trova altro sollievo che quello di estendere l’immensa noia che lo tormenta, a tutti gli altri uomini. Nulla di tutto questo ci mostrano le scritture buddhiche: il sentimento della infinita vanità del tutto non entrò nel cuore del giovanetto principe per il disgusto, la sazietà, la nausea dei piaceri del mondo, ma nacque in lui nello scorgere quanto fosse grande la infelicità dell’umana progenie. Quale fu, tuttavia, il vero motivo che indusse Siddhârtha a lasciare la reggia e la casa paterna? Fu direttamente all’amore dell’umanità che consacrò sè stesso; ossivvero, spinto da altra cagione ad abbandonare la patria, cercò di confortare l’esilio, meditando i mezzi di sollevare dal dolore i suoi fratelli? Egli è probabile, pensa il Wassiljew, che il principe di Kapilavastu fosse costretto ad allontanarsi dal regno per dissensi sorti nella famiglia dei Çâkya, per inimicizie o per intrighi di corte: o più probabilmente vi fu costretto dagli avvenimenti politici. Anzi a questo proposito è da notare il fatto citato da una leggenda: che, cioè, mentre il Buddha predicava la sua dottrina, il re d’un vicino paese, per nome Virûdhakha, sterminò la stirpe dei Çâkya.1 Ora, se questo
- ↑ Lo zio paterno del Buddha, Amitodana, ebbe un figliuolo chiamato Pându-Çâkya (Mahâvançâ, viii, p. 55): questi due, con altri membri della famiglia dei Çâkya, fuggirono nel tempo, in cui il Buddha viveva ancora, e durante la guerra del re Virûdhakha. Alcuni andarono verso l’Imalaya, dove si stabilirono; e Pându-Çâkya andò all’imboccatura del Gange, dove fondò un nuovo reame. La fuga di Çâkya verso l’Imalaya è narrata nel commentario del Mahâvançâ, ed è tradotta dal Turnour (Introd., p. xxxix). Il re Virûdhakha è probabilmente quel re di Koçala, che i Tibetani chiamano Hphhags-skyes-po. Questi attaccò sovente i Çâkya, saccheggiò e distrusse Kapilavastu, e ne mise a morte molti abitanti; alcuni di essi si rifugiarono nel Napal; uno per nome