Il cholera in Barberino di Mugello/Parte seconda
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PARTE SECONDA
Se hannovi malattie, di cui debba veramente il medico cercare addentro le cause, sono le malattie popolari, poichè nè più grande arduo ed utile studio la scienza saprebbe offrirgli. Le une, subordinate come sono più direttamente all’impero della volontà e dell’umana prudenza, basterebbe additarle per liberarsene; se veramente certe male abitudini non avessero forza di torre agli uomini senno e volere, e fino l’amore della propria conservazione, che i bruti stessi non perdono mai. Le altre molto strettamente s’attengono o alle condizioni materiali de’ nostri corpi, o a certe grandi contingenze cosmo-telluriche, alcune note altre arcane, contro le quali certamente forza d’ingegno nulla vale o ben poco.
Ora venendo a discorrere le cause della malattia cholerica in Barberino, noterò tutto quello che l’osservazione più accurata e sincera potè mettere in chiaro; tenendo sempre fissa in mente questa legge di logica medica, che essendo i fenomeni de’ corpi viventi l’effetto complesso di multiple cagioni, il noverarne una, non vorrà dire sempre trovata la vera causa efficiente, ed esclusa ogni altra. Il numero poi de’ casi da me osservato è cosi ristretto, da non poterci stabilir su regole generali; e sarò contento, se le osservazioni mie confermeranno le conchiusioni altrui. Distinguerò anch’io, ad agevolar discorso, le cause in predisponenti ed occasionali: e le prime in quelle pertinenti alla natural complessione, e in quelle acquisite per forza d’abitudini e di cause esteriori. Fra le cause predisponenti della prima specie vuolsi considerare in prima l’età. Ora, se curvo la linea degli anni a seconda del numero de’ casi osservati, si vedrà, che l’apice sta nella giovinezza e nella virilità; dal quale, tranne qualche lieve risalto, si discende nelle due età minore e maggiore con eguale digradazione. Se invece curvo la linea a seconda della mortalità, si vedrà, che questa sale a misura che si avvicina a’ due estremi della vita: vale a dire la infanzia e la vecchiaja si trovano alla pari anche in questo, per una maggiore mortalità1.
In quanto a’ sessi, il mascolino supererebbe d’un nono per numero di casi il femminino, e gli soprastarebbe ma di più piccola frazione in quanto a mortalità. De’ temperamenti, il venoso o venoso linfatico mi parve il più affetto, non solo perchè questo, come già notai, è comunissimo negli abitanti di Barberino, ma perché è il temperamento, nel quale que’ morbi popolari, aventi per fondo un grave stato adinamico o dissolutivo, trovano più aperta e facile la via agli scomponimenti della materia animale. Delle male predisposizioni ereditarie o congenite non avrei nulla che dire, atteso il campo ristretto delle mie osservazioni.
Venendo ora alle predisposizioni acquisite, fra le abitudini acconce ad infralire la resistenza organica de’ corpi, non saprei noverare per la popolazione di Barberino, lavoriera com’è in massima parte, che le accresciute fatiche corporali; le quali se si mettano a riscontro del difettivo e scarso nutrimento, che fa grama da qualche tempo la gente, ci accorgeremo facilmente, come soverchiando dall’una parte il logoro della sostanza organica, dall’altra assottigliandosi ogni di più i mezzi della organica riparazione, i corpi viventi, decaduti dalla loro integrità, debbano riuscire più facile giuoco a’ sinistri influssi delle cause esteriori.
E de’ mestieri parlando, eccettuate le donne, quasi tutte occupate nel lavoro della treccia e nelle faccende domestiche, erano appunto quelli, i quali assoggettavano i corpi non solamente a fatiche, ma anche all’intemperie amosferiche: tali i mestieri di raccor legna a’ boschi vicini, di operante, di merciajo girovago, ed altri.
Le diuturne afflizioni dell’animo, e specialmente quelle che, oltre all’addolorarlo, lo tengono sotto una pressura muta e continua, come la miseria pe’ mancati guadagni, la sfiducia nell’avvenire, pur troppo erano cagioni resemi manifeste dalla confidenza de’ malati.
Nè pochi furono tra’ miei malati i corpi infermicci o cagionevoli, specialmente quelli abitualmente soggetti a disordini degli atti digestivi, come gastralgie vomiti diarree coliche e simili.
Le cause esteriori poi, che per la loro continua e lenta azione operano a modo di vere cause predisponenti, le distinguerò per maggior chiarezza in locali o endemiche, e in universali o epidemiche.
E tra le prime dee noverarsi il clima, il quale, per la copia de’ torrenti e fossati serpeggianti nel territorio Barberinese, e per altre cagioni già dette, non può essere che temperato all’umidità: la foce unica poi a mezzogiorno che rimane aperta per il borgo, sembra lo debba rendere facilmente soggetto agli influssi de’ venti australi. E mi sovviene d’aver sentito una tal sera su’ primi di Gennajo con mia grande sorpresa nel passeggiare per la piazza certe ventate calde, da rammentare la stagione estiva.
Durante la malattia cholerica prevalse in Barberino il sereno, ma misto sovente nell’antimeriggio a qualche nebbiosità: la temperatura dolce ne’ primi giorni, solamente negli ultimi si fece cruda. Lo avervi dominato poi la malattia nel cuor dell’inverno, non pare sia tale eccezione da infrangere la regola generale, che essa predilige la condizione caldo-umida dell’amosfera: poichè, dove un effetto dipende dal simultaneo cooperare di molte cagioni, il mancare d’una una qualche volta non vuol dire, che quella non abbia nè possa avere mai validità di sorta. Bene se ne misura la validità, guardando quante più volte e per quanto una data cagione abbia contribuito ad un dato effetto.
Ma le stagioni i venti le acque il suolo sono tali quali escirono di mano del Creatore, e l'uomo non può mutarli. Ma l’uomo, quasi la sua salute non fosse insidiata abbastanza da una nemica natura, dà vita di proprio talento a tali esseri infesti, che di vittima innocente si rende spesso, starei per dire, reo di suicidio. Lamentisi pure l’Arabia del Samiel o Sambari, vento fetido e pestifero, il quale, spirando su’ di lei piani arenosi con soffi ora caldi ora freddi, atterra ed uccide i corpi d’asfissia, e i cadaveri imputridisce rapidissimamente. Ma che direbbesi di gente raunata in un luogo a civile consorzio, la quale per incuria o per mal uso lascia allevarsi in seno numerosi fomiti di esalazioni nemiche alla salute e alla vita2? Io credo dire cosa verissima, che i molti depositi di concimi negli interni cortili e nelle stalle, la mancanza di latrine e di serbatoi delle acque immonde, il riprovevole uso di tutto gettar fuora, quanto offende l’odorato la vista e la salute comune, il rammassamento di gente in angusti abitati, sono altrettante cause locali, che pur troppo verificavansi in Barberino, e di cui pur troppo i Barberinesi ebbero a pagarne la pena. Ripensino bene e guardino, dove il cholera scoppiò, dove si trattenne più volentieri, ove colpi più persone, e mi sapranno dire, se tulle queste cose me le deduca dal cervello, o se esistano in fatti. So che le abitudini divengono facilmente una seconda natura e non si sradicano che coll’uomo, ma quando pubbliche sventure danno ammaestramenti cosi solenni, credo, debba venire senno e voglia di fare ammenda.
Ammettasi da molti, che innanzi e durante la invasione de’ morbi popolari tenga sempre il campo una causa universale, che valga come a preparare negli umani organismi il terreno a qualche morbo remoto e specifico, il quale senza di essa non potrebbe allignare nè svolgersi. Alcuni anzi vanno più in là e tengono, che questa sola causa predisponente sommandosi e risommandosi sopra se stessa, trovi modo senza il soccorso d’altro speciale elemento morbigeno, di divenire vera malattia, e scoppiare a un tratto e all’insaputa framezzo alle popolazioni, e diffondervisi identica sempre a se stessa nella forma.
Io non entrerò in tali disquisizioni, perchè tengo promessa con me medesimo di ragionare soltanto su ciò, che si fonda nel fatto e nell’universale consentimento. Ora mettendo da parte i nomi di causa universale, d’influenza e di costituzione epidemica, tutti facilmente consentiranno, che da qualche tempo gravitano sopra i nostri organismi insolite cause cosmo-telluriche, alcune conosciute nella loro parvenza fenomenica, altre soltanto da certi effetti sugli esseri organizzati vegetabili ed animali. Anzi pare, che negli ultimi infelicissimi anni, tuttociò che malignità di natura e degli uomini può apparecchiare di nocivo e di micidiale a salute, sia stato, come per una tremenda e arcana congiura, apparecchiato. Infatti terremoti, inondazioni, disordinamenti di stagione, frequenza di comete inaudita, poi la crittogama fatale alle viti e al regno vegetabile quasi tutto, poi infermità insolite nelle bestie, copia stragrande d’insetti, poi commozioni e fortune politiche, e finalmente la guerra col suo funesto corteggio di morti di carestie di paure, e di commerciali disastri. Le quali cause cosmiche e sociali tutte non possono a meno d’indurre particolari effetti sugli umani organismi, sia corrompendo la nativa bontà della loro salute, sia aggiungendo alle comuni infermità alcun che d’insolito e di maligno, finché un morbo di nuova forma e violenza sopravvenga, e prenda impero sulle moltitudini debilitate.
