Il cholera in Barberino di Mugello/Parte terza
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PARTE TERZA
Fin qui parlava la mente: abbia la sua parola anche il cuore. E difatti che sarebbe la professione di medico, se dove a lui manca la scienza, l’affetto nol reggesse? Che è il medico, se dell’ingegno usa quella parte soltanto, che si può cambiare in denaro, e tien chiusa quell’altra che s’ispira dal cuore? Il medico posto nella società tra la vita e la morte, tra lo spirito e il corpo, tra la natura e l’umanità, tra il bene e il male, per combattere una necessità che tutti raggiunge piccoli o grandi, il dolore; il medico, ovunque si muova e si volga, ha sempre sventure da compiangere, sempre timori e speranze che l’agitano, sempre fatiche e pericoli da affrontare, patimenti da lenire, vite da salvare, e peggior d’ogni prova, la più nera ingratitudine da superare.
Che importa? egli non faticherà meno per questo a operare il bene de’ suoi simili; e’ non cesserà di levare alto la voce, quand’anche sia sicuro, che la società gli risponda col silenzio col dispregio e l’odio medesimo.
Ora tornando al proposito del cholera, un fatto risulta universale dalla osservazione di tutti i luoghi e di tutti i tempi, ed è; che questo mal seme si apprende o si genera, comecchè si voglia, assai troppo più facilmente ne’ sudici e angusti abituri, che nelle case ampie aereate e pulite, più ne’ poveri fra gli stenti e i fisici e morali patimenti, che ne’ ricchi in seno agli agi e a’ piaceri. Ora una delle due: o preme, a chi dovrebbe e potrebbe risparmiare per quanto puossi ad una città ad un paese un flagello così spaventevole, o non preme. Io non farò la seconda ipotesi, che allivellerebbe l’uomo a’ bruti. Ma se preme, come fermamente credo, e allora perchè aspettare a combattere un nemico crudelissimo, quando già v’è in casa e alla gola? perchè allora solo ricorrere al medico, quasi que’ miseri fogli, che si chiaman ricette, dovesser essere altrettanti fogli di via sicurissimi per ogni male? quasi noi medici dovessimo esser più forti di tutte le potenze morbifere della natura, quando non si vuol far nulla e poi nulla, per lontanar quelle che sono opera della mano dell’uomo.
Il governo Toscano messe in mano delle magistrature comunali un mezzo potente di pubblica salute, e di preservazione da’ morbi popolari, quando diè loro facoltà di ordinare Commissioni Edilizie, a sorvegliare la politezza e salubrità delle umane abitazioni1. Ebbene io dirò cosa dolorosamente vera: quanti de’ Comuni Toscani seppero e vollero giovarsi della savia libertà concessa loro dal governo? pochissimi e poco che io mi sappia; reputando cosa migliore sonnecchiare essi medesimi sul pubblico danno, anzichè andare a scuotere l’avara e inumana poltronaggine di questo e quel proprietario2.
Eppure è vivo e parlante l’esempio di Livorno, la quale deve certamente al suo culto delle leggi igieniche, se nell’ultima invasione cholerica in Toscana, ebbe a piangere tanto minor numero di vittime.
Ma i Municipii, giova credere nel supposto migliore, la legge benefica non intendessero, o credessero dileguato per sempre col male il pericolo del male medesimo; e il Governo, che in tanti altri affari credè bene arrogarsi de’ diritti su’ Comuni, egli che sa a quali mani ora la sorte può commetterli, in questo che riguarda cosa la più preziosa, la salute pubblica, dovea comandare forzare. Imperocchè il vedere sciupare la libertà, cara bella e santa cosa, non ci sia mai andato a genio; e preferiremmo sempre, nel reggimento della cosa pubblica, una mente forte con braccio anche più forte, agli ammennicoli e a’ vani gesticolamenti di teste eunuche.
