Discorso sulla origine e sull'ufficio della letteratura

Ugo Foscolo

XIX secolo Indice:Opere scelte di Ugo Foscolo I.djvu Discorsi letteratura Discorso sulla origine e sull'ufficio della letteratura Intestazione 22 settembre 2009 75% Discorsi

Lettera di G. F. a G. P. Lezioni di eloquenza
Questo testo fa parte della raccolta Scelte opere di Ugo Foscolo


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DISCORSO


SULLA ORIGINE E SULL’UFFICIO


DELLA


LETTERATURA





I. Solenne principio agli studi sogliono essere le laudi degli studi; ma furono soggetto sì frequente all’eloquenza de’ professori e al profitto degl’ingegni, che il ritesserle in quest’aula parrebbe consiglio ardito ed inopportuno. Nè io, che per istituto devo oggi inaugurare tutti gli studi agli uomini dotti che li professano, e ai giovani che gl’intraprendono, saprei dipartirmi dalle arti che chiamansi letterarie, le sole che la natura mi comandò di coltivare con lungo e generoso amore, ma dalle quali la fortuna e la giovanile [p. 28 modifica]imprudenza mi distoglieano di tanto, che io mi confesso più devoto che avventurato loro cultore. Bensì reputai sempre che le lettere siano annesse a tutto l’umano sapere come le forme alla materia, e considerando quanto siasi trascurata o conseguita la loro applicazione, m’avvidi che se difficile è l’acquistarle, difficilissimo è il farle fruttare utilmente. Sciagura comune a tanti altri beni e prerogative di cui la natura dotò la vita dell’uomo per consolarla della brevità, dell’inquietudine e della fatale inimicizia reciproca della nostra specie; beni e prerogative che spesso si veggono posseduti, benchè raro assai, da chi sappia o valersene o non abusarne. Gli annali letterari e le scuole contemporanee ci porgono documenti di città e di uomini doviziosi d’ogni materia atta a giovevoli e nobili istituzioni di scienze e di lettere, ma sì poveri dell’arte di usarne, che o le lasciano immiserire con timida ed infeconda avarizia, o le profondono con disordinata prodigalità. Onde, opportuno a tutte le discipline e necessario alle letterarie credo il divisamento di parlare dinanzi a voi, Reggente magnifico, Professori egregi e benemeriti delle scienze, ingenui giovani che confortate di speranze questa patria, la quale ad onta delle avverse fortune, fu sempre [p. 29 modifica]nudirce ed ospite delle muse, di parlare oggi dinanzi a voi tutti, gentili uditori, dell’Origine e dell’Ufficio della Letteratura.

II. Però ch’io stimo che le origini delle cose, ove si riesca a vederle, palesino a quali uffici ogni cosa fu a principio ordinata nella economia dell’universo, e quanto le vicende de’tempi e delle opinioni n’abbiano accresciuto l'uso e l'abuso. Onde sembrami necessario di investigare nelle facoltà e nei bisogni dell’uomo l’origine delle lettere, e di paragonare se l’uso primitivo differisca in meglio o in peggio dagli usi posteriori, e quindi scoprire, per quanto si può, come nella applicazione delle arti letterarie s’abbia a rispondere all’intento della natura. All’intento della natura chè ella, e non dà mai facoltà senza bisogni, nè bisogni senza facoltà, nè mezzi senza scopo; e non dissimula talvolta l’ingratitudine e i capricci degli uomini, se non se per ritrarli a pentimento, scemando loro l’utile e la voluttà nelle cose che l’orgoglio di quei miseri si arroga a correggere. E stimo inoltre che non ad altro uomo i pregi e i frutti di un’arte evidentemente appariscano, se non a chi sappia quali ne sieno i doveri, e quanto richieggasi ad adempierli virilmente, e come influiscano alla [p. 30 modifica]propagazione dell’universo sapere, in che tempi e in che mordi giovino alla vita civile. Allora gl’ingegni si accosteranno alle scuole, non tanto con inconsiderato fervore, quanto con previdenza delle difficoltà, degli obblighi e dei pericoli; allora l’ardire magnanimo sarà affidato dalla prudenza che misura le proprie forze; allora le forze non saranno consunte in pomposi esperimenti, ma dirizzate a volo determinato e sicuro; allora, o giovani, conoscerete che il guiderdone agli studi, la celebrità del nome e l’utilità della vostra patria sono connesse alla dignità ed a’progressi dell’arte da voi coltivata. Ma se di egregio profitto è il soddisfare agli uffici delle arti, l’inculcarli sarà sempre e di sommo pericolo e d’incertissimo evento; e più assai, se come avviene nella letteratura, la dimenticanza e la impunità vietino che sieno riconosciuti e obbediti. E a chi tenta di rivendicarli è pur forza di affrontare molte celebrate opinioni ed usanze santificate dal tempo, e fazioni di auliche scuole, e l’autorità di que’tanti, che senza essersi sdebitati degli obblighi delle lettere, si presumono illustri e sicuri perchè le posseggono.

