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curarlo. No: ad un Francese, per quella benedetta infermità di stracorrere nel superlativo, convengo, non parrà dir troppo; ma un Italiano credo vi avrebbe scrupolo. Certi spedienti voglionsi lasciare di buon grado a certi paesi, dove dalla cattedra accademica alla carrozza cerretana è un picciol passo: ed io per me poi credo troppo pericoloso l’avvezzarsi a dire anche per celia una cosa; perchè verrà (e ognuno l’avrà provato dentro se), più presto di quello non si creda, il giorno, in cui la crederemo e spacceremo per vera.

Ma io non provai tanto forte il bisogno di quella eloquenza, che la natura mal consentiva alle mie labbra, se non quando nell’accostarmi le prime volte al letto de’ cholerosi in Barberino, sentiva e dal malato e dagli assistenti ripetermi su tutti i tuoni, che — tanto erano opere perdute — che la morte era scritta sulla fronte del malato — che all’anima sola era da pensare e non al corpo, — e simili espressioni di desolante sfiduciamento, che mi faceano temere più del male medesimo. Quindi la vittoria, che il medico dovea conseguire su quegli animi tiranneggiati dalla paura, meglio che alle arti della parola, era da commettersi alla assiduità allo zelo alla annegazione posta nel soccorrere gl’infermi. Non so come adempissi a questi doveri; ma certo non tardai molto a consolarmi della fiducia, con cui accoglievano medico e medicamenti.

Certamente chi guardasse alla moltiplicità de’ medicamenti specifici, che in questi ultimi tempi massimo si sono trovati contro il cholera, non potrebbe a meno di benedire all’arte nostra, e argomentare in essa una sovranità di potere da non si dire. L’umanità dovrebbe tripudiare