È conviene esser medici o parrochi, per entrare in certi tugurii, dove fin l’occhio di chi passa schifa di addentrarsi, per vedere, come stia allogato chi ha un corpo e un’anima come abbiamo noi. Qui nella nostra città il male non si porge così grave come altrove; ma pure esiste e abbisognerebbe di rimedio. Io ho visto nella mia pratica qui in Prato le febbri intermittenti appigliarsi ora a questo ora a quello de’ ragazzi d’una povera famiglia, per le ree esalazioni, che s’alzavano da una latrina mal chiusa sottoposta alle finestre. In due famiglie vidi la oftalmia catarrale originarsi e mantenersi ostinata ora in questo ed ora in quello, finchè per i miei consigli non ebbero lasciata una casa umida, e infestata pur essa da simili emanazioni miasmatiche. Più tristo esempio mi offerse un’altra famiglia di braccianti, e non poveri. I due genitori eran sanissimi: ma dappoichè presero ad abitare due vaste stanzaccie, a tramontana fredde umide e buje, ebbero a vedere la loro piccola prole lentamente deformarsi e deperire per il più brutto vizio rachitico.
Simiglianti fatti occupavano seriamente il pensiero de' medici, sì che credo, sentissero veramente aprirsi il cuore a migliori speranze per la salute della povera gente, al pubblicarsi della provvida legge: e v’era chi vi si abbandonava a segno, da credere, che il giorno dopo ogni Comune avrebbe trovato cosa molto agevole, chiamare a se un medico un ingegnere e chi so io, e dir loro: andate visitate e riferite; noi provvederemo. Ma non fu vero!
E il povero non solamente abbisogna di abitazioni salubri; abbisogna anche di alimenti per nutrirsi, di vesti per coprirsi, di lavoro che il sostenti e lo educhi. Io son bene alieno dal rizzare utopie di carta, le quali si smentirebbero di per se nel fatto l’indomani, quando non le smentisse oggi la stessa ragione sociale; io amo il bene vero, vale a dire quello che può praticarsi nella presente società, (al qual’è co’ vizii e le virtù sue, e non fra cento e mille anni in una società ideale. Io spero in quella scintilla di mutua benevolenza, che Dio infuse in ogni cuore bennato, che il Cristianesimo purificò ed accese in vera fiamma di carità, che la civiltà odierna, se vuol essere civiltà vera, dee coltivare di tutta sua possa.
Le ultime calamità pubbliche, che visitarono tanta parte d’Italia, eccitarono ovunque un fermento di carità, che, speriamo, non sarà spento col cessare del morbo cholerico; risvegliarono eletti ingegni alle indagini e discussioni de’ modi migliori del soccorrere e beneficare, indagini e discussioni, che non rimarranno, crediamo, parola morta. Genova, questa madre in ogni tempo felice di magnanimi fatti, ne ha dato il più bello esempio, degno veramente dell’antica regina del Mediterraneo. Ivi infatti si da mano con quel furore, con cui si distruggerebbe il nido d’un efferato nemico, ad atterrare i quartieri malsani, rifugio alla miseria alle malattie e spesso al delitto, e a costruirne de’ nuovi, ove al povero non manchi almeno, quel che la natura non negava neppure a’ bruti, l’aria e la luce. Ivi già innanzi che apparisse il cholera, dame e cittadine si strinsero in pia società, con a capo la moglie del Re Vittorio, non solo per raccorre elemosine a favore del povero, ma anche per andare a distribuirle esse stesse di casa in casa. Venuto il cholera, una gara fraterna si accese tra’ cittadini, uomini e donne, signori e popolani; gara di beneficenze di sacrifizii di eroismi, che sollevava l’anima dalle miserie presenti alle origini pure e divine della umanità e a’ suoi immortali destini. Ah perchè gli uomini, solamente nelle grandi sventure, s’intendono e s’abbraccian fratelli? Ed ora Genova, che non si contentò di provvedere al presente, ma anche all’avvenire, ha in ogni suo quartiere istituite caritatevoli consorterie, le quali per meglio soccorrere e affratellarsi il povero, lo visitano nelle loro case, non solo per isfamarlo o vestirlo, poichè nel gettare un boccone o una veste non istà mica la carità, poichè nel solo pane non vive neanche il povero; ma per confortare e illuminarne lo spirito, e addirizzarlo alla armonia di affetti miti e soavi.
Istituzione simile a questa non è nuova per la mia città, dove la beneficenza è tradizione antica cittadina, nè per altre città della Toscana. Ma perchè il pregiudizio l’ignoranza e la malignità beffarda le muove guerra?