III. Te dunque invoco, o amore del vero! tu dinanzi all’intelletto che a te si consacra, [p. 31 modifica]spogli di molte ingannatrici apparenze le cose che furono, che sono e che saranno; tu animi di fiducia chi ti sente; nobiliti la voce di chi ti palesa; diradi con puro lume e perpetuo la barbarie, l’ignoranza e le superstizioni; te, senza di cui indarno vantano utilità le fatiche degli scrittori, indarno sperano eternità gli elogi dei principi ed i fasti delle nazioni: te invoco, o amore del vero! Armami di generoso ardimento, e sgombra ad un tempo l’errore di cui le passioni dell’uomo, o i pregiudizi del mio secolo m’avessero preoccupato l’animo. Fa che s’alzi la mia parola libera di servitù e di speranze, ma scevra altresì di licenza, d’ira, di presunzione e d’insania di parti. La tua inspirazione, diffondendosi dalla mente mia nella mente di quanti mi ascoltano, farà sì che molti mirino più addentro e con più sicurezza ciò ch’io non potrò forse se non se veder da lontano, ed incertamente additare. Che s’io, seguendo te solo, non potrò dir cosa nuova, perchè tu se’antico e coevo della natura, la quale tu vai sempre più disvelando al guardo mortale, mostrami almeno la più schietta delle sue forme; moltiplici forme, che, or velate d’oscurità, or cinte di splendore, sconfortano spesso ed abbagliano chi le mira. [p. 32 modifica] IV. Ogni uomo sa che la parola è mezzo di rappresentare il pensiero; ma pochi si accorgono che la progressione, l’abbondanza e l’economia del pensiero sono effetti della parola. E questa facoltà di articolare la voce applicandone i suoni agli oggetti, è ingenita in noi, e contemporanea alla formazione dei sensi esterni e delle potenze mentali, e quindi anteriore alle idee acquistate da’ sensi e raccolte dalla mente; onde quanto più i sensi s’invigoriscono alle impressioni, e le interne potenze si esercitano a concepire, tanto gli organi della parola si vanno più distintamente snodando. Che le passioni e le immagini nate dal sentire e dal concepire o si rimarrebbero tutte indistinte e tumultuanti, mancando di segni che nell’assenza degli oggetti reali le rappresentassero, o svanirebbero in gran parte per lasciar vive soltanto le pochissime idee connesse all’istinto della propria conservazione, ed accennabili appena dall’azione o dalla voce inarticolata. Il che si osserva negli uomini muti, i quali non conseguono nè ricchezza, nè ordine di pensieri che non siano richiesti dalle supreme necessità della vita, se non quando ai segni della parola articolata riescano a supplire coi segni della parola scritta. E un segno [p. 33 modifica]solo della parola fa rivivere l’immagine tramandata altre volte da’ sensi e trascurata per lunga età nella mente; un segno solo eccita la memoria a ragionare d’uomini, di cose, di tempi che pareano sepolti nella notte ove tace il passato. Il cuore domanda sempre o che i suoi piaceri sieno accresciuti, o che i suoi dolori sieno compianti; domanda di agitarsi e di agitare, perchè sente che il moto sta nella vita e la tranquillità nella morte; e trova unico aiuto nella parola, e la riscalda de’suoi desideri, e la adorna delle sue speranze, e fa che altri tremi al suo timore e pianga alle sue lacrime, affetti tutti che senza questo sfogo