.
— O chi vuole che, a questi lumi di luna, mandi a spasso duemila franchi, se non è la madre?
— Sta zitto; pochi amori vincono quello della madre, pure ve ne ha uno che vince anco lui.
Compiacetevi ripassare le Alpi e tornar meco a Milano. Eponina è sparita. Dopo le novissime parole favellate col padre suo, ella parve tranquillarsi: alla madre, che blanda industriavasi consolarla, rispose:
— Non fa caso; vedi, io non mi sgomento; ho fede nella innocenza del mio sposo Ludovico; e il tempo la chiarirà.
Convenne a mensa insieme con gli altri; certo, se si dicesse che il pranzo fu lieto, sarebbe bugia, ma ne anco fu tristo come si presagiva: più confusi degli altri apparvero Marcello ed Isabella, i quali, quantunque amassero del pari tutti i loro figliuoli, pure della Eponina andavano orgogliosi, però ebbero caro che, termmato il pranzo, ella proponesse di recarsi a veglia dalla signora Claudia tanto per isvagarsi.
— Va pure, le dissero a coro i parenti, e fa di cacciare i tristi pensieri, pensando che dopo il tempo cattivo ne viene il buono.
Tu ti rammenti sicuramente, mio diletto lettore, di donna Claudia? La zia biscottina del rompicollo il quale poneva ogni sua speranza, per rammendare gli strappi fatti nel proprio patrimonio, nella eredità di lei? Questa signora abitava un quartiere nel medesimo palazzo dove aveva stanza Marcello. La signora Claudia in gioventù coltivò parecchie maniere di amori; il suo cuore era un porto capace per tutti; nella lunga navigazione della vita aveva dovuto far getto ora di questo ora di quell’altro amore, ma però ne aveva conservati due più preziosi di tutti, co’ quali costa costa ella si augurava riparare in braccio alla divina provvidenza, voglio dire, l’amore dei biscottini con la cioccolata e quello di santa madre Chiesa, la quale, come ognuno sa, è sposa legittima di Gesù Cristo, redentore nostro. Costei era un po’ maligna, un po’ linguaggia, anco un zinzino scandalosa; la tacciavano altresì di avarizia, ma per acquistarsi la gloria del paradiso non intendeva miserie, sparnazzava alla grande; del rimanente pulita come una gatta, bella favellatrice e dama di tratto signorile; si mostrava svisceratissima per la Isabella, che assai aveva usanza con le figliuole in casa sua, e la signora Claudia accoglieva tutte con festa, ma sua delizia era Arria. Questa ogni dì per non poche ore se ne stava allato a lei, ed ella l’ammaestrava nell’arte del ricamo in seta ed in oro, nel fabbricare fiori artificiali e a miniare Gesù bambino e i santi, cose tutte nelle quali riputavasi ed era certamente valentissima.
Arria, secondo il consueto, in cotesto dì, dopo le nove di sera tornò alla casa paterna: interrogata perchè non fosse venuta seco Eponina, ebbe a rispondere non averla veduta dal pranzo in fuori, nè in casa della signora Claudia esserci punto stata: dapprima crederono che parlasse per celia, ma e’ fu uno istante, che tosto subentrava la dolorosa realtà.
A cui legge riuscirà più agevole immaginare la desolazione della famiglia, che a me descriverla; però me ne passo. Le fantasie germogliavano, si urtavano nel cervello di quella povera gente, e via via più angosciose: più delle altre importuna ricorreva quella che disperata avesse posto fine ai suoi giorni, onde Marcello, che se ne chiamava in colpa, guaiva come se lo trafiggesse il male dei denti nel cuore; anche egli voleva darsi moto, ma non avendo balia di reggersi in piedi stramazzava, nè gli altri, compresi interamente dal proprio affanno, badavano a lui; correvano privi di consiglio; i parenti e gli amici convenuti a casa durarono tutta la notte nella ricerca piena di agonia, e non venne lor fatto riuvenire nulla, come accade sempre quando la mente si volta tutta ad un punto che non è il vero. Chi puà ridire le ansie di cotesta notte? Chi lo spasimo dei genitori? Chi le smanie di tutti? La mattina si radunarono in casa Marcello: tampoco se si fossero incontrati altrove si sarebbero riconosciuti, tanta apparivano nelle sembianze mutati. Rovistata da cima in fondo la camera di Eponina, non occorsero in iscritto, ovvero in indizio altro qualunque, capace di fornire lume: giunse la posta, e con la posta, bontà di Dio! una lettera, la quale, sebbene sconfortante, di fronte allo sgomento che li travagliava parve sollievo.