Ora, per ciò che riguarda il luogo di cui narro la malattia popolare, mi viene partecipato dall’Ecc.mo D. Vitale Bugiani, come qualche caso di miliare cominciasse a comparire alla campagna sino dal 1852, e come da indi in poi, sino da quando la malattia della vite apparve colà, siffatta eruzione venisse spesseggiando in modo, da assumere nella estate decorsa natura endemica.
Egli notava pure saviamente, come le malattie d’indole flogistica non offrissero più quella urgenza e resistenza alle sottrazioni sanguigne, che per lo avanti; come queste più rade abbisognassero e moderate; e come quelle si aitassero molto meglio a risoluzione coll’uso de’ vessicatori. Queste induzioni cliniche venivano poi facilmente confermate dalla osservazione del sangue estratto dalla vena, il quale mostrava cotenna piccola e piatta coagulo molle, e tutte le altre appariscenze di difettiva plasticità.
Dalla relazione poi trasmessa dal D. Guidotti al superiore Governo sulle malattie che dominarono l’anno decorso nel comune di Barberino, di cui mi favorì gentilmente copia, rilevo, come nel cominciare della estate signoreggiassero endemiche alla campagna le febbri tifoidee; quali non eransi vedute così gravi dall’anno 1846, e 47 in poi. Non isfuggiva pure alla avvedutezza di questo pratico una copia straordinaria di panerecci, e un aumento più dell’usato maggiore nel numero de’ pellagrosi. A detta sua molte furono pure le diarree, sebbene e’ le consideri, come conseguenza ordinaria della stagione e dell’abuso delle frutta immature. Il D. Bugiani poi avvertiva frequenti più dell’usato le coliche, in prossimità della invasione cholerica.
Per le quali considerazioni, spero mi sarà lecito concludere, che anche in Barberino una mala altitudine esistesse negli umani organismi, originatasi per l’azione lunga e perenne delle cause comuni; ma più specialmente pel difetto in quantità e qualità degli ordinari alimenti, per l’abuso di frutta immature, per la mancanza del vino, per le sopravvenute miserie, e per i forti e diuturni patemi d’animo; mala attitudine, che venivasi rivelando coll’aumentar di numero di talune malattie, coll’insolito imperare di morbi a diatesi dissolutiva, col decadimento delle flogosi dalla loro indole genuina, e col visibile deterioramento della crasi sanguigna.
Passando ora alle cause occasionali, insorge di tratto la questione gravissima della contagiosità. Ma non amando questioni, le quali richiederebbero ben altro sapere ed esperienza che la mia, farò cosa più semplice e credo più fruttuosa d’ogni bel ragionare: invece della scienza che non ho, ci metterò tutta quella po’ di coscienza che ho, discorrendo le cause tutte, che poterono servire comecchessia di movente occasionale allo svolgimento della malattia.
Già descrivendo storicamente l’andamento del cholera in Barberino, dissi molto di quel che riguarda la parte etiologica del morbo, e specialmente mi diedi cura di riandare con scrupolosa fedeltà, sin dove potei tenerle dietro, la sequela de’ contatti mediati o immediati. E infatti vedemmo, come nella massima parte i contatti pur troppo esistessero, dove certi e manifesti, e dove facilmente sospettabili per lo accomunato abitare.
Ma altro è, si levan su a dire taluni, il semplice referire quanti e quali fossero i contatti; altro è provare, che questi fossero la causa unica e sola dello svolgersi la malattia. Si domanderà anche: il cholera venne importato in Barberino, o vi nacque spontaneo? I fatti son là, esposti con coscienza libera e schietta, sicché il mio dovere di storico è compito, e lascio volentieri che intelletti migliori sentenzino3.
Nè posso a meno di rammentare un’altra causa, che fu propria in sommo grado a molti di quelli colpiti dal male, una paura stragrande: anzi mi sia lecito il dire, come questo movente validissimo nella generazione de’ morbi, massime popolari, sia dalla comune de’ medici sovente menzionato, ma poco o nulla considerato.
Diceva bene a ragione Tristram Shandi, paragonando, un po’ grossolanamente però, il corpo a un abito e l’anima alla fodera, che non si può sciupar l’uno senza sciupar l’altra; e viceversa: e il Ramazzini con parlare più sano, che l’unione fra anima e corpo e cosi forte, ch’e’ si dividono l’un l’altro il bene e il male, che loro perviene. Senza entrar qui in ragionamenti sulla attinenza dello spirito colla parte materiale di noi, rammenterò li esempi pur troppo noti di malattie svoltesi per la sola causa della paura. Nè la paura può svolgere una malattia qualunque, ma quella eziandio che più si teme, come l’epilessia, la rabbia canina, il vajuolo, ed altre malattie eruttive che tengonsi per contagiose. Forse errerò, ma io attribuisco anzi alla paura una singolare attitudine a svolgere ne’ corpi già male predisposti la malattia cholerica, siccome quella, che, oltre all’effetto primo e generale debilitante che induce sulle forze nerveo-muscolari, suscita tali fenomeni nella economia animale, che s’assomigliano molto a quelli del cholera medesimo; sicché potrebbe dirsi in tai casi, che la paura sbozza la malattia, e il cholera la seguita e la compie. Difatti il pallore il lividore e la costrizione della cute, il freddo delle estremità, il polso esile, la estinzione della voce, la respirazione a fatica, lo allentamento e la sospensione di certe secrezioni ed escrezioni, la diarrea subitanea e violenta, non sono effetti o sintomi comuni dell’una e dell’altro?
Mettiamo il caso. Un tale si reca a visitare un parente un amico gravemente affetto di cholera, e vi si reca colla mente pur troppo sopraffatta e travolta dalla immagine paventosa del male. Entra; e alla sola vista della persona cara, di quel volto sparuto macro cadaverico, poc’anzi ridente di salute e di vita, sente serrarsi il cuore e un brivido percorrer le vene. Muto ed immobile l’infermo appena gli volge uno sguardo, quando a un tratto l’ode mandare strida acutissime, e il vede scontorcersi pel letto: sono i crampi, che gli lacerano orrendamente le gambe e le braccia. Chi può assistere a questi strazj di chi ne è caro, senza sentire ad ogni grido dentro di se, come tante trafitte del male medesimo? S’ammansiscono i crampi, l’infermo ricade nel suo cupo abbattimento, quando il vomito insorge ferocemente a travagliarlo. Ma a quegli angosciosi conati, chi è presente, sente il proprio stomaco oppresso da un’angustia indescrivibile, il trabocco delle materie lo eccita al vomito, o gli conviene molta forza a raffrenarsi4: anzi è mestieri l’andarsene, e fuggire tanti aspetti di male. Ma l’infermo chiama al suo capezzale l’amico il parente, gli accosta le labbra e susurra fioche parole, lo stringe colla gelida mano... Ahi, per quel contatto, di cui dura sempre la fredda impressione, la paura gli dice dentro, che il veleno è entrato nel sangue e già circola per tutte le vene, che ha attirato col proprio alito l’alito pestilenziale del cholera! Ahimè, egli non osa dirlo a nessuno, ma una voce segreta continua gliel dice dentro; tu hai contratto il male, e tu morrai! Ora chi può dire lo sconvolgimento, a cui è in preda quello spirito, una volta che simili fantasmi di patimenti orribili e di morti entrino ad imperversarvi? Egli non accosterà guari cibo alle labbra, per timore che quel boccone non dia la spinta fatale: rifuggirà dal consorzio della famiglia per non moltiplicare le vittime: come troverà poi pauroso l’appressarsi delle tenebre e de’ silenzii della notte, quando la mente riman sola co’ suoi pensieri, tanto più insistenti, quanto più tristi! Invano cercherà nel letto di riposo una tregua a tanta agitazione, anzi ivi nuovi tormenti, comecch’e’ si volga, e nuove parvenze funeste lo aspettano. Ed ecco, appena postosi giù, dalla punta de’ piedi il freddo salire lento lento su per le membra, e tutto il corpo coprirsi di gelido sudore; ecco i battiti del cuore da prima celeri e incalzanti infievolire a poco a poco sotto la mano; ecco pel basso ventre un’insolita pena, un insolito romorio, insoliti movimenti... Ahi, il sintoma fatale è comparso! L’infelice, che sino a quel momento se ne stava cheto e tremante nel letto, come se un nemico lo circuisse attorno nel bujo per vibrargli un colpo, d’un tratto balza e chiama con ismorta voce. Il cholera è venuto!
Si il cholera è venuto! Ma chi potrebbe dire, se quei primi sintomi erano veramente il primo moto nosogenico del male, o non piuttosto l’imperversare della paura nell’organismo? Chi negherà, che immedesimandosi sul primo i fenomeni della paura con que’ del cholera, i primi dessero vigoria e impulso maggiore a’ secondi, sicché il male svolgessesi in tutta sua veemenza? O se alla paura non vogliansi concedere, che le parti di semplice causa, come verificare, se delle due cause presenti il contatto potè più di essa a svolgere la malattia?