proromperebbero in moti ferini e in gemito disperato. E la fantasia del mortale, irrequieto e credulo alle lusinghe di una felicità ch’ei segue accostandosi di passo in passo al sepolcro, la fantasia, traendo dai segreti della memoria le larve degli oggetti, e rianimandole con le passioni del cuore, abbellisce le cose che si sono ammirate ed amate; rappresenta piaceri perduti che si sospirano; offre alla speranza, alla previdenza i beni e i mali trasparenti nell’avvenire; moltiplica ad un tempo le sembianze e le forme che la natura consente alla imitazione dell’ [p. 34 modifica]uomo; tenta di mirare oltre il velo che ravvolge il creato: e quasi per compensare l’umano genere dei destini che lo condannano servo perpetuo ai prestigi dell’opinione ed alla clava della forza, crea le deità del bello, del vero, del giusto, e le adora; crea le grazie e le accarezza: elude le leggi della morte, e la interroga e interpreta il suo freddo silenzio: precorre le ali del tempo, e al fuggitivo attimo presente congiunge lo spazio di secoli e secoli ed aspira all’eternità: sdegna la terra, vola oltre le dighe dell’oceano, oltre le fiamme del sole, edifica regioni celesti, e vi colloca l’uomo e gli dice: Tu passeggerai sovra le stelle; così lo illude, e gli fa obliare che la vita fugge affannosa e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno; e lo illude sempre con l’armonia e con l’incantesimo della parola. La ragione che avvertita continuamente delle alterne oscillazioni del piacere e del dolore, equilibra e dirige per mezzo del paragone e della esperienza tutte le potenze della vita, ove fosse destituta della parola, non sarebbe prerogativa dell’uomo; ma, come negli altri animali, ridurrebbesi all’istinto di misurare i beni ed i mali imminenti con la norma delle [p. 35 modifica]sensazioni1. Fuggono ai sensi le forme reali e le sostanze degli oggetti, nè si discernerebbe il vero dal falso, nè si bilancerebbe il vantaggio apparente col danno nascosto, se non si oltrepassassero l’esterne sembianze, le sole ad ogni modo che i sensi possono imprimere nella mente. Quindi la ragione al difetto d’immagini acquisite provvide co’ segni della voce, inventati ne’primi bisogni dall’arbitrio dell’analogia, poi migliorati dall’esperienza e sanciti dalla utilità. Cosi, poiché furono idoleggiate con simboli e con immagini molte serie di fatti, si desunsero le idèe del dovere e del diritto, ma come raffigurarle in tanto tumulto di reminiscenze, di passioni e di fantasmi annessi [p. 36 modifica]a quei fatti? Come astraerle e preservarle se non con un segno stabile ed arrendevole alle astrazioni? E qual altro segno se non la parola? Tesoro di suoni, di colori e di combinazioni, per cui l’intelletto, dopo d’avere percepite e denotate le forme sensibili delle cose, può congetturarne e concepirne le più recondite, e denominarle e scomporle in minime parti, e considerarle in tutti i loro accidenti, e ricomporle nell’armonia che dianzi non intendeva: onde spesso ne vede le cause e talvolta lo scopo, e resta men attonito e più convinto dell’arcana ragione dell’universo: dell’incomprensibile universo, dell’esistenza di cui mancherebbe perfino la semplice idea, se come l’uomo non può comprenderlo, così non potesse nemmen nominarlo.