La lettera di Eponina diceva così:
«Io corro sopra le traccie dello sposo che la mia anima si è eletto per istarmi con lui e partecipare le sue fortune. Per me lo stimo, anzi lo so innocente di qualunque colpa, che altri, o illuso o perfido, possa apporgli: e fosse anche reo, la parte della donna è quella di portare coraggiosamente la croce del marito. A Maria bastò l’anima per accompagnare Gesù al patibolo e per consolarne l’agonia: ora nel patire, tutte le donne hanno da sentirsi Marie: che, se ella era madre io sono sposa; e questo amore o supera quello o lo ragguaglia. Non porto invano il nome di Eponina. Ad ogni modo chi accusa e condanna deve provare la colpa; e trattandosi d’indurmi a pestare il capo di persona a me congiunta coi vincoli più solenni, che conoscano le creature umane, io non devo, nè posso starmene al giudizio altrui: se lo facessi, sarebbe viltà, se altri lo pretendesse, commetterebbe ingiustizia. Considerati i nostri tempi in confronto agli antichi, oggi il padre che impone alla figlia di spegnere il suo amore già consentito e benedetto da lui, solo per cieca obbedienza alla autorità paterna, è più tiranno del padre romano, al quale si concedeva la vendita dei figli sanguinolenti.»
Il povero Marcello nel sentirsi trattare da tiranno levò le mani al cielo e diede in ma sospiro desolato, tuttavia giova osservare che qualche volta anco la buona gente, senza accorgersene, passa il segno reputando che la intenzione benevola temperi la rigidezza del comando.
Dei fratelli di Eponina fin qui non toccammo del minore; ma siccome egli sa essere una delle drammatis personae ed anco delle più importanti, così si strugge fra le quinte e si arrabatta per uscirne fuori a recitare la sua parte: per me non lo tengo, esca pure, ma prima di entrare in iscena mi permetta che io gli serva da Cicerone, affinchè i lettori apprendano a conoscerlo per di dentro e per di fuori. Curio nelle forme del corpo comparisce affatto diverso dai suoi fratelli; e come questo possa succedere laddove ogni sospetto di contrabbando sociale viene meno, domandatelo a cui lo può sapere, e non a me, che non ne so nulla. Egli era pertanto di statura mezzana, tarchiato e forte a meraviglia; neri gli occhi ed i capelli; la crescente lanugine sopra le guancie pur nera; acceso in volto, che ad ogni lieve commozione gli divampava; le labbra tremule come gli occhi, sempre in procinto di mandare baleni; svelto, veloce al corso, agile ai salti, cacciatore perpetuo, tiratore unico: sciabole e spade più frequenti in sua mano, che penna o libri: anco di musica egli sapeva, ma impaziente ad osservare la misura, lo scartavano sempre dalla orchestra: sonava il flauto o la tromba proprio per le Muse e per sè, imperciocchè non ci fosse verso che alcuno si fermasse per ascoltarlo. Per confessione di quanti lo conoscevano, egli superava i suoi fratelli in bontà e in ingegno: tuttavia non passava giorno che qualcheduno non conciasse pel dì delle feste, e ciò perchè essendo pronto di parole, e più di mano, mutava subito le controversie in contesa: siccome poi la esperienza gli aveva insegnato come le sassate di colta sieno quelle che contano, così di rado si trovava secondo a menare le mani; però, appena vinto od anche offeso l’avversario, sboglientiva subito e tu lo vedevi affannarglisi attorno amoroso per consolarlo o medicarlo: nè per repulse si ristava, nèe per ingiurie e nè anco per battiture; a patto però che non fossero troppe, nè troppo sode. Poichè in tutte le guerre si portano due sacca, cioè quella del dare e l’altra del riscotere, egli ne riscoteva e spesso: allora con la faccia grondante sangue ei non voleva che alcuno lo curasse, se prima non avesse lavato e fasciato lo avversario e gli avesse chiesto ed ottenuto il perdono, sicchè nei presenti talora, più che altro, mosse il riso, e, strano a dirsi, a lui fruttarono più amici i pugni dei baci. Se taluno dei conoscenti cadeva gravemente infermo, egli, finche durava il pericolo, lo vegliava la notte; e se moriva, egli li a lavarlo, a vestirlo, a deporlo nella cassa, ad accompagnarlo alla fossa. Nel donare piuttosto eccessivo che largo: sovente anche nella crudissima stagione tornò alla madre in giubba nera, scarpe, calze e cappello, ma senza calzoni, però che nello androne di casa se li fosse levati per vestirne un tapino che moriva di freddo: quanto a danari le sue mani simili a vagli; per la quale cosa la madre, iatantochè lo riforniva di quattrini, lo rimproverava dicendo: «Ma, Curio mio a questo modo tu darai fondo ad una nave di sughero.»
