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70 | parte prima |
mani stessi, da parte loro, non potevano tutti facilmente dimenticare i vecchi privilegi e la vecchia loro supremazia. Questo prova, fra gli altri, un fatto rammentato da Fa-hsien ne’ suoi viaggi nell’India. Ne’ quali si narra, come nella città di Pâtaliputra, detta anche Patna, vivesse un brâhmano di gran dottrina, seguace della scuola Mahâyana, per nome Lo-tai-tse-pi-mi (Artâ Svâmin?), il quale era tenuto in molta venerazione dal popolo della contrada, e dallo stesso re che lo venerava, come maestro di religione (Guru). Ora questo brâhmano era siffattamente, altero della casta, alla quale apparteneva, che, seguita a narrare Fa-hsien, quando il re, spinto da un sentimento di benevolenza, lo pigliava famigliarmente per mano, egli poi si lavava da capo a’ piedi per purificarsi.1
Oltre alla Scienza e alla Morale, oltre anche alla riforma apportata nella società indiana, quel che distinse il Buddhismo dalle scuole de’ savii brâhmani, fu la costituzione di una comunità religiosa, che prese il nome di Samgha, cioè a dire assemblea o clero. I componenti il clero non erano preti nel senso antico e moderno della parola; non facevano sacrifizii, non celebravano sacramenti, non officiavano ne’ funerali, nè a’ matrimonii, non operavano nulla di comune con la corporazione già esistente dei preti brâhmani. I membri del clero buddhico menavano una vita simile a quella de’ filosofi brâhmani, de’ quali abbiam parlato; se non che, coll’andar del tempo, invece di viversene in eremitaggi separati, presero ad abitare insieme in conventi o Vihâra, come furono chiamati que’ luoghi di comune residenza de’ monaci. Erano chiamati Bikshu o mendicanti, come i frati istituiti da