V. Or questo bisogno di comunicare il pensiero è inerente alla natura dell’uomo, animale essenzialmente usurpatore, essenzialmente sociale: però ch’ei tende progressivamente ad arrogarsi e quanto gli giova e quanto potrebbe giovargli; all’uso presente aggiunge l’uso futuro e perpetuo, quindi la proprietà e la disuguaglianza: nè vi poteva a principio essere proprietà perpetua di cose utili agli altri, senza usurpazione; nè progresso d’usurpazione, [p. 37 modifica]senza violenza ed offesa; nè difesa contro ai pochi forti, senza società di molti deboli; nè lunga concordia di società, senza precisa comunicazione d’idee. E finchè l’umano genere associavasi in famiglie e in sole tribù, angusti termini somministrava la terra, angustissimi il tempo alle sue conquiste e ai suoi patti, e poche articolazioni di voce bastavano all’uso ed alla memoria. Frattanto la forza col suo mal dissimulato diritto e col perenne suo moto agl’ingegni audaci per vigore aggregava gl’ingegni timidi per debolezza, e col numero dei vinti rinforzava la possanza del vincitore: le tribù cresceano in nazioni, e si collegavano sempre più onde accertare per mezzo dello stato di società e di proprietà gli effetti dello stato di guerra e di usurpazioni; e il commercio si andò propagando, e nel permutare da popolo a popolo le messi, le arti e le ricchezze, accumulò i vizi, le virtù, gli usi, le religioni, le lingue degli uni con quelle degli altri, disingannò il timore reciproco, destò la curiosità d’ignote regioni, ed alimentò così la noia e l’avidità, due vigili instigatrici del genere umano; l’una esagerando il fastidio del presente, l’altra le speranze dell’avvenire, trassero le genti dalle [p. 38 modifica]antiche sedi natie attraverso delle infecondità, delle solitudini e delle tempeste dei mari, a cercar nuovi regni, nuovi schiavi, ed agitare con nuove stragi, con nuove superstizioni, con nuove favelle la terra. Questo urtarsi, complicarsi e diffondersi di forze d’indoli e di idiomi, occupando più moltitudine d’uomini, più diuturnità di fatiche, più ampio spazio di terra, e quindi più numero d’anni, moltiplicò non solo le idee e le passioni che ne risultano, ma variò all’infinito i loro aspetti e le loro combinazioni, ed aumentò la progressione del loro moto che non poteva essere più ormai secondato dal suono fuggitivo della parola.