Ma io sento rispondermi. Voi ad arte avete intinto il pennello de’ colori più neri per ingigantire gli effetti della paura. No: credo anzi d’aver ritratto assai imperfettamente lo stato di colui, il quale è preso dalla paura d’un male tormentoso ed orrendo com’è il cholera; e chi l’ha provata dentro se, può dire se io esageri. D’altra parte, perchè (sebbene sia pronto a ricredermi, ove si adducano ragioni più forti della mia) perchè il maggior numero de’ casi scoppierebbe nelle ore notturne, in quelle ore appunto, in cui l’anima svolta dalle impressioni de’ sensi, rimane in preda alle imagini del giorno, le quali aggiungono sino ad assumer sovr’essa, come nel sonno, impero e potenza di realtà? perchè i forti d’animo e gl’intrepidi nell’infuriare de’ morbi popolari a condizioni pari sogliono più facilmente de’ pusillanimi escire illesi, ad onta che sfidino il pericolo in mille guise?
Quindi racconta Tucidide, che nella peste, da lui così maravigliosamente descritta, sopra gli altri cadevano estinti i malinconici e paurosi; e quel valentissimo uomo di Lodovico Muratori, nel suo libro sul governo de’ mali pestilenziali scrive; che l’apprensione il terrore e la malinconia sono ne’ tempi di peste una vera peste: quindi bene a ragione dicea Casimiro Medicus, potersi tener per certo, che la paura dispone singolarmente l’uomo alle malattie epidemiche e contagiose, e che l’intrepidezza la tranquillità ne sono il vero contravveleno; e Rivino nella peste di Lipsia osservava, il morbo non altrimenti che per la sola paura passare da un uomo all’altro; e Sennert, molti essere stati colpiti di peste, pel solo terrore contratto a veder di lontano o sentirsi passar sotto le finestre senza vederlo il carro de’ morti; e Willis asseriva, che nelle epidemie vajuolose, que’ tali che si fanno tanta paura del vajuolo, sono i primi ad ammalare; e Rogers, che infierendo malattie contagiose, la paura aggiugne loro le ali, ne intristisce il veleno, e ne raddoppia il furore.
Nè con questo intendo togliere alle comunicazioni, mediate o immediate che sieno, quella parte che da una classe di medici sapientissimi loro si attribuisce nello svolgimento del morbo cholerico, per concederla tutta alla paura, che deesi tenere in conto di causa potentissima. Mai no: ma ardisco dire, che avendo più cause davanti efficaci a produrre la malattia, come infezioni miasmatiche, contatti, paure, sregolatezze dietetiche, non si può accagionarne quella che più ne talenta, quasi il capriccio e la simpatia e non la logica dovesse dar la sentenza: ma conviene far bene una disamina relativa, ed osservare quante più volte una data cagione concorresse e quante meno fallisse a produrre l’effetto, per misurarne e dedurne quindi la relativa efficacia: nè certamente a’ contatti toccherebbe la minor parte.
Quindi, se un epidemista di puro sangue m’escisse fuori e dicesse: tu hai citato casi assai di contatti, ma provami, che le altre cause noverate non fossero valide a nulla, che il solo contatto fosse il solo movente; forse altri no, ma io si nella mia pochezza mi troverei imbrogliato a rispondere. Potrei rammentargli per esempio il fatto della donna di Cirignano; ma egli mi risponderebbe secco: mancarono costì le cause miasmatiche, ma la paura concepita pe’ racconti del marito fu forte; io vo’ credere alla paura, e no al vostro contatto mediato. Gli opporrei allora i due fatti dello Strada e della Guasti; e qui parrebbe, toccasse veramente a me a guardare sorridendo in viso l’epidemista puro, nell’atto ch’e’ metterebbe a tortura il cervello, per istudiare altra causa occasionale fuori de’ contatti mediati: essendoché qui la relazione di causalità spicchi chiara pur troppo. Difatti eguale e simultanea in ambedue la cagione, eguale e simultaneo l’effetto; assente ogni altra causa occasionale; forti solo ma di per se inette le predisponenti; soli que’ due casi poi a quell’ora, quando il cholera taceva già nel borgo di Barberino da tre giorni, nè più vi ricomparve dipoi. Ma qui il mio avversario, abusando dell'arme che io stesso gli ho posto in mano, potrebbe rivolgermisi e dire. Voi non avete pensato alla apprensione del padre vecchio di 86 anni cagionevole, né a quella della madre donna affranta da lunghi dolori, per la vita de’ loro figli, durante le ventiquattr’ore che furono assenti dalla famiglia: voi non avete pensato alle loro trepide e reiterate dimande su’ malati, su’ loro patimenti, sulle loro sembianze, su’ pericoli dell’assisterli..: voi non avete pensato al fermento di tante immagini tristi e paurose, quali l’idea d’un lazzeretto potea risvegliare in que’ due poveri genitori, che aveano lasciato andarvi i loro figli... Mettetemi da parte, potrebbe dirmi l’epidemista puro, tutte queste cagioni, e allora comincerò a credere a’ vostri contatti mediati.
Simili ragionamenti, ne’ quali è abuso non uso di logica, difficilmente saranno atti a convincere i più: ma è vero altresì, che dove più elementi causali concorrono, richiedesi nell’osservare e nel concludere siffatta oculatezza e moderazione, che forse parrà soverchia a chi crede scorciatoje i precipizii, ma non a chi intende battere la via maestra della verità.
Ma alla fine mi sarà pur dato il raccontare un fatto, il quale rivela così chiaramente e incontrastabilmente l’azione del contatto, che anche il mio epidemista dovrà inchinar la testa e accettarlo, ove non voglia perdere il bene dell’intelletto. Torniamo a quel Poldino Messeri d’anni quattro, che staccato dalla madre malata, e poi riportatole, dopo due giorni ammala e muore di cholera fulminante. Qui certamente la età del bambino allontana ogni sospetto di paura o d’altra forte impressione; e poi egli avea mantenuto brio e fierezza consueta fino all’istante, in cui fu colpito dal male. Sicché in tal caso nessuna predisposizione inerente alla costituzione organica, perchè il bambino era sano e vegeto oltre ogni dire, figlio di onesti braccianti, e perciò se non agli agi, certo neanche avvezzo agli stenti; qui nessuna causa occasionale psichica dietetica, o d’altra specie, tranne il contatto; qui nessuni prodromi: quando a un tratto fu preso da diarrea e vomito immoderati, le belle e tenere membra rimasero assiderate e illividite, li occhi sì vispi e vivaci che erano divennero fondi smorti e avvizziti, e il viso come tutto il corpicciuolo in un fiato atteggiossi cadavere.
Conchiudendo adunque sulle cause del morbo cholerico in Barberino, è a dire; come fra le predisponenti meritino peculiar considerazione il temperamento venoso, il clima umido, lo scarso e malo nutrimento a fronte d’una vita affaticata e grama; come gravissime ci appajano le esalazioni di materie putrescibili e le comuni cause cosmiche e sociali. Fra le occasionali apparisce, come, andando a ragione di frequenza, i contatti primeggino sopra tutte le altre, indi la paura forte, finalmente gli errori dietetici.
Il valore relativo delle quali cause si valuterebbe esattamente, se queste avessero operato ognuna per se ad occasionare la malattia: ma in que’ casi e sono i più, dove le «une si sono intramescolate colle altre, chi saprebbe precisarmi, se abbiavi avuto parte una sola e quale, o se tutte e tre avendo cooperato, a quale debbasi il primato? Certo se tutti i casi presentassero nella loro parte etiologica la nuda semplicità dell’ultimo da me narrato, non vi sarebbe più luogo a contese. Ma »i fatti, dice Terenzio Mamiani5, non si legano quasi mai isolati e a un modo solo, ma avviene di loro quello che Plutarco scrive delle passioni, le quali si appiccano l'una all’altra con infiniti gruppi, e nodi e mutazioni d’aspetti... Il metodo pertanto dee innanzi a tutto insegnare le note proprie della ragione efficiente e della concomitante, della prossima e della remota, della occasionale, della incidente, e d’altre se pur ve n’ha. Per queste note si giunge infine alla riduzione causale, cioè a dire che a un dato effetto si giunge ad attribuire la genuina cagione, riconosciuta per mezzo di una moltitudine di contrarie apparenze».
Forse, per procedere sicuri e diritti per questa via, giova meglio alle volte, come diceva, un po’ di coscienza che la scienza medesima; forse se a’ medici, nella ricerca delle vere cause del morbo cholerico, fosse venuto voglia di lasciare a casa il fardello di lor sistematiche dottrine e de’ lor preconcetti, se avessero amato meno portare in trionfo tra la turba de’ confratelli plaudenti la loro opinione, anzichè seguire la via solitaria e aspra e forte, che conduce al santuario di natura, forse a quest’ora un po’ di luce tra il bujo si sarebbe fatta, le menti a quest’ora armonizzerebbero, e nelli studii e nella pratica, in qualche fondamentale concetto, nè si disperderebbe sempre in vane accordature e scordature, con vergogna nostra con iscandalo altrui e col danno della umanità, il tempo ed il fiato.