O voi che gridate, senza chetarvi mai, filantropia fratellanza ed uguaglianza, venite, abbassate il capo, entrate in questo tugurio, stringete la mano a questo povero ed onesto popolano, che è tornato a casa senza tanto pane da sfamar la famiglia, consolatelo, dategli una qualche moneta; non basta, promettetegli che ritornerete, che sarà d’ora innanzi per voi come fratello; io vi so dire, che questa è filantropia uguaglianza e fratellanza vera, migliore di quante se ne possano predicare attorno. Lo so, vi fa uggia il nome dell’istitutore, di Vincenzio di Paolo. Ebbene vi dirò una cosa sola: quando sotto il regime di Robespierre, gettato a terra ogni culto di Dio e de’ Santi, s’inaugurò quello solo della Dea Ragione, accanto alla immagine di Socrate di Catone di Colombo di Newton e di altri grandi genii e benefattori dell’umanità, stette in piede venerata e cara pur sempre quella del povero prete di Poy. E che? pretendereste forse d’essere pensatori e riformatori più rigidi d’un Robespierre?
Ed havvi, chi al contrario sogghigna malignamente su’ nomi moderni di filantropia d’uguaglianza di fratellanza, perchè forse non intese mai neanche quello antico di carità che li val tutti; gente che più volentieri si attaccherebbe alla negra tonaca del Gesuita, eppure prende a ombra i candidi e volitanti lini della Suora di carità, di questa famiglia di eroine, beffate dalla insipienza, benedette dalla sventura, e ammirate dalla civiltà, che si fanno trovare in mezzo alle pestilenze, fra le colonie degli emigrati, e su’ campi di battaglia3; gente che tengonsi tanto Cristiani, e sono forse peggiori de’ Turchi, che rimasero recentemente ammirati e commossi, al vedere questi angeli della società Europea attorno a’ letti de’ feriti Francesi. Costoro sogghignino pure: anzi con essi è bene tacere, perchè male si va a chieder loro un pensiero, o un opera buona.
V’è anche, chi si crede sapientissimo a segno da legger ne’ cuori, e dice a chi lo vuol sapere; l’opera è buona e santa, ma l’intenzione è cattiva e falsa; è ambizione, è moda, che guida a ben fare, non impulso di carità. O voi, che scovate sotterra le intenzioni false e cattive (già il Vangelo vel proibisce), ebbene voi che pure e rette le avete, venite, entrate in quest’altro abituro, assistetemi queste povere vite, che si consumano lentamente di fame d’infermità e di dolore; Dio ve ne renderà merito! E siavi concesso anche, che ambizione e moda guidi la gente nuova ad accostare il povero e beneficarlo: noi avremo sempre ragione di crederci migliori de’ nostri vecchi (ch’eran tanto buoni e savii si dice), i quali aveano per moda l’aggiungersi una coda sul di dietro e infarinarsi la testa, e ambivano a’ galloni ed a’ ciondoli sopra ogni usanza moderna.
Stiamo contenti al fatto, per carità, e non badiamo al quia. Parliamoci a viso aperto: anche a me sul primo codesti pensieri sinistri, certe antipatie di persone e di opinioni, davano ombra ed offuscavano la mente, lo confesso. Ma quando a fin d’anno mi fu concesso vedere un numero di famiglie, soccorse di pane carne medicinali vestiario masserizie arnesi da lavoro, d’imprestiti fiduciarii per aiutare mestieri o traffici4, quando mi potei convincere, che in tutto questo moto benefico non entrava comecchessia spirito segreto di partito o di setta, ma unicamente una carità veggente e ordinata, che non s’impone da per se, ma aspetta chi la chiami, che dà, non per levarsi d’intorno il bisognoso, ma per non lasciarlo più, non a fomentar l’ozio e l’accatteria, ma per insegnare e aitare anzi il povero a provveder da se stesso, carità che non lascia rossore e avvilimento, ma riconoscenza e coraggio e fede nel bene, oh allora anch’io imparai benedire a una istituzione figlia d’un uomo, che ben a ragione fu detto il più grande del suo secolo e il primo vero filosofo di sua nazione, una istituzione intesa ad accomunare e affratellare tra loro due grandi classi della umana famiglia, che fin qui guardavansi come nemiche; allora imparai a conoscere, che la prima opinione da tenersi è quella, d’essere uomo fra uomini, cristiano fra cristiani, e il partito migliore quello del beneficare, perchè non avversato mai da reità d’uomini o di tempi.