Rispetto a scienze, s’egli avesse potuto imparare passeggiando, come certamente fece Alessandro Magno sotto Aristotele, maestro dei peripatetici4, sarebbe riuscito più cosa di lui; ma fossero pure le sedie sulle quali assettavasi imbottite e coperte di velluto, ei le avrebbe trovate intollerabili come pettini da lino: di percezione rapidissima, chiappava la scienza a volo, o non la chiappava più; apprendere per lui era come un buttare la moneta all’aria giocando ad arme o testa; e tuttavolta, quantunque la fantasia gli bollisse sempre come una caldaia a vapore, le scienze di calcolo gli talentavano sopra tutte le altre: lo ingegno possiede le sue contradizioni come il cuore.
Dicitore parco e preciso; e tanto più preciso quanto più gli sconvolgeva la mente la procella della passione; vero vulcano di Ecla, il quale ha fuoco dentro e in vetta la neve. Rispetto allo amore per la Libertà basti dirne tanto che alla madre, la quale egli adorava come cosa santa, certo di che lo interrogava chi più amasse nel mondo, rispose: la Libertà; ed insistendo ella: anche più di tua madre? Egli esitò, si fece pallido, poi ridivenuto vermiglio risolutamente confermò: più della madre.
Ed ora che ho fatto conoscere il mio Curio, spieghi l’ale e voli.
Quando questo giovane si fu persuaso che Eponina e Ludovico non si erano abbandonati alla disperazione, si mise a ricercare sottilmente dove si fossero ridotti, però che a lui paresse chiaro che i due amanti avessero dovuto fuggire di conserva; ma siccome egli s’ingannava nel suo supposto, così non gli venne fatto scoprire traccia della sorella; al contrario di Ludovico, e poichè simile esito lo confermò nel suo concetto, decise di mettersi in via per iscovarlo. Chiesta ed ottenuta licenza, la quale tanto più volentieri gli concessero, quanto che se la sarebbe presa da sè, dove gliel’avessero negata, provvisto di denaro e di preghiere a procedere prudentemente, egli partiva pel suo viaggio di scoperta.
E adesso vediamo la prudenza di Curio.
Pino a Venezia egli andò a posta sicura; a Venezia ebbe a trattenersi alquanto per rinvenire l’orma smarrita, la quale in breve ritrovata, subito corse a Vienna; appena giunto, eccolo a rovistare caffè, teatri e locande, ma gli venne meno il tempo e le gambe; cadde svenuto come quello che da più dì non aveva mangiato nè dormito: per ventura questo accidente lo colse in una locanda dove facilmente potè sopperire al suo bisogno: ricreato di forze, la mattina si ripose in giro per tempissimo: oggi la fortuna gli arride più propizia; sullo entrare nello albergo L’Aquila Imperiale sbircia Gaspero, di cui gli occhi s’incontrano per lo appunto co’ suoi. Gaspero, nel presagio della mala parata, s’industria sguizzare, volta la persona di scancio e prende a camminare di traverso, a mo’ dei granchi; ma Curio dietro; insieme essi vanno su per le scale, insieme per le anticamere, insieme pei corridoi, dove l’uno lascia l’orma l’altro mette il piede, finchè Gaspero giunto all’uscio della stanza del suo padrone, quivi si ferma e sta. Sopraggiunge Curio, che gli domanda:
— Dov’è il tuo padrone?
— Non sono obbligato a risponderle.
— Levati di costi e lasciami passare.
— Io non mi muovo e non la lascio passare.
— No?
L’uscio della camera schiantato dagli arpioni si apre strepitosamente, e ruzzolano in un fascio sul tappeto insieme attaccati Gaspero e Curio.