Ora de’ sintomi del morbo cholerico discorrendo, chi volesse accingersi a farne una classazione razionale, secondo cioè la loro indole patogenica, imprenderebbe opera vana, perchè mal sapremmo stabilire, se tutti appartengano al procedimento specifico della malattia, o se alcuni provengano direttamente da stati morbosi concomitanti. Nella quale ignoranza sarà mestieri attenersi al modo comune di ordinarli, vale a dire secondo la loro successione nel tempo, o in periodi che torna lo stesso. Anzi non essendo mio scopo delineare tutto il quadro fenomenico della malattia, per non riempire le pagine di ciò che si legge in ogni trattato sul cholera, toccherò di que’ sintomi solamente, cui si annette da’ medici maggiore importanza patologica e terapeutica, e degli altri che offrironmi qualche cosa di notevole.
E da’ prodromi incominciando, ne’ casi da me osservati la diarrea precedette lo svolgimento del cholera in due terzi circa de’ malati: nel rimanente gli altri prodromi o furon lievissimi e fugaci, oppure mancarono affatto. E poichè siamo in sul parlare della diarrea dirò, come frequentemente venissi consultato per simile disturbo dell’atto intestinale, massime ne’ primi giorni che fui in Barberino.
Quanto poi al quesito, se la diarrea prodromica debba aversi in conto di critica o di sintomatica, parmi che in simile indagine il criterio etiologico e terapeutico ci debba servire di miglior norma del fenomenico. Quando il flusso diarroico, ci vien detto, è acquoso biancastro simile a decozione di riso, tenetelo pure per sintomatico, frenatelo; quando invece prende natura biliosa, è critico ed eliminativo, favoritelo. Forse l’una e l’altra conclusione escono un poco fuori de’ termini. Poichè, se sto unicamente alla appariscenza della diarrea, quando vedrolla simile al decotto di riso, avrò ragione di chiamarla sintomatica, perchè mi rivela un prodotto morboso della secrezione intestinale; come potrei in qualche modo chiamarla critica, perchè me lo porta fuori e impedisce assorbimenti nocivi. Tanto ciò è vero, che veggo, da chi la predica sintomatica, indistintamente e senza darne ragione curare la diarrea cogli astringenti e co’ purgativi. D’altra parte mi sembra, che quando la diarrea volge a natura biliosa, ciò debba aversi piuttosto, come indizio di conversione morbosa più benigna e di riordinamento degli atti digestivi, anzichè come causa o effetto di critico risolvimento del cholera. Nè mi riesce poi d’intendere, come, posta la natura sintomatica della diarrea biancastra, urga di necessità darle addosso e frenarla, quasichè per tal modo potessero tenersi addietro tutti gli altri sintomi del cholera, e perciò anche il cholera medesimo. Forse errerò; ma non intendo dar consigli, sì bene di chiederli, e dico; mi parrebbe potesse porsi più utilmente la questione per la pratica in simili termini. Quale sarà la diarrea che vuol esser frenata, e quella che dee esser favorita?
Pur per andare avanti meno a tentoni che fosse possibile in questa pratica, m’ero fatta la regola seguente di cura. Quando la diarrea mi si offeriva sola o accompagnata da’ sintomi d’una vaga indisposizione senza segni di stato gastrico, da farmi credere dipendesse soltanto da atonia e iperemia del sistema venoso addominale, o da puro disordinamento dell’atto secretivo per oppressione d’animo o per altre influenze dinamiche, la curava cogli astringenti dalle semplici bevande limonate fino al diascordio, a seconda della copia maggiore o minore del flusso, dello stato adinamico, ecc. Quando al contrario aggiungevansi alla diarrea, comecchè appena delineati alcuni de’ sintomi cholerici, da farmi credere già iniziato il procedimento morboso specifico del cholera, quali, inclinazione al vomito, fugaci e rare contratture alle membra, un lieve cerchio agli occhi e va dicendo, allora m’astenevo dalla cura astringente, e sentiva dentro me la convenienza di rispettare ed attivare anzi quella secrezione, che avea il vantaggio per me di tradur fuora umori viziati: allora consigliava il più delle volte un purgativo oleoso, che i malati preparavansi volentieri da se medesimi con olio d’oliva, spremendovi sopra del succo di limone. Il fatto parvemi, desse la prova e la riprova della bontà della regola: vo’ dire, che dove seppi applicarla, l’evento corrispose; dove non fui pronto od accorto a corre l’opportunità, sventuratamente incolse a’ miei malati la peggio. Siccome ogni onesto dee lasciare a’ ciarlatani di piazza e di bottega, a certi miracolosi guaritori universali, il raccontar tutto bene delle lor magnifiche cure, cosi mi giovi riferire i due unici casi, del cui malesito la coscienza non mi francheggia del tutto.
La sera del 28 Dicembre son chiamato a visitare un tal Guasti Silvestro d’anni 60, sensale girovago, uomo faceto e piacevole quant’altri mai. È vissuto sempre sano; ha il braccio destro monco sotto il gomito, causa una mina, che gli scoppiò dappresso ventiquattr’anni sono, nell’essere a lavorare a Campiglia di Maremma. Scherzevolmente, siccome suole, comincia a raccontarmi, come cinque giorni indietro fosse preso da diarrea biancastra copiosa e frequente; il giorno avanti erasi recato in val di Bisenzio sotto una pioggia continua, avea mangiato molti migliacci, e quella mattina medesima s’era rimesso in via, bevendo acqua fredda ad ogni rio o fontana che incontrasse; tanta era la sete che il cruciava. Arrivato a casa, avea rivomitata tal quale tutta l’acqua bevuta. Lamentavasi di qualche dolore alle tempie e a’ sopraccigli, di romori agli orecchi, d’arsione grandissima: la diarrea continuava a dirotta. Del resto non dolori ventrali, non freddo nè apparenze cianotiche; solo qualche crampo in una polpa. Il parlare sciolto e allegro del vecchio, che scherzava sulle sue sofferenze, scherzava sul cholera, avrebbe scherzato su tutto, mi divertì la mente da tristi prognostici; tanta gajezza e ilarità di spirito mi facea credere assai lontana da quel corpo la temuta malattia. Ordinai fomentazioni all’estremità, bevanda acidula e diascordion (scrop. 1) in acqua di cedro, raccomandai al vecchio alcune regole igieniche, e lo lasciai con lieti auguri. Ed ecco dopo i primi sorsi cessare immantinente il flusso diarroico, sopprimersi le orine, prendere il campo vomiti biancastri abbondanti, crampi fierissimi ad ambe le membra alle coste spurie e alle spalle, e tutti gli altri sintomi del cholera. Nel giorno dopo mercè qualche clistere mi fu concesso riaprire il secesso intestinale, che riapparve ma giallastro; i crampi sparirono, ma subentrò un senso di costrizione violenta alle fauci, che non lasciò più il povero infermo: egli moriva il due Gennajo in stato di reazione, con segni di forte congestione polmonare. Tanta precipitazione di malattia che finì colla morte, fu conseguenza della raffrenata diarrea, o sivvero naturale effetto di quel complesso di cause perniciose, cui il vecchio, già diarroico da varii giorni, erasi esposto imprudentemente il giorno avanti? Qualche ingegno benevolo potrebbe per cortesia attenersi al secondo supposto: ma la coscienza, che non porta rispetto a veruno, per ora non mi assecura.
In una famiglia di poveri e onesti braccianti, che ebbe due giovani affetti di cholera di cui il primo morì, tutti padre madre e figlia, quasi contemporaneamente nell’ammalarsi dell’ultimo, furono assaliti da forte diarrea sieroso-muccosa, ma senza accompagnamento d’altri sintomi funesti. Solo nel padre, uomo di tempra robusta su’ cinquant’anni, oppresso da cupo dolore per le strettezze presenti del vivere, era osservabile una sì profonda adinamia, che certamente non rispondeva colla perdita umorale nè coll’abbattimento dello spirito. Pure li volli assoggettare tutti e tre alla stessa maniera di cura, vale a dire a’ lievi astringenti sul primo e poi al diascordion. La diarrea fu agevolmente frenata; la madre e la figlia ritornarono a salute: ma nell’infelice padre l’adinamia si aggravò anche di più, e dopo tre giorni comparvero contratture alle mani e avambracci e alle dita de’ piedi, cosi crudeli ch’era una compassione a vedere. Frizioni d’olio canforato, e una pozione laudanizzata acquetarono facilmente simili disordini nervosi. Ma siccome gravissimo rimaneva pur sempre lo stato adinamico, mi parve di poter curarlo convenientemente, cominciando dall’amministrare una decozione di china, che volli a bella posta, e il farmacista Ajazzi preparò, leggerissima. Non era stata di mezz’ora sorbita, che immantinente insorsero convulsioni epilettiche, con sospensione della coscenza e delle sensazioni: e com’erano accompagnate da segni di forte congestione al capo, praticai un salasso e furon sedate. Ma ne’ dì successivi gli accessi vennero più frequenti ed intensi, e il malato in uno di questi perì.
