Nel Panjâbî e nella valle del Gange era gran numero di siffatti filosofi e anacoreti. Alcuni di essi, saliti più in fama degli altri per la loro virtù e scienza, attiravano in quelle loro solitudini torme di discepoli, desiderosi di mettersi sotto la direzione e la disciplina di santi uomini; ossivvero, questi stessi filosofi andavano, lasciando gli eremitaggi, nelle popolose città, a cercarvi proseliti e a esporvi le loro dottrine. Così nacquero le molte scuole, dove si elaborarono tutti quei sistemi di filosofia, pei quali l’India fu celebre sino dalla remota antichità. Siddhârta fu anch’egli uno di tali uomini. Esso, dopo essere stato discepolo nelle principali scuole brâhmaniche, si ritirò in solitudine ad esempio degli altri anacoreti, per uscirne poi e ritornare al mondo colla fama di virtuoso e di saggio. Ma molto superiore agli altri, o più degli altri fortunato, vide con insperato buon esito estendersi la sua dottrina, e accorrere numerosissimi i discepoli; vide re e brâhmani convertirsi a lui, e i poveri e gli afflitti riconoscerlo per loro salvatore. Nè un tal risultato ottenne egli col mendicare aiuto soprannaturale; nè per farsi credere volle rivestirsi di autorità divina. Egli volle essere un saggio e non un Dio, e il popolo lo chiamò il Buddha, ossia il Sapiente, perchè lo reputò il più dotto degli uomini: e prestò fede alle verità ch’ei diceva, non curandosi che uscissero dalla bocca di un semplice mortale. «Il Buddha, dice il Koeppen,1 è un uomo; niente più che un uomo; non l’incarnazione di qualche essere celeste. La sua sapienza non vennegli dall’alto, nè gli fu rivelata da alcun Dio; ma fu il frutto della sua natura meditabonda e
- ↑ Die Religion des Buddha, t. i, p. 123-124.