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320 | il secolo che muore |
pratico del paese, ignaro della lingua tedesca, non
bene fornito a danari, erasi ridotto a stare nel primo
albergo che gli avevano proposto, e quivi viveva
di pessima voglia struggendosi nell’angoscia; pur
troppo lo premeva il male e lo spaventava il peggio.
Dalla madre fin qui veruna lettera: mandava Gapero
due o tre volte il giorno alla posta, e quando
il servo dopo breve ora tornando gli annunziava da
lontano: Niente! il capo gli cascava giù peso sul
petto come se glielo avessero empito di piombo, a
mo’ che fece il plebeo Settimuleio con quello del
suo amico Caio Gracco. Per ordinario il giovine
taceva; però di tratto in tratto lo spasimo che lo
lacerava gli faceva forza a lamentarsi con parole
tronche, nelle quali ricorrevano spesso i nomi di
Eponina e, della madre: imprecava al destino che
lo aveva forzato ad abbandonare questi unici amori
dell’anima sua: aggiungeva poi non so che di generosità
sprecata..... di condizione insopportabile......
dando in certa guisa a divedere che l’immane sacrifizio
incominciava a pesargli.
— Senza colpa ne peccato ho perso tutto, — egli diceva — casa, nome, patria, madre ed Eponina, che a quest’ora, o non pensa a me, o con orrore ci pensa.... Oh! se tu sapessi quanto patisco per te.... tu mi saresti accanto a temperarmi il fiele che bevo.... Io non sono avvezzo al dolore, e questo è troppo, ed incomincia adesso.