Incolperemo noi quella leggerissima pozione di china della svoltasi epilessia, perchè questa le tenne dietro quasi immediatamente, o non piuttosto andremo più in su a rintracciare la vera origine de’ fenomeni morbosi, che la precederono e le tenner dietro? Io lo credo; (e la sincerità con cui lo confesso mi scuserà l’errore in cui forse caddi) e credo, che male a proposito contenuta fosse coll’oppiaceo la diarrea; credo, che quella adinamia profonda dovea essere bastante indizio, che qualche principio venefico, e il cholerico certamente, sotto si nascondesse; e credo, che impeditane la libera uscita, andasse ad offendere letalmente, per pura azione dinamica, qualche parte più nobile e centrale del sistema nervoso. Cosi nell’altro caso, se mi fossi lasciato meno ingannare dalla ilarità del vecchio, se avessi meglio posto mente a quel solo fenomeno, i crampi, quasi sentinella avanzata del nemico, se troppo frettolosamente non mi fossi dato a reprimere la diarrea, chi sa, che il vecchio non rallegrasse sempre de’ suoi facili motti le brigate e le ville.
Forse mi lascio andare nel vago e nell’ipotetico; ma giova adoperare talvolta la congettura, come una chiave una formula una parola d’ordine, per ritrovare la verità, badando bene però a non credere d’avere in mano e palpare la verità medesima, come molti fanno. Ognuno poi mi consentirà di leggieri, che nessuno più vivamente di me potrebbe desiderare, che la mia congettura fosse in tal caso una falsità.
In tre soli casi vidi il cholera fermarsi al primo periodo, e fu in donna di temperamento squisitamente nervoso, e in due giovanetti di pari età; ne’ quali tutti, oltre alle evacuazioni biancastre profusissime sotto e sopra, avemmo ad un primissimo grado freddo, cianosi, fiocaggine, viso livido e sparuto, dolori addominali e simili. I crampi soli mancarono al convegno fenomenico.
Passiamo ora a’ fenomeni del secondo periodo, vale a dire del periodo cosi detto algido-cianotico.
La diarrea e il vomito facevansi in questo più frequenti, e ordinariamente perduravano quanto esso; sebbene il più delle volte il vomito fosse il primo ad allentare. Raramente perdevano l’aspetto cholerico per assumere insieme tinta giallastra o verdastra, e in due casi, (nei quali l’esito si fe lungamente desiderare, ma non fu infausto) anche nerastra. Ne’ pochi casi poi, in cui la diarrea prese colore rossiccio, la malattia volse a tristo fine. I vomiti, o spontanei venissero o a bella posta procurati, alleviavano sempre lo stomaco dalle moleste sensazioni di peso di stiramento e di dolore, che irradiavansi anche all’intorno. La sete fu costante, continua, ardentissima: la lingua serbossi quasi del suo aspetto naturale, ma fredda.
Quanto alla circolazione sanguigna, l’algidità e la cianosi fenomeni gemelli, se gravissimi mi apparvero in alcuni per intensità ed estensione, e furono i casi più disperati, non così negli altri. Una tal donna, che periva in poco più di due giorni, lamentavasi di caldo per tutta la persona, mentre dalla cintola in giù era fredda: in un altro malato, sull’entrare della reazione e durante la reazione medesima, vidi l’algidità tornare più volte intermittentemente e senza regola di tempo per tutto il corpo. Il polso, a misura che il male aggravavasi, celere, piccolo, filiforme, e anche estinto totalmente. Delle secrezioni, la sola cutanea, oltre la gastroenterica, rimaneva, ma rare volte e in leggero grado: ne’ casi più gravi gli occhi aridi, avvizziti, parevano ornai chiusi alla luce, primachè la morte venisse. Notevolissima si offerse la sospensione delle orine, che perdurò in alcuni oltre le 48 ore, fino alle 60 e 64. Una donna poi la Caterina Bicchi, in cui la ultima secrezione orinaria facevasi alle ore quattro pomeridiane del 20 Dicembre, moriva all’ora medesima del 23, senzachè durante le 72 ore ne fosse riapparsa una goccia.
Tra’ disordini della sensività e contrattilità, i crampi rarissimamente mancarono; anzi in una donna in cui tacquero durante il corso della malattia, che non fu delle più lievi, infierirono soli poi nella convalescenza, e anche dopo che fu rinviata guarita dal Lazzeretto. E nel marito di questa, il quale porta le ginocchia slogate per antica caduta, malgrado la benignità degli altri sintomi, investirono tutte le membra inferiori con tanta ferocia, che non vidi verun altro sotto il flagello de’ crampi dolorare altrettanto; e credo, non fosse estranea a tanta acerbità di tormenti quella innormità nella conformazione scheletrica. ln altri due occuparono tutte le membra inferiori fino agl’inguini, e la malattia fu letale. Curioso fu in un caso assai grave vederli comparire all’indice d’una mano, stato malconcio un anno indietro da foruncolo spontaneo, e poi anche all’indice sano dell’altra mano. Queste contratture dolorose pigliavano anche i muscoli del bassoventre, del dorso, gli spinali, e quelli di altre parti.
Non saprei di certo, se referire a pura nevrocinesi dipendente dal principio specifico del cholera, o sivvero a qualche causa perfrigerante cutanea, i dolori che insorsero subitaneamente in due malati, e co’ quali rapidamente morirono. Credo anzi, tanto furono veementi ed atroci, che di quelli unicamente morissero, per reale consumo di forza nervea; poiché insorsero in condizioni non gravi di malattia, seguitarono per alquante ore nel silenzio d’ogni altro sintoma, e i malati morirono in perfetta coscienza, nell’atto si dibattevano ne’ loro letti sotto la sferza di quell’aspro martiro. L’uno fu in una donna poverissima, di temperamento venoso, che allattava un suo bambino di mesi diciotto, e in cui complicossi sino da primo la verminazione. Era stata travagliata è vero da dolori d’una certa intensità all’ombelico, e quindi all’ipocondrio destro, quando sul declinare del periodo algido, dopo essersi molto dibattuta per il letto, una punta fierissima che inasprivasi ne’ moti respiratorii, a un tratto e senza accompagnamento d’altri sintomi, venne a fissarsi sotto la mammella destra, e vi si mantenne ribelle ad ogni argomento curativo sino alla morte, che avvenne sedici ore dopo. L’altro fu un vecchio d’anni settanta circa, il quale trasferito a sera con sintomi non gravi di cholera al Lazzeretto, posto di poco in letto, fu assalito da tali trafitte all’epigastrio, che non gli dettero più posa un momento. Anch’egli moriva a un tratto in mezzo a spasmi terribili, seduto sul suo letto, alle sette dell’indomani.
I sensi, l’udito massimamente, cadeano più o meno in stupore; le facoltà intellettive piuttostoche assopite, pareano chiuse in se stesse nel sentimento di tanti mali.
La respirazione mi apparve sempre affaticata e romorosa; la voce, estinta del tutto ne’ casi più gravi, affiochita semplicemente ne’ più leggieri, non mi dette mai quel suono fesso e stridulo, che pure si da per distintivo.
II ritorno graduato a salute dal periodo algido, senza attraversare il periodo di reazione, fu da me osservato in due giovani, l’uno d’anni ventuno e l’altro di trenta. Nel primo specialmente i sintomi cholerici tutti del secondo periodo, e la cianosi massimamente, aveano mostrata una certa violenza; e nonostante furono veduti tutti dileguarsi a uno a uno, e le secrezioni del tubo digerente ritornare in brevissimo tempo a stato normale.
Se la malattia nel terzo periodo cosi detto di reazione cambia visibilmente di forma, sarà lecito concludere, che ella cambii anche di sua natura intrinseca dissolutiva? Veramente mettendosi sul ragionare parrebbe, dovesse contrastare ogni sana legge di patologia, l’ammettere nell’andamento abituale d’una malattia e sul bel mezzo di essa questo passaggio spesso cosi violento da una diatesi alla opposta. Pure se il fatto lo dimostrasse, vo’ dire se i sintomi con tutte le sembianze e accidentalità loro, se la terapia colla consonanza de’ suoi effetti sullo stato morboso, se l’anatomia patologica co’ trovati dello scalpello, ponessero in chiaro una reale sostituzione della diatesi flogistica alla dissolutiva (che tale si ravvisa comunemente ne’ primi periodi del cholera), converrebbe ch’io spezzassi le tavole della mia legge, ed accettassi il dettame del fatto.
Ora se riguardo in complesso a’ sintomi che primeggiarono in questo periodo, credo non andare errato, ravvisando nella massima parte, piuttosto il decadimento, che l’esaltamento degli atti vitali, piuttosto un declinare della materia nelle vie della dissoluzione, che un trasmodare, siccome nella flogosi avviene o nella diatesi flogistica, nelle formazioni plastiche. Avrei voluto ajutarmi in questa ricerca anche delle indagini anatomiche; ma ostacoli superiori alla mia volontà me lo impedirono. Potrei addurre anche l’argomento terapeutico, e mostrare in cifre, come la somma de’ guariti col metodo di cura analettico e stimolante in tal periodo superi d’un terzo e più i morti: ma per quanto coscenziosamente fidassi negli espedienti dell’arte da me adoperati, per quanto valente apprestator di rimedii mi possa credere, pure so, che sopra me v’è un altro medico, il quale si mette non chiamato di viva forza nella cura, ed ha per uso non dir nulla a nessuno quando e come guarisce. Questo medico si chiama natura, e potrebbe anch’essere (lo che accade spesso in medicina), che noi stimassimo efficacia del medicamento quello si dee solamente alle salutari operazioni, che nel segreto de’ corpi compie natura: alla quale spesso, prima di accingersi all’opra, tocca a perder tempo, talvolta anche irreparabilmente, nel disfare e ammendare ciò, che la mano improvvida e presuntuosa dell’uomo dell’arte operò. Questo argomento terapeutico adunque non potrebbe acquistare validità logica, che stabilito sur una moltitudine e varietà grande di casi, e messo a riscontro con un metodo opposto di cura, o col metodo così detto espettante.