VI. Le forze parziali di una società, incorporate dagli effetti della guerra, tendeano sempre a’primi contrasti per cui non avrebbero potuto assalire le forze più concordi di altra nazione; ogni individuo dunque rinunziando col fatto l’uso delle sue forze al valore del più prode o al senno dei più avveduti, videsi punito quando le ridimandò o le ritolse; quindi l’origine delle leggi: così la giustizia eresse carceri, tribunali e patiboli in mezzo ad un popolo per conservargli la forza, e quindi il diritto di combattere un altro. Ma perchè le passioni de’soggetti poteano [p. 39 modifica]rivendicare le loro forze dalla giustizia o dall’arbitrio di chi ne usava, i pastori dei popoli compresi anch’essi dal sentimento dell’esistenza d’una mente infinita, attiva, incomprensibile al pari dell’universo, si valsero di questo sentimento che vive in ogni uomo, e confederandosi al cielo minacciarono di difendersi co’ suoi fulmini; le menti, affascinate dal terrore di peggior male e dalla speranza di futuro compenso, s’assopirono sul danno presente; il mistero accrebbe il silenzio, e il silenzio la venerazione; le leggi furono santificate e deificati i legislatori; quindi l’origine de’ riti. Finalmente i principi per eternare la loro fama e la loro possanza ne’ lor successori, e i popoli per disanimare le altre nazioni che l’alterno moto della forza trarrebbe ad imporre o a pagare tributo, vollero narrare alla posterità e alle lontane regioni le loro glorie, e l’onnipotenza de’ loro numi; quindi le tradizioni. Dalle leggi, dalle religioni e dalle tradizioni progredì ogni umano sapere; che se non pertanto continuavano a commettersi al suono delle parole, non poteano propagarsi che a poche generazioni; da che l’età rende inferma la memoria, ambigue le lingue, ed infedeli le tradizioni. Ma il vincitore, troncando con [p. 40 modifica]le scuri grondanti di sangue e rotolando sovra i cadaveri de’ vinti i ciglioni delle montagne, lascia un monumento che attesti agli uomini che vivono e che vivranno in futuro, il campo della vittoria. I cedri verdeggianti sovra le sepolture, effigiati dalla spada in simulacri d’uomo, sorgono da lontano custodi della memoria di egregi mortali; e a’ tronchi corrosi dalle stagioni, sottentrano ruvidi marmi ove nel busto informe dell’eroe sono scolpite imitazioni di fiere e di piante, a ciascheduna delle quali, e alle loro combinazioni sono consegnate più serie d’idee che tramandano il nome di lui, le conquiste, le leggi date alla patria, il culto istituito agli iddii, gli avvenimenti, le epoche, le sentenze, e l’apoteosi che l’associò al coro de’ beati: così prime are degl’immortali furono i sepolcri2. Se non che, oltre alle guerre e alle pesti che lasciando solitudine e scheletri nelle città, distruggevano e abbandonavano alla dimenticanza que’ monumenti, la natura inondò parte del globo e sommerse genti e trofei; anzi ardendo le viscere della terra, e la terra fremendo orribilmente e agitandosi, vomitò fiamme e si squarciò, e i laghi ondeggiarono sulle ceneri delle foreste, [p. 41 modifica]e le montagne spalancarono abissi, e i fiumi precipitarono ove dianzi l’aquila ergeva il suo volo, e l’isole disparvero, e svelti i continenti, furono cinti dalle procelle e dagl’intentati spazi del mare. Ma l’uomo restava. Dalle reliquie dei suoi monumenti desunse esempio di accrescerli e di premunirli; ed avvedutosi che la terra anch’essa era obbediente e mortale, li confidò al cielo che sembravagli eterno. Pria che Teuto3 esplorasse l'ordine delle stelle, e che l'osservazione congiuntasi per cinquanta e più secoli al calcolo, assegnasse le distanze non solo tra i pianeti del [p. 42 modifica]nostro emisfero, ma le forze e le perturbazioni de’loro moti, il pastore, salutando col canto l’apparire di quel pianeta bellissimo tra gli astri, che segue tardo il sole all’occaso e lo precede vigile nell’oriente, avvertiva i momenti delle tenebre e della luce; l’immobilità della stella polare guidava tra l’ombre la vela del navigante; la luna col perpetuo ricorso d’una notte più consolata dal suo lume distinse i mesi, e rifrangendosi ne’vapori e nell’aura, presagiva le meteore maligne e propizie; e il sole, abbreviando l’oscurità che assiderava la terra, e rallegrando con raggi più liberali l’amor nei viventi e la beltà nelle cose, diè con l’equinozio di primavera i primi auspicii alle serie degli anni. Al cielo dunque, che col moto perenne dei suoi mondi dipensava il tempo alle umane fatiche e promettevalo eterno, fu raccomandata la tradizione delle leggi, de’riti, delle conquiste, e la fama de’primi artefici e dei principi fortunali. I pensieri del mortale ch’ebbero dalla parola propagazione e virtù, trovandosi incerti nella memoria di lui, e caduchi nei monumenti terreni, conseguirono perpetuità nel vario splendore, nel giro diverso, negli orli e negli occasi degli astri, e nelle infinite apparenze con cui le stelle tutte quante [p. 43 modifica]erano ordinate e distinte nel firmamento; e la scienza dei tempi ordinò la scienza de’fatti. Assai nomi ed avvenimenti scritti nelle costellazioni, benchè trapassassero per densissima oscurità di tempi, sopravvivono forse ad imperii meno antichi, i quali per non avere lasciato il loro nome se non sulla terra, diedero al silenzio anche il luogo delle loro rovine. Sapientemente dunque fu detto: Essere il globo celeste il libro più antico di letteratura4.