Ludovico, comecchè desto, stavasene supino a letto, senza neanche il refrigerio del poeta Berni, il quale in quel medesimo atto per passare la mattana contava i travicelli del soffitto, perchè il palco della camera appariva stoiato e dipinto con uno stormo di amori, i quali tiravano a segno sopra l’ospite come per avvezzarlo con la miaaccia dei loro strali agli altri più pungenti che l’oste gli apparecchiava coi suoi conti; al rumore del tracollo egli saltò giù da letto e, dopo rampognato acerbamente Gaspero, gli ordinava uscisse, chiudesse la porta in fondo del corridore e colà si piantasse di sentinella, impedendo la entrata a chi venisse a disturbarli.
Appena Gaspero aveva avuto tempo di eseguire i comandamenti di Ludovico, che Curio, sempre in virtù della racomandatagli prudenza, salta al collo del conte, lo scaraventa sul letto, e stringendogli la gola da fargli schizzare gli occhi dalla fronte, digrignando i denti, urla:
— Scellerato, che hai tu fatto della mia sorella? Dov’è Eponina?
. A Ludovico non riusciva Articolare parola; appena poteva mandare fuori un rantolo; sforzandosi sgusciargli di sotto, ma era niente, ogni conato per liberare la strozza dalla fiera tanaglia gli tornava in peggio, però che l’altro stringesse più forte Ormai la faccia di Ludovico era divenuta tra rossa e pavonazza (avrei potuto dire con una parola sola infaonata, ma correva rischio di buscarmi di pedante e non essere capito da veruno) gli balenavano gli occhi esterrefatti, e Curio procedeva a strangolarlo, con la devozione con la quale il prete novizio celebra la sua prima messa. Se la fortuna qui non ci mette le mani, la vita di Ludovico è giunta al Laus Deo.
E le fortuna ce la mise. Ti ricordi aver letto (e se non lo hai letto vallo a leggere), nella Iliade di Pallade-Minerva, che agguanta pei capelli il pie-veloce Achille in procinto di avventarsi contro Agamennone, re dei re, dopo averlo salutato di cuore di cervo e di muso di cane?5 Così per lo appunto accadde a Curio che, sentendosi strappare i capelli dalla nuca, si voltò addietro e vide... che vide egli mai? Vide Eponina in carne ed ossa, la quale sapendo il fratel suo non nato da regio sangue non si permise adoperare i titoli dati dal figliuol di Peleo al divo Atride; bensì di bestia e di insensato il dabben Curio ne ebbe quanto ne volle....
— Ecco le solite fole da romanzieri! — esclama la signora Verdiana, penitente di don Formicola, curato di San Satiro. — O come la scapestrata Eponina èra piovuta là dentro? Chi ce l’aveva portata? — La non s’inquieti, signora Verdiana, e senta me. Veruno ci aveva portato Eponina, perchè ci si era condotta da sè ed ecco come: la povera giovane invece di recarsi a veglia dalla signora Claudia, toltasi seco quanta più moneta poteva ed in buon dato gioie, doni dei suoi parenti e di amici ammiratori della virtù di lei, si recò a casa di certa amica del cuore, o se ella vuole, d’ingegno scapestrato come il suo, e questa l’aiutò a travestirsi ad accertarle il viaggio ed a partire.
La medesima sera Eponina lasciò Milano col traino stesso sul quale partiva Ludovico; con lui, senza che ei se ne accorgesse, scese a Venezia, con lui continuò il viaggio e giunse a Vienna; colà fece in modo di aver la stanza contigua a quella di Ludovico, divisa solo da sottile parete dove era una porta di cui ella volle la chiave; e siccome favellava stupendamente il tedesco e pagava alla grande, così non è a dire se le facessero festa, e ai suoi voleri più che volentieri soddisfacessero. Raccomandò al cameriere di affermare vuota la camera abitata da lei, e la raccomandazione accompagnò con un marengo: il cameriere, uso a dire tante bugiarderie gratis, lascio considerare a voi se ci s’inducesse pagato! La servì a pennello, molto più che piace a tutti gratificarsi la bellezza, ed Eponina era bellissima; chiusa nella sua cameretta, ella gustò dolcezze ineffabili, quali solo può immaginare il cuore di donna innamorata... ed il suo, signora Verdiana; però che Eponina udisse sovente rammentare il proprio nome, tra lacrime e sospiri del giovane amato, e se non giunse ad avere contezza piena del caso che glielo svelse dal fianco, almeno si confermò nella fiducia della sua innocenza; per la medesima via, conosciute le angustie di lui, le sovvenne mettendosi d’accordo col padrone della locanda, l’onesto Bruksteiner, il quale trovatidoci il suo conto la servì a braccia quadre ed ebbe per giunta un sorriso in pagamento, che, se avesse potuto, egli avria messo nel barattolo delle ciliege per conservarlo nello spirito.
