che, nati di famiglia sacerdotale, pure seguivano altra vocazione che quella de’ parenti, si distinguevano in preti sacrificatori, e in savii o filosofi. I primi accudivano a compiere i sacrificii ne’ templi; officiavano a’ funerali, alle nascite, ai matrimoni; e facevano pure, qualche volta, da profeti, da indovini, da astrologhi, da maestri di scuola, ecc.; avevano moglie ed erano capi di famiglia. I secondi, ossia i filosofi, vivevano per lo più nel celibato; stavansene lontani dal mondo; abitavano nei boschi o in eremitaggi, che si trovavano generalmente nelle vicinanze delle città e di paeselli. La religione di questi filosofi era di un carattere affatto diverso da quella dei preti sacrificatori. Aveva preso la forma d’una dottrina segreta, la quale veniva impartita con mistero ad alcuni discepoli che si recavano ad ammaestrarsi presso quei savii. Tre dogmi principali stavano a fondamento di questa religione: la creazione del mondo, l’esistenza d’uno spirito supremo che invadeva l’universo, e la trasmigrazione delle anime. Il fine, a cui tendevano questi filosofi indiani, era di purificare il loro spirito, liberandolo dalle passioni terrene; rendendosi così superiori al piacere e al dolore, indifferenti a tutto quel che commuove l’animo e il cuore, e degni di godere finalmente le gioie ineffabili e imperiture nel seno del supremo spirito, che penetra e risplende per ogni luogo dell’universo. A tale effetto vivevano temperati e casti, mortificando la carne, e campando di vegetali che essi stessi raccoglievano, o del frutto delle elemosine che i vicini andavano a offrir loro. Tali erano i brâhmani del tempo di Gâutama e di Alessandro Magno.1
- ↑ Wheeler, A Sist. of Ind., iii, p. 66, 70, 83. — Muir, Sanskrit Texts, t. i, cap. iii.