VII. Oh quanti mi si presentano i campi fecondali da un unico germe! e come nel percorrerli ammiro i principii del creato che procedono acquistando sempre propagazione ed aspetti, nè si propagano senza tenore di armonia che li ricongiunga, nè si trasformano senza serbare vestigi delle origini antiche! Perdono le scienze i loro calcoli per numerare [p. 44 modifica]con quanti anni di sudore, con quanta prepotenza d’oro e d’imperio, con quanta moltitudine di mortali la piramide di Ceope5, sorgesse quasi insulto all’ambizione e di Cambise e d’Alessandro e dell’astutissimo Augusto, e del più ferocemente magnanimo tra i discendenti d’Ottomano, e di quanti trionfarono e trionferanno d'Egitto6: i Romani e l’oriente videro ed adorarono in Grecia le sembianze immortali di Giove trasferite dall’Olimpo in terra da Fidia: Michelangiolo e Rafaele astraendo dalla commista ed inquieta materia le forme più nobili e le più venuste apparenze, ed animandole e perpetuandole nelle tele e nei marmi, consecrarono in Italia un’ara alla bellezza celebrata dalle offerte di tutta l’Europa; e l’innalzamento delle piramidi, e la divina ispirazione di Fidia, e il genio [p. 45 modifica]delle arti belle ebbero principio da’ que’ rudi massi, da quegl’informi simulacri, da quei disegni ineleganti de’ geroglifici, che pur non tendevano se non a far permanenti i suoni della parola. Ma e la religione più solenne nel mondo, e la più arcana sapienza, e la più bella poesia ebbero principio da questo medesimo intento. Però che il firmamento istoriato dalle memorie de’ mortali, fatti abitatori degli astri, non era più ormai spettacolo di muto stupore, ma quasi sentisse gli affetti dell’uomo, ripercotea nelle menti mille immagini, le quali animate dal timore e dalla speranza, popolarono di numi, di ninfe e di genii la terra. Perchè le conquiste e le colonie accomunando ai popoli le religioni, veniva ogni nume invocato, in più lingue assumeva differenti attributi, e moltiplicavasi in più deità diverse tra loro. Onde la luna, emula del sole nelle prime adorazioni degli uomini, era Arstarte a’ Fenici7, e Dione agli Assirii8 ed Iside e Bubaste agli Egizi9 poi di regina celeste degl’imperi ottenne in Grecia e [p. 46 modifica]nel Lazio tanti nomi o riti ed allori quant’erano le umane necessità. Le vedove sedenti sul sepolcro de’figli offerivano alla luna corone di papaveri e lagrime, placandola col nome di Ecate10: a lei, chiamandola Trivia, ululavano nelle orrende evocazioni le pallide incantatrici11: a lei, chiamandola Latmia, si volgeano le preci del pellegrino notturno e del romito esploratore degli astri12: a lei gli occhi verecondi e il desiderio della vergine innamorata13: a lei che rompea col suo raggio le nuvole, fu dato il nome di Artemide, e i primi nocchieri appendeano nel suo tempio dopo la burrasca il timone, cantandola Diana dea de’porti e delle isole mediterranee, cantandola Delia guidatrice delle vergini occanine14; a lei sull’ara di Dittinna votavano i cacciatori l’arco, la preda e la gioia delle danze15; e l’inno di Pindaro la salutò Fluviale16; la seguiano le [p. 47 modifica]Parche, ministre dell’umana vita17; la seguiano le Grazie quando scendeva agli auspicii dei talami18; e dalle spose fu invocata Gamelia, e Ilitia dalle madri19, e Opi20, e Lucifera21, e Diana madre22, e Natura23. Videro i saggi che la tutela degli Iddii su tutti gli oggetti del creato, e la consuetudine col cielo ammansava nell’uomo la ferina indole e l’insania di guerra, e lo ritraeva all’equità de’civili istituti; onde ampliarono la religione con l’eloquenza e la mantennero col mistero. Però le arti della divinazione e dell allegoria furono sì celebrate in tutta l’antichità, e tanti a noi tramandarono testimoni ne’ poemi e negli annali e monumenti, che da quelle arti soltanto la critica, dopo di avere interpretato con induzioni il silenzio delle età primitive, potrà progredire con più fiducia nell’istoria letteraria de’secoli che seguirono. Imperciocchè, ossia che i Babilonesi fossero dagli Etiopi iniziati negli arcani della [p. 48 modifica]astronomia teologica, quando l’alterno dominio d’ogni nazione sul mondo diè all’Affrica di popolare l’Asia di sacerdoti e di eserciti; o sia che que’riti fossero istituzioni di Zoroastro, desunte dagli Sciti o dalla magia de’Caldei, e propagatesi poi con la possanza di Nino; o più veramente, emanassero dal limpido cielo e dall’ingegno acuto degli Egizii mediterranei, e quindi venissero con Inaco in Grecia e con Pittagora nei templi d’Italia; certo è che le storie de’popoli i quali nobilitarono gran parte del nostro emisfero, mentre pur vanno magnificando i proprii numi quasi coevi del mondo e primi benefattori del genere umano, tutte non per tanto palesano le loro città fondate da re pontefici, e persuase alla umanità dagli studi de’poeti filosofi24. Da quei popoli e da quegl’istituti, per lungo ordine di usi, d’idiomi e d’imperi, sovente degenerando e più sovente a torto accusate, le lettere si propagarono sino a noi.