Già diceva, come i sintomi del periodo di reazione mi addimostrassero specialmente indole dissolutiva; mi convien provarlo. E primieramente gli atti della circolazione sanguigna mi apparivano ordinariamente infievoliti, per singolare lentezza e cedevolezza, e talvolta per la intermittenza del polso. Vero è, che la buona arte sfimmica insegna a considerare le qualità de’ polsi in ragione delle loro origini possibili; che il difetto di azione non sempre risponde a difetto di potenza; e che polsi siffatti sogliono talvolta appartenere anche alla encefalite e meningite, stati morbosi di cui più si sospetta nel periodo di reazione cholerica: ma nè la qualità, nè il modo d’insorgere, nè le pertinenze tutte degli altri fenomeni ebbero forza d’indurmi ad accogliere un tale convincimento. La semplice congestione encefalica passiva, che fu epifenomeno frequente in questo stadio, in soli due casi mi parve evidente, si elevasse a vera flogosi meningo-encefalica; poichè il polso mantenne costante durezza e frequenza, la cute fu sempre arida, i fenomeni encefalici prevalsero per intensità e durata su’ fenomeni gastroenterici (mentre il contrario avverossi sempre nel rimanente), e i miseri infermi perirono in mezzo al più scompigliato disordinamento delle facoltà sensitive e intellettuali.
Fra’ sintomi pertinenti al viscere gastroenterico, la sete, la lingua arida, e talvolta fuligginosa, i dolori addominali, le diarree d’aspetto giallastro o verdastro raramente mancarono: segni d’iperemia polmonare esisterono in alcuni casi.
Fra le complicanze, i vermi mi apparvero in più della metà degl’infermi, ora come ospiti antichi del corpo fino dal primo insorgere della malattia, talaltra come precursori o compagni di stato dissolutivo esiziale in sul cominciare del periodo tifoideo. Nell’uno e nell’altro modo sempre comparvero negli infermi, in cui le potenze e l’opera della organica riparazione essendo venute meno da qualche tempo, bene potea dirsi, la materia animale aver contratta attitudine a retrocedere dall’ordine suo primitivo, e a digradare per ordini d’una organizzazione inferiore. La verminazione infatti non risparmiò veruno dei tre della famiglia Bicchi, veruno de’ tre della famiglia Boni, ed altri come questi gravati di profonda miseria, o affraliti da forti dolori: solo un caso fece eccezione, nel quale niuna delle dette condizioni verificavasi.
Mai non mi fu dato scuoprire eruzione miliarica, o d’altra natura; sebbene la miliare avesse dominato endemica l’estate decorsa nel comune di Barberino.
Da ad intendere il Gendrin nella sua Monografia sul cholera, la terminazione del cholera in ogni caso operarsi per crisi o per metastasi. Si sa bene, quanto li occhi della mente tirino più lontano di quelli del corpo, e quanto sia facile vedere con essi sì quello che è, e sì quello che non è: e perciò non faremo le meraviglie, se il Gendrin abbia visto il cholera andarsene in crisi, o sgomberare dalle intestina, per andare a stare nel cervello ne’ polmoni alla cute o dovecchessia. Una scuola meno fragorosa o ciarliera, ma più sapiente e modesta oramai ci ha insegnato, come debbasi andare a rilento nell’accettare simili nomi. Io poi nel caso mio godo potere affermare cosa acconsentita oramai dalla maggior parte de’ sani osservatori, che il cholera non ha presentato moto alcuno di crise o comecchessia somiglievole, col quale la malattia abbia fatto subita dipartita dal corpo infermo: ed ho sempre osservato una graduata e più o meno lenta risoluzione de’ fenomeni, anche ne’ casi in cui la malattia parve soffermarsi al primo e secondo periodo. Quanto alle metastasi è facile avvedersi, come l’illustre medico Francese, con la semplicità d’un novizio, sbagliasse per una simile contingenza i semplici epifenomeni o successioni o complicanze della malattia.
Al medico chiamato in luogo invaso da una malattia popolare due doveri, non meno sacro e grave l’uno dell’altro, si parano davanti. Il primo si è procacciare, i sani non ammalino, il secondo curare i già ammalati. Ma dove in questo il medico sventuratamente lotta sovente col male tentoni ed al bujo e con grande disparità di forze, nell’altro sa di proceder sempre per vie dritte ed aperte; mentre là l’arte e scienza medica appare fallace e meschina, qui veramente tiene del grande e del provvidenziale.
Spesso e profondamente ho meditato su quella tanta parte di scibile che chiamasi medicina, e ho sentito dentro me, quanto poco l’intelletto umano avesse ragione di superbire: ma ho sempre benedetto e creduto alla igiene, la quale veramente arte salutare per eccellenza sarebbe, se popoli e governi la proseguissero di fede e culto maggiore.
Già fu detto, come arrivato a Barberino, prima cura fosse procacciare la nettezza delle vie e delle case, la salubrità degli alimenti, il richiamo degli animi a sentimenti di coraggio, in una parola il risanamento morale ed igienico del paese; dissi del ricovero de’ malati da me immantinente proposto, instantemente addomandato, e serotinamente concesso6. Ora dirò della cura della malattia.
Ne’ morbi popolari, in cui siccome mi studiai di provare, la paura prende tanta parte ad originarli, ed altrettanta a renderli gravi e perniciosi, cominciare dalla cura morale dell’infermo potrà apparire cosa vana solamente a que’ pochi, i quali nell’infermo non veggono, se non un corpo da tastare e brancicare, con aperture per cui gettansi medicamenti, e altre per cui escono liquidi e solidi, una macchina con degli organi che compiono i tali e tali ufficii; materia insomma e aggregato di atomi in guerra, che non vuol esser gastigato altrimenti che colla materia. Costoro non sanno, che a volte una parola sana meglio d’una ricetta, e credono avvilirsi alle parti di donnicciola, o reputano pastorellerie arcadiche, fisime poetiche giovanili, bacchettonerie sentimentali, discendere benignamente addentro nell’animo del malato, risuscitarne la speranza e la fede, che sono spesso principio alla via di salvazione.
Pochi consentiranno a un illustre medico straniero e vivente, che il miglior mezzo per rialzar l’animo del malato sia, persuadergli l’infallibilità del metodo seguito nel curarlo. No: ad un Francese, per quella benedetta infermità di stracorrere nel superlativo, convengo, non parrà dir troppo; ma un Italiano credo vi avrebbe scrupolo. Certi spedienti voglionsi lasciare di buon grado a certi paesi, dove dalla cattedra accademica alla carrozza cerretana è un picciol passo: ed io per me poi credo troppo pericoloso l’avvezzarsi a dire anche per celia una cosa; perchè verrà (e ognuno l’avrà provato dentro se), più presto di quello non si creda, il giorno, in cui la crederemo e spacceremo per vera.
Ma io non provai tanto forte il bisogno di quella eloquenza, che la natura mal consentiva alle mie labbra, se non quando nell’accostarmi le prime volte al letto de’ cholerosi in Barberino, sentiva e dal malato e dagli assistenti ripetermi su tutti i tuoni, che — tanto erano opere perdute — che la morte era scritta sulla fronte del malato — che all’anima sola era da pensare e non al corpo, — e simili espressioni di desolante sfiduciamento, che mi faceano temere più del male medesimo. Quindi la vittoria, che il medico dovea conseguire su quegli animi tiranneggiati dalla paura, meglio che alle arti della parola, era da commettersi alla assiduità allo zelo alla annegazione posta nel soccorrere gl’infermi. Non so come adempissi a questi doveri; ma certo non tardai molto a consolarmi della fiducia, con cui accoglievano medico e medicamenti.
Certamente chi guardasse alla moltiplicità de’ medicamenti specifici, che in questi ultimi tempi massimo si sono trovati contro il cholera, non potrebbe fare a meno di benedire all’arte nostra, e argomentare in essa una sovranità di potere da non si dire. L’umanità dovrebbe tripudiare e far galloria all’appressarsi del cholera, anzi converrebbe farlo venire apposta dalle rive del Gange; poichè se è vero, che il cholera ove arriva assorbisce in se tutte malattie, e se è vero ciò che ogni fortunato trovatore spaccia del suo rimedio, qual fortuna per i popoli e qual trionfo pel medico, con un sol colpo tagliare il capo a tutte! Leggete giornali medici ed anche non medici, e spesso e volentieri v’imbatterete in medicamenti nuovi, i quali nelle mani del tale o talaltro Francese o Tedesco o Americano che sia, nella tale o talaltra isola fortunata, hanno fatto mirabilia. Ma Dio vi guardi, sapete, dal cimentarli; se pure non avete una buona dose di fede: perchè, prima d’averne avuto un effetto buono, vi trovereste ad aver rotto cento volte dalla disperazione il capo nel muro. Aprite poi i libri degli Omeopatici, di questi ascaridi e lombricoidi della Medicina, che odiano l’aria aperta e la luce e amano lavorar sottoterra, e vi leggerete annunziato in modo che non ammette dubbio, che di 100 presi di cholera, 94 96 o anche tutti e 100, volendo, potrebbero in ultimo ridersela alla barba del mostro Gangetico7.