Forse da qualcuno non troppo a me benevolo si potrà più o meno ridere e motteggiare sulla opportunità e sincerità di queste parole; o forse mi si farà la cortesia di considerarle come vanitosa ostentazione di sentimento. Ma quantunque il sorriso e i motteggi, che i beffardi sogliono mandar dietro, perchè a viso aperto non sanno, sieno cosa vile si per chi la fa, come terribile per chi la riceve, pure chi non è timido amico del vero, dee sapere affrontarli. Ma a’ savii e ben temperati spiriti, se qualcuno di loro mi leggerà, dirò, che queste parole erano spirate al cuore dall’aurea lettera, che Raffaello Lambruschini dirigeva sugli ultimi del decorso anno al Prof. Pietro Betti — sulla necessità e su’ modi di soccorrere i poveri. — Certo che maggiore affetto e sapienza non si potea concludere in cosi brevi pagine, com’era difficile indirizzarle a persona, che in se meglio riunisse le doti della mente e del cuore. Dirò, che facendo eco ancor io, sul terminar del mio scritto, a quegli egregi dettami, sapeva di adempire un altro dovere santissimo del medico, il quale siccome — sentinella della provvidenza presso il tugurio della miseria, — dee tener sempre alto e con mano ferma il vessillo di carità e di beneficenza, perché i popoli accorrano e gli si stringano attorno.
E veramente, dire al povero: bada sai, scegliti case buone e pulite, nutrisciti di cibo sano, copriti bene delle vesti, sta’ di buon animo e allegro, se non vuoi ammalare; e poi non dare opera né spendere una parola, perché chi può raccomodi una casa, lasci un boccone un avanzo di veste a chi non ne ha, procuri lavoro a chi il chiede, per esimersi dalla tirannide dell’ozio e della miseria, pessimi consiglieri; sarebbe lo spregio più atroce che potesse gettarsi in faccia a chi soffre, sarebbe contradizione pessima fra opere e parole, che forse un giorno, Dio sperda per sempre l’augurio, potrebbe sciogliersi in guerra di passioni e di braccia.
- ↑ [p. 94 modifica]Vedi la Legge Toscana del 4 Ottobre 1854.
- ↑ [p. 94 modifica]A Barberino non mancai di proporre e raccomandare la cosa in seno della Commissione Sanitaria: ma credo, malgrado l’approvazione di qualcuno, che la mia proposta volasse subitamente al paradiso di Astolfo, a prender posto tra’ vani desiderii, de’ quali ve ne son pur tanti, come canta l’Ariosto,
«Che la più parte ingombran di quel loco.»
- ↑ [p. 95 modifica]«Forse non havvi nulla di più grande sulla terra, del sacrifizio fatto da un sesso delicato della beltà e giovinezza, spesso dell’alto lignaggio, per soccorrere negli Spedali questi ammassi di tutte miserie, la cui vista è sì umiliante per l’umano orgoglio, e sì schifosa per la nostra delicatezza.» Voltaire, Saggio su’ costumi.
- ↑ [p. 95 modifica]Io mi contenterò di riportare il rendiconto delle somme, erogate dalla Società degli uomini di S. Vincenzio di Paolo in Prato nel decorso anno a benefizio di famiglie povere, sur un’entrata di Lire 2,834.
Rendiconto d’uscita dal 19 Dicembre 1853
a tutto il 31 Dicembre 1854.A soccorsi di pane in libbre 2438. £ 342 2 8 A soccorsi in carne minestre e medicinali » 184 12 4 A spese di vestiario biancheria e masserizie » 802 5 ? A recupero di pegni dal Monte di Pietà. » 148 ? ? A valuta di arnesi per esercizio di mestieri » ??? ? ? A spese per l’istruzione di alcuni ragazzi » ??? ? ? A spese di libri sacri ec. » ??? ? ? A elemosina d’una messa in suffragio d’un povero defunto » ??? ? ? A spese per la ricer??? ???nenti ad una ??? » ??? ? ? Riporto £ 1515 11 - A incoraggiamenti dati a ragazzi patrocinati dalla Società » 42 — - A spese inerenti alla società, stampe, libri, corrispondenza » 139 14 4 A spese per sacre funzioni » 34 — - A spese di suffragio pe’ soci defunti » 13 10 Offerta al consiglio generale di Parigi » 20 — - Offerte inviate a Conferenze in occasione del cholera » 70 — - Alla conferenza di Livorno £ 40 Alla conferenza di Viareggio » 30 A imprestiti fiduciarii fatti a’ poveri patrocinati » 900 17 4 Uscita totale £ 2735 12 8 Resto in cassa £ 99 5 4