VIII. Ed ecco omai manifestato che senza la facoltà della parola, le potenze mentali [p. 49 modifica]dell’uomo giacerebbero inerti e mortificate, ed egli privo di mezzi di comunicazione necessari allo stato progressivo di guerra e di società, confonderebbesi con le fiere. Donde è poi risultato che non vi sarebbero società di nazioni senza forza, nè forza senza concordia, nè stabilità di concordia senza leggi convalidate dalla religione, nè lunga utilità di riti e di leggi senza tradizione, nè certezza di tradizione senza simboli dai quali il significato della parola impetrasse lunghissima vita. E poichè l’esperienza delle pesti, de’diluvi, de’vulcani e de’terremoti, fe che i simboli consegnati a’tumuli, a’simulacri ed a’geroglifici fossero trasferiti alle apparenze degli asterismi, noi abbiamo veduta riprodursi dal cielo la religione dei grandi popoli dell’antichità, e fondarsi la teologia politica per mezzo della divinazione e dell’allegoria. Le quali arti esercitate da’principi, da’sacerdoti e da’poeti, diedero origine all’uso ed all’ufficio della letteratura.

IX. Quali siano i principii e i fini eterni dell’universo, a noi mortali non è dato di conoscerli nè d’indagarli: ma gli effetti loro ci si palesano sempre certi, sempre continui: e se possiamo talor querelarcene, troviamo sovente nella nostra esperienza compensi di consolazione. L’umano [p. 50 modifica]genere turba coi timori la voluttà dell’ora che fugge, o la disprezza per le speranze che ingannano; si duole della vita, e teme di perderla, e anela di perpetuarla, morendo: ondeggiamento perenne di speranze e di timori, agitato ognor più dall’impeto del desiderio e dagli allettamenti della immaginazione. Cosi piacque alla natura che assegnò l’inquietudine alla esistenza dell’uomo, il quale aspira sempre al riposo appunto perchè non può mai conseguirlo; però languendo le passioni, ritardasi il moto delle potenze vitali; cessato il moto, cessa la vita; ed ogni nostra tranquillità non è che preludio del supremo e perpetuo silenzio. E ben possono starsi e stanno (pur troppo!) nei forsennati, passioni senza ragione, ma la ragione senza affetti e fantasmi, sarebbe facoltà inoperosa; e ogni filosofia riescirà sublime contemplazione a chi pensa, utile applicazione a chi può volgerla in prò de’mortali, ma inintelligibile e ingiusta a chi sente le passioni che si vorranno correggere. Aggiungi che come non a tutti la natura fu equa dispensatrice di forze, così non gli armò con pari vigor di ragione25; e senza sì fatta [p. 51 modifica]disuguaglianza e cecità di giudizio, qual bene reale indurrebbe gli uomini a legarsi in società per combattersi? a insanguinarsi scambievolmente per possedere la terra abbondantissima a tutti? e qual bene più caro della pacifica lilibertà? Ma per decreti immutabili l’universalità de’mortali non può essere nè quieta nè libera. Incontentabile ne’desideri, cieca nei modi, dispari nelle facoltà, dubbiosa sempre e le più volte sciagurata negli eventi, non potea se non eleggere il minor danno, rinunziando la guida delle sue passioni alla mente de’saggi o all’imperio del forte. Quindi il genere umano dividesi in molti servi che tanto più perdono l’arbitrio delle loro forze, quanto men sanno rivolgerle a proprio vantaggio, ed in pochi signori che fomentando co’timori e co’premi della giustizia terrena, e con le promesse e le minacce del cielo le passioni degli altri, hanno arte e potere di promuoverle a pubblica utilità.