Miserabilissima e stoltissima umanità, la quale, con un pezzo di rame sul bellico e pochi minuzzoli presi per bocca, potrebbe sfidare il cholera, epidemico o contagioso che sia, e nonostante s’incaponisce ogni di più a voler morire di cholera all’antica, vale a dire mettendoci di suo di più del cinquanta per cento. Certo se la buona gente degli Omeopatici non mandano al diavolo tutto l’uman genere, e non vanno per gastigo nostro colla loro cassettina farmaceutica a far da medici e speziali in regioni di enti più ragionevoli, è un miracolo da stupidire.
Queste cose però voglionsi raccontare, più come amenità storiche per rallegrar la materia, anzichè come oggetto di critica; cosicchè aspetteremo ancor noi a credere nella virtù di qualche specifico, quando avremo un poco meglio conosciuta la natura del cholera, o quando un’altra contessa in altra parte della terra riceverà dalle mani d’un’altro priore un’altra polvere maravigliosa8. Quanto alla polvere credo, che ancora debba nascere il priore e la contessa: quanto alla natura del cholera, credo, che i più savi e discreti abbiano volentieri a concludere, quel che conchiudeva un Francesco Puccinotti, dopo veduto nel 35 il cholera in Toscana; cioè che pareagli di saperne molto meno di prima.
I’ dico seguitando adunque, che non essendo per ora possibile una medicatura diretta o specifica contro lo stato morboso del cholera9, l’intento del medico dovrà restringersi a combattere puramente l’atto dinamico della malattia, vale a dire que’ fenomeni o epifenomeni, i quali rendonla più appariscente e travagliata. Questo modo di cura, sintomatica o dinamica che dir vogliamo, intende a eccitare nel corpo infermo azioni tali, quali s’inducono con gli stessi agenti nel corpo sano, e di quelle fare scudo al procedimento morboso medesimo, che non possiamo combattere direttamente colla virtù del medicamento: quindi dicesi anche cura indiretta. Non è un prendere la fortezza d’assalto, siami lecito il paragone, ma per blocco o per assedio; quindi operazione che richiede, come nel soldato così anche nel medico, pazienza e avvedutezza maggiore di quello non si creda. Quindi a ragione si disse anche cura razionale, siccome quella che abbisogna d’assai più conoscenze sulla serie degli effetti de’ medicamenti negli umani organismi, non meno che sugli elementi morbosi ch’entrano a far parte d’una malattia, e sulle loro cause possibili.
Fu detto già della cura opposta alla diarrea prodromica: il riposo, la dieta, le fomentazioni all’estremità e aromatiche sull’addome, qualche decozione di camomilla, e specialmente la tranquillità e il coraggio, che mi studiava infondere in altrui, compievano il più delle volte la cura prodromica.
Venuto il secondo periodo, o anche all’appressarsi di quello, era sollecito ad amministrare l’ipecacuana (da tre a sei grani ogni quarto o mezzo d’ora); l’ipecacuana, felice rimedio, che mi traeva fuori gran parte de’ prodotti morbosi dello stomaco, modificava alquanto la secrezione intestinale, risvegliava il polso depresso od estinto del lutto, e rianimando la circolazione e calorificazione periferica, mandava almeno un tepido raggio di vita non sempre fallace su corpi, che aveano freddo e pallore di morte. I lavativi d’acqua di crusca e camomilla, ove occorreva tenere attiva la secrezione intestinale, furono pure per me adoperati.
Ma quando, venendo a diminuire spontaneamente i due alti secretivi, prendevano il campo la cianosi e l’algidità, e i fenomeni adinamici, allora, non occorrendo più secondar la natura in questo lavoro eliminativo, subentravano i medicamenti analettici diffusivi, quali l’acetato d’ammoniaca con decozione di tiglio, l’alkermes, e finalmente quando potei averlo in pronto, l’austero vino di Bordò, schietto ne’ casi più lievi, ravvivato con tintura eterea di menta ne’ più gravi. Il vino di Bordò anzi può dirsi, che formasse base della cura anticholerica, nel periodo algido massimamente, come anche ne’ primi del periodo successivo; purché sintomi di diatesi flogistica, o di flogosi,o di forti congestioni locali nol contrariassero. Nè so intendere, come chi ammette pure diatesi dissolutiva nel cholera, debba poi temere tanti malanni dalla cura analettica o stimolante che dir si voglia, e specialmente dal vino, amministrato quando le azioni cardiaco-vascolari, la calorificazione, la respirazione sono ridotte al massimo infievolimento; dal vino, che, senza parlare di reputatissimi pratici viventi nostrali ed esteri, lo stesso Cornelio Celso raccomandava nella cura del cholera10. Sarebbe l’istesso che temer d’incendiare, e pur si mancasse di ogni materia combustibile. Fra gli analettici tutti poi presceglieva il vino, avvertendo darlo a dosi moderate, per le due seguenti ragioni.
1° Perché credo, la natura, senza tanti crogiuoli e alambicchi, prepari meglio i medicamenti dello speziale; e perchè credo, quando il medico può sceglier fra i due, non debba esitare a servirsi della fabbrica migliore.
2° Perchè agendo il vino specialmente sul sistema sanguigno, e quindi sulla calorificazione, sembrami il meglio conducente allo scopo; e perchè eccitando particolarmente la contrazione vascolare e muscolare dello stomaco, arreca sensazione di conforto, e ne stimola gli atti vitali.
Quanto alla cura esterna, avrei ben volentieri sperimentato il bagno, sia caldo come freddo. Ma come sarebbe stato possibile a casa di tanta povera gente, che abbisognavano d’ogni ben di Dio, l’apprestare i mezzi e i modi per farlo? Credo adunque esser rimasto privo infelicemente nella mia cura d’un espediente molto efficace, specialmente in que’ primi fierissimi casi, in cui l’algidità e la cianosi apparivano così pronte ed intense.
E anche questo fia suggel che ogni uomo sganni, sulla necessità di aprire prontamente ricoveri a’ malati poveri ne’ luoghi invasi dalla malattia. I soccorsi a domicilio sono una bella e santa cosa; il rispettare anche la libertà (solo bene che rimanga all’infermo) di morire nel proprio letto, fra le braccia de’ suoi, significa pure umanità e civiltà, e fa onore al governo nostro. Ma chi si è aggirato per i tugurii visitati (e come visitati!) dalla terribile malattia; chi ha visto con quante necessità, malgrado i soccorsi della carità comune e privata, abbia da combattere l’infermo povero, la tetra luridezza di quelle oscure e fredde e anguste stanzucce; chi ha sentita la puzza, che si esala dalle latrine mal difese, dagli stracci da’ mobili, e fino da’ pavimenti e dalle pareti medesime starei per dire11; chi ha veduto, come spesso molti de’ parenti s’adoprino di forza ed invano, dove un servente solo di spedale basterebbe; chi sa, come le fatiche le veglie sieno a lungo andare cagione, che i sani stessi ammalino; chi ha provato, come le ordinazioni mediche o per incuria o ignoranza siano trasandate e frantese, certamente, se medico con pericolo maggiore sì della vita, se municipio con qualche dispendio di più forse, ma con più fiducia amendue di giovare all’umanità, preferiranno sempre il servigio ordinato regolare e assiduamente sorvegliato del lazzeretto alle sparpagliate e scompigliate cure domiciliari.
De’ pochissimi malati, che ebbi nel lazzeretto, in due soli ebbi opportunità di sperimentare il bagno caldo. Ma alla mancanza di quello procurai d’ammendare con altri mezzi calefacienti esterni, quali i mattoni e le bottiglie calde, le confricazioni colle lane a tutta forza, e le fomentazioni senapate. Le frizioni con olio canforato e con la tintura tebaica valsero, tranne in alcuni casi ribelli, ad alleviare e diradare le contratture muscolari delle membra e delle varie parti del tronco. I senapismi e le coppe secche applicate all’epigastrio, ora per minorare i conati del vomito, quando il vomito era mantenuto da una certa intolleranza e irritabilità nervosa, anzichè da bisogno di cacciar fuora materie, ora per attutire le sensazioni moleste di costrizione di peso e di dolore allo stomaco, sovente mi produssero buono effetto, talvolta nullo.