Per le quali ragioni, ella vede bene, signora Verdiana, che la presenza della Eponina giusto nel punto d’impedire uno sciaratto, si spiega naturalmente senza miracoli: e caso mai ci fosse mestieri miracolo, o che la opposizione dovrebbe muovere proprio da lei? Da lei che crede come articola di fede che sant’Antonio da Padova si trovasse nel punto stesso a Padova e a Lisbona!
Mentre Ludovico si stropiccia il collo e fa prova di tossire onde assicurarsi che nella gola non ci ha nulla di guasto, Curio sempre ardente come tizzo acceso così rampogna la sorella:
— Ahi! trista, chi mai avrebbe detto che a te basterebbe il cuore di fuggire via da noi, che ti amavamo come la pupilla degli occhi? Senza rispetto pei parenti, senza vergogna per te, tu ti sei messa dietro al tuo seduttore; ahimè! a vederti mi trovo costretto a coprirmi la faccia.
— Curio, — rispose Eponina, ficcando i suoi occhi dentro gli occhi del fratello — tu sei giovane troppo ed inesperto delle passioni umane per erigerti giudice delle medesime: tuttavia sappi che la seduzione è parola vuota di senso: vivi e proverai; la donna conosce ottimamente quello che fa, e sebbene paia talora che si governi per moto improvviso dell’animo, va sicuro, che ella ha pensato più di una volta a quello che intende di fare: se poi ella s’inganna, ciò avviene perchè i ragionieri stessi nei loro calcoli sbagliano: ad ogni modo, io non mi sento donna da lasciarmi sedurre. Ho seguito Ludovico, lui inconsapevole, egli ignorava la mia partenza da casa e la mia presenza qui; ora per la prima volta gli apparisco davanti, e se la tua avventatezza non era, non mi avrebbe mai vista: però io voglio che tu sappia che lo considero come sposo dell’anima mia e intendo essere sua per la vita. E poichè questo avrei fatto anco sapendolo colpevole, tanto più mi tengo obbligata di farlo adesso che, quantunque al buio del suo segreto, pure lo so innocente ed infelice... Fratello Curio... giungono questi sensi così nuovi al tuo cuore che ti abbisognino maggiori spiegazioni?
Così avendo favellato, Eponina sorrise blanda al suo Ludovico e gli porse la mano in segno di pace; cui egli si recò alla bocca coprendola di baci, ma più di lacrime assai. Curio trasognato guardava un po’ l’uno, un po’ l’altra; lungamente tacque e parve meditare; all’ultimo proruppe:
— Orsù vi credo; maledico la mia furia e vi domando perdono. Ludovico, ti ho fatto male? Lasciami guardare un po’.... ti è rimasta una striscia rossa, ma non è nulla, sai.
— Certo.... certo.... gusto non ce l’ho avuto.... ma non pigliartene pensiero; con un po’ di gargarismo spero uscirne.
— Bene, per ora addio, tornerò a parlarti, perchè parlarti mi bisogna, quando ti sarai rimesso in sesto.
— Accomodati come ti piace, ma per me se tu parlassi addirittura, l’avrei caro....
— Magari! e in due parole mi sbrigo. O perchè non ti sposi Eponina e poi senza tanti andirivieni ve ne tornate tutti e due a casa?
— Perchè non posso.
— O come non puoi? E chi ti tiene?
— Il debito di un uomo onorato, intendimi bene. Curio, m’impedisce sposare tua sorella, che ama quanto me stesso, mi divide dalla madre e dalla patria, a me, dopo Eponina, sopra ogni altra cosa dilette.
— Arzigogoli! Senti una cosa, Ludovico: o tu sposi Eponina, o io ti ammazzo.
— Ecco daccapo la bestia che ti piglia il sopravvento — disse Eponina — guardami e considera se ci può essere donna al mondo più dolorosa di me: il padre potrebbe consentire le mie nozze con Ludovico, e non vuole; Ludovico le vorrebbe, e non può; ne domando la ragione ad ambedue, ed ambedue me la negano, come se non ci andasse di mezzo l’anima mia, ed io accetto rassegnata il mio destino di donna, che è quello di nascere, soifrire e morire.