Venuto il terzo periodo, a seconda che la circolazione e calorificazione riprendevano vigore, rallentavo l’amministrazione dell’analettico, ma non a segno da abbandonarlo mai; eccettuati i soli pochissimi casi, in cui ravvisava segni di flogosi locale, o comecchessia tendenza a diatesi flogistica. La polpa di tamarindi sciolta in acqua, l’acqua del Tettuccio trovarono sovente indicazione in questo periodo. In donna di tempra nervosa squisitissima, in cui il vomito persisteva per vero disordinamento della sensività e irritabilità dello stomaco, l’antiemetico del Riverio sedò immantinente. Il kermes in decozione di poligala fu adoprato ne’ casi d’iperemia polmonare o della muccosa bronchiale; la santonina nelle frequenti verminazioni.
Le sottrazioni sanguigne alle apofisi mastoidee nelle congestioni cerebrali, all’ano nelle addominali e polmonari, furono ripetute a seconda della opportunità. A queste tenevano dietro i vessicanti cantaridati alle braccia alle gambe alla nuca sul petto, non solo come atti a richiamare altrove il sangue affluente ne’ visceri, ma anche nello scopo di avvivare e rinvigorire la tonicità delle pareti vascolari.
Quali furono le conseguenze della mia cura? Nel cholera una bilancia fatale pende davanti ad ogni medico: dall’una parte stanno le guarigioni, dall’altra le morti. Avventurato chi sa tenerle in equa lance, più avventurato chi giunge a far propendere anche di poco più la prima che la seconda. Io lo confesso dolente, non per me, chè sarebbe turpe egoismo, ma per quelle vite che invano mi sforzai di salvare, non fui degli avventurati; sebbene il numero delle morti si levasse di legger grado su quello delle guarigioni. Difatti de’ 33 malati12, i quali posso dire veramente d’aver curato io, perchè potei assumerne la cura fino dal primo irrompere della malattia, o ne toccò a me la massima parte, ne vidi perire 18, vale a dire 54 6/11 per 100. Cinque ne trovai negli estremi del male, colpiti fino da’ primi giorni, e che perirono poco dopo; com’erano periti innanzi tutti gli altri, e come morirono, uno solo eccettuato, tutti quelli del primo terzo, ed in massima parte quelli della prima metà. Nè alcuno vorrà essere così stolto o maligno, da credere, che ciò sia detto a guisa di confronto fra me, e l’onorevole collega che mi precedè nella cura de’ cholerosi, la cui pratica esperienza è superiore ad ogni elogio; ma unicamente per addimostrare quanta fosse la perversità del male in Barberino, grande sempre ne’ primi casi, grandissima ivi per la paura e lo sfiduciamento degli animi. Difatti de’ 45, i quali ammalarono di cholera, ben 30 perirono, vale a dire la mortalità ascese nel totale fino ai due terzi.
Ho creduto bene annettere da ultimo alcune tavole prospettiche, le quali addimostrano l’andamento giornaliero de’ casi, e, sebbene in ristretto campo, l’attinenza, che le morti e le guarigioni tennero coll’età il sesso e i periodi della malattia.
Venuto ora a termine del mio povero discorso, trista dimanda mi si affaccia alla mente. In che cosa, scrivendo, giovai alla scienza e alla umanità? Qual segreto svelai sulla natura intima della malattia, qual nuovo rimedio proposi, qual frutto di mia esperienza ho da trasmettere, quante vittorie riportai su questo nemico esiziale dell’umana salute? A tutte queste dimande mal risponde la mente, consapevole di sua meschinità. Ma valga almeno a scusare presso i sapienti, che sono per buona sorte anche i più discreti (poichè la sapienza sola è benevola e generosa, la sola ignoranza trista e arrogante), valga, diceva, a scusare la futilità di queste pagine, il dovere d’ogni cittadino, onorato di pubblico ufficio, di render pubblico conto dell’operato, il fine a cui le volli stampate, la veridicità con cui le dettai,
» valgami il lungo studio, e ’l grande amore,
- ↑ [p. 92 modifica]Vedi la Tavola II.ª a pag. 85.
- ↑ [p. 92 modifica]S’intende bene, che io parlo qui della classe più numerosa della popolazione, e non delle famiglie comode e agiate del paese, cui non tocca veruno di questi rimproveri. Ma non si salverebbe però da rimproveri il Municipio, se a simili gravissimi inconvenienti non procurasse rimediare con ogni sua cura.
- ↑ [p. 92 modifica]Gran peccato, che la verità non nasca mai nuda, ma ravvolta in una certa veste, che la invola quasi vergine pudica a’ cupidi sguardi; sicchè molti, dalla troppa furia o smania di scuoprirla, non badano a strapparle anche le carni, e le lasciano tali impronte, che poi più non si riconosce. Gran peccato voleva dire, che l’Ajazzi Filomena, giacchè dovea ammalare, non ammalasse la prima di cholera in Barberino; perchè allora il fatto della importazione sarebbe apparso così chiaro e lampante, da non dare appiglio veruno a contese, e da acchetare i più miscredenti. Ma col fatto così come sta, sembra, che una bizzarra natura abbia posto la questione negli stessi termini di quella, che danno a sciogliere a’ bambini, e comincia. — S. Martino fu il primo, ma S. Donato era nato, — con quel che segue.
- ↑ [p. 93 modifica]Ho analizzate le impressioni, che ricevei io stesso alle prime visite de’ cholerosi, e confesso, che l’atto del vomitare, o anche il solo udirne le voci che ne accompagnavano gli sforzi, mi cagionava pena all’epigastrio, e vera inclinazione al vomitare. La quale procuravo d’ingannare, o astraendomi forte in qualche pensiero, o mettendomi a passeggiar per la camera. Tornato a casa, specialmente nel silenzio delle prime ore notturne, quelli sforzi li avea sempre negli orecchi, e il malato stesso sotto varii e brutti aspetti sempre dinanzi agli occhi, si che mi parea d’avere a vomitare di momento in momento. E veramente m’era necessario far forza a me medesimo, per non cedere a codesto urto dello stomaco. Paura veramente non era, era una particolare impressionabilità, che poi l’abitudine, questa gran maestra di tolleranza, riuscì a vincere.
- ↑ [p. 93 modifica]Del Rinnuovamento della antica Filosofia Italiana.
- ↑ [p. 93 modifica]Giustizia vuole, che io rammenti di nuovo con lode il Sig. Francesco Baroni, il quale m’ajutò della opera sua nell’assesto del Lazzeretto, e fu poi sempre assiduo nel visitarlo. Meglio poi non poteva essere affidata la sorveglianza del servizio, che allo zelo, alla bontà, e amorevole compitezza del giovane egregio Sig. Giuseppe Comucci di Barberino.
- ↑ [p. 93 modifica]«È ufficialmente costatato (notate bene, ufficialmente!), che la mortalità media de’ cholerosi curati omeopaticamente è stata del 4 o 6 circa per 100 in Boemia, in Sassonia, in Francia, in Inghilterra, in Sicilia, e totalmente nulla (totalmente nulla!) in quelli che aveano usati i preservativi indicati dall’Hahnemann». Sul cholera Asiatico — Avvertimenti del D. Omiopatico Aurelio Rossini — Firenze — Tipografia Tofani 1854.
- ↑ [p. 93 modifica]La China tenne trasportata in Europa dalla consorte del Conte Cinchon, Vicerè del Perù, la quale aveala avuta da un Priore, ed era stata con essa risanata da una febbre pericolosa. Perciò Linneo diede all’albero della China il nome di Cinchona, e questo rimedio, distribuito da prima dalla prefata contessa sotto forma di polvere, venne chiamato polvere della Contessa. (Richter — Trattato di materia medica).
- ↑ [p. 94 modifica]Vedi una lettera del D. Prospero Pietrasanta — Sulla negazione della medicatura specifica contro il cholera, e sulla utilità della profilassi e della medicatura razionale. — (Gazzetta Medica Italiana Toscana. Anno VI n.° 40.)
- ↑ [p. 94 modifica]At cum discussa cruditas est, tum magis verendum ne anima deficiat: ergo tum confugiendum est ad vinum. Celsus de Medicius. L. IV. Cap. 18.
- ↑ [p. 94 modifica]In casa delle due famiglie Bicchi e Boni, per tacere di altre, tutte volte che io entravo e furono spesse, trovavo un fumo così denso, che mi facea frizzare e lacrimare fortemente gli occhi, e ne escivo con tosse e gravezza di capo. Credo, che un’aria per tal modo alterata, e respirata continuo da’ malati, dovesse contribuir molto a deteriorare l’ematosi, o almeno ad impedirne il ritorno alle condizioni normali.
- ↑ [p. 94 modifica]Mi sento in debito dichiarare, che i 33 notati da me come malati di cholera, erano realmente malati di cholera. Parrebbe, che parlando di malattie, quando si dice cholera, debbasi ritenere che quello sia veramente cholera. Ma a certi citati più sopra, e ad altri fatti a similitudine di quelli, non talenta intenderla così. Costoro credono far gran bene, prima a se stessi e poi alla povera umanità, mettendo sulla bilancia certe malattie di contrabbando, buone a farla saltare molto in alto dalla parte delle guarigioni. La povera verità e la coscienza sono spesso costrette a velarsi il viso per non vedere. Ma che importa? Ciò non toglie, che costoro non vadano pettoruti tra la gente, come tanti taumaturghi, e che il loro merito in guarir malati non venga lor valutato a un tanto la dozzina.