— Quanto al nascere ci ho già consentito e quanto a morire quasi assicuro che a suo tempo ci acconsentirò, ma circa al soffrire io voglio avere le braccia libere. Pertanto, Ludovico, mettiamo le minaccie da parte, molto più perchè adesso che ci penso, quantunque io ti abbia detto che ti ammazzerei, potrebbe darsi benissimo che tu ammazzassi me.
Or via, ragioniamo; tu sei giovane onesto, almeno fin qui ti conobbi tale; però credo indovinare che qualche riguardo o impegno grosso ti faccia impedimento a palesarmi la causa che ti muove ad agire come fai: però tu stesso devi conoscere che questo negozio così per aria non può stare: considera se ti convenga aprirtene con qualcheduno; già s’intende sotto sigillo di confessione e con promessa solenne di silenzio assoluto. Tu designa persona, la quale non dubito che per la sua onoratezza piacerà ad Eponina ed a me; tu la informerai e noi staremo a quanto- giudicherà, taciuti i motivi del suo giudizio; insomma basterà che ci dica: Ludovico ha ragione; noi allora piegheremo il capo alla sorte maligna, la quale pur troppo ne può più di noi.
— E tu accetti il partito? — chiese Ludovico ad Eponina.
E questa gli rispose:
— Poichè tu non vuoi riporre la tua fiducia in me, mi adatterò.
— Ebbene datemi un’ora per pensarci su, che per me la è faccenda gravissima: per altri d’importanza suprema; ho bisogno di raccogliermi; lasciatemi solo.
Eponina e Curio si ritirarono; anzi per somma delicatezza uscirono entrambi; e così ella per la prima volta vide le strade di Vienna. Trascorse due ore e più, si ridussero da capo allo albergo, dove rinvennero Ludovico dolente in vista, ma pure risoluto, il quale disse:
— Sta bene: voleva non farlo, anzi mi era meco stesso obbligato a non farlo, ma Curio ha profferito una savia parola: la malignità della sorte ne può più di noi. Qui però siamo stranieri, non conosciamo persona in cui ci potessimo fidare: e per giunta io non conosco la lingua del paese.
— Dunque? — interrogò Curio a cui subito era saltata la mosca al naso.
— Danque — riprese umile Ludovico — ho pensato, che la persona più acconcia a ricevere ed a custodire il mio segreto sei tu, e tu il più atto ad ottenermi fiducia da Eponina.
— Io? — replicò Curio esitando, ma poi aggiunse: — Bene, sia: a quando?
— Subito.
— Dove?
— Qui o altrove a tuo piacimento.
— Usciamo.
— Usciamo.
Eponina desolata li vide partire, e col cuore ancora più chiuso dopo breve spazio di tempo li vide tornare: si tenevano a braccetto per non traballare; le faccie e i colli a terra come se li gravasse un medesimo giogo d’ineffabile affanno. Curio non trovava bandolo per cominciare, Eponina per chiedere; un gemito di lei tenne luogo di domanda. Allora Curio reggendosi con la destra ad una tavola a voce fioca favellò:
— Sorella, Ludovico ha ragione: nel rifiutare le tue nozze egli fa prova di rettitudine e di gentilezza. La sorte maligna ci vince. Io quanto posso ti scongiuro, sorella, di tornartene a casa: là nelle braccia di nostra madre riparati, finchè la tempesta duri e, se non cessasse, morite almeno consolate con la mutua pietà. Dammi, sorella un abbraccio; dammi un bacio.... venti baci, e addio.
— Ed ora dove vai, Curio? — domanda con crescente angoscia Eponina.
— La gioventù italiana è corsa alla chiamata del Garibaldi nel Tirolo a combattere le ultime battaglie della patria: io vado a cercarvi la morte.
Ed avventatosi al collo della sorella, dopo averla baciata e ribaciata, corre via precipitoso; senonchè, giunto in fondo al corridore, ritorna sopra i suoi passi ed, affacciato all’uscio della stanza, di Eponina, esclama:
— E rammentati bene, Eponina, che io, tuo fratello, ti faccio testimonianza come Ludovico, ricusando di palesare a te e ad altri le accuse che lo movono a respingere le tue nozze, dimostra tale generosità di cui non avrei mai creduto capace la creatura umana. Ludovico, addio, e tu pure rammenta che sei andato troppo in su per durarci un pezzo: chi la piglia troppo alta ordinariamente fa stecca.
Note