X. Elementi dunque della società furono, sono, e saranno perpetuamente il principato e la religione; e il freno non può essere [p. 52 modifica]moderato se non dalla parola che sola svolge ed esercita i pensieri e gli affetti dell’uomo. Ma perchè quei che amministrano i frutti delle altrui passioni sono uomini anch’essi, e quindi talvolta non veggono la propria nella pubblica prosperità, la natura dotò ad un tempo alcuni mortali dell’amore del vero, della proprietà di distinguerne i vantaggi e gl’inconvenienti, e più ancora dell’arte di rappresentarlo in modo che non affronti indarno, nè irriti le passioni dei potenti e dei deboli, nè sciolga inumanamente l’incanto di quelle illusioni che velano i mali e la vanità della vita. Ufficio dunque delle arti letterarie dev’essere e di rianimare il sentimento e l’uso delle passioni, e di abbellire le opinioni giovevoli alla civile concordia, e di snudare con generoso coraggio l’abuso e la deformità di tante altre che adulando l’arbitrio de’pochi o la licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli stati al terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruenti degli ambiziosi e alla invasione degli stranieri. E appunto nell’origine della letteratura, quando ella emanava dalla divinazione e dall’allegoria, vediamo contemporanee al potere dello scettro e degli oracoli la filosofia che esplora tacita il vero, la ragione [p. 53 modifica]politica che intende a valersene sapientemente, e la poesia che lo riscalda cogli affetti modulati dalla parola, che lo idoleggia coi fantasmi coloriti dalla parola, e che lo insinua con la musica della parola. Cantavano Lino ed Orfeo che i monarchi erano immagine in terra di Giove fulminatore, ma che doveano osservare anche essi le leggi, poiché il padre degli uomini e dei celesti obbediva all’eterna onnipotenza de’Fati. Cantavano la vendetta contro Alteone e Tiresia che mirarono ignude le membra immortali di Diana e di Pallade nei lavacri, per atterrire chi s’attentasse di violare gli arcani del tempio; ma distoglieano ad un tempo dai terrori superstiziosi le genti, rammentando nelle supplicazioni agli iddii che anch’essi pur furono un tempo e padri ed amanti ed amici, e che soccorressero alle umane necessità, da che aveano anch’essi pianto e sudato nel loro viaggio terreno. Tutte le nazioni esaltando il loro Ercole patrio, ripeteano con quante fatiche egli avesse protetti dagl’insulti delle umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra, quei primi mortali che la certezza della prole, delle sepolture e dei campi, e lo spavento delle folgori e delle leggi aveano finalmente rappacificati; e quegl’inni accendeano i [p. 54 modifica]condottieri alla gloria, e i combattenti al valore. Fumavano le viscere palpitanti delle vergini e dei giovanetti su l’are, perchè i popoli nella prima barbarie libano al cielo col sangue innocente e coi teschi; ma i simulati consigli d’Egeria al pio successore di Romolo, e la frode della cerva immolata sotto le sembianze d’Ifigenia, placarono ne’ templi della Grecia e del Lazio il desiderio di vittime umane. Sovente ancora la metafisica delle scienze si ornò dell’allegoria per idoleggiare le idee che non arrendendosi ai sensi, rifuggono dall’intelletto. Credevano i savi antichissimi che l’attrazione della materia avesse a principio combinate, e propagasse in perpetuo le forme ed il moto degli enti; e narrarono che nel caos e nella notte nascesse Amore, figlio e ministro di Venere, di quella deità ch’era simbolo della natura. Credevano che l’acqua, il fuoco, l’aere, la terra fossero elementi del creato; e i poeti cantarono Venere nata dall’onde voluttà di Vulcano, abitatrice dell’etere, animatrice di tutta la terra. Ma poichè le allegorie vennero adulterate dall’orgoglio dei potenti, dalla ignoranza del volgo, dalla venalità dei letterati, le scienze si vergognarono della poesia, e si ravvolsero tra i misteri dei loro numeri; e Venere fu meretrice e plebea, sposa di [p. 55 modifica]quanti tiranni vollero essere numi, genitrice di quanti numi abbisognavano a’sacerdoti, ministra di quante immaginazioni conferivano alle laide allusioni degli artefici e dei cantori, ed esempio di quanti vizi effeminavano le repubbliche. E voi frattanto, o retori, ricantate boriosamente le favole, unica supellettile delle vostre scuole, senza discernere mai le loro severe significazioni; e i nostri Catoni le attestano per esercitare la loro censura contro le lettere; e gli scienziati ne ridono come di sogni e d’ambagi; e i più discreti compiangono quel misero fasto di fantasmi e di suoni. Ma pur nel sommo splendore della greca filosofia, Platone vide tra quelle favole i principii del mondo civile26. E mentre il genio de’Tolomei richiamava in Egitto le scienze e le lettere onde restituirle alla Grecia spaventata dai trionfi di Alessandro, Maneto pontefice egizio ed astronomo insigne, fondò su quelle favole la teologia naturale27. E Varrone, maestro de’più dotti Romani, diseppelliva da quelle favole gli annali obliati d’Italia28. E Bacone di [p. 56 modifica]Verulamio, meditando di rivendicare alla filosofia l’umano sapere manomesso dall’arguzia degli scolastici, chiese norme alla natura, e le trovò in quelle favole pregne della sapienza morale e politica de’primi filosofi29. Per esse il Vico piantò vestigi verso le sorgenti dell’universa giurisprudenza, ed acquistava primo la meta, se la contemplazione del mondo ideale non l’avesse talor soffermato, e se la povertà, compagna spesso de’grand’ingegni non precedeva il suo corso30. Per esse e dai loro simboli fu dal Bianchini desunta un’istoria universale, di cui l’Italia non seppe in cent’anni nè profittare nè gloriarsene31; ma che fu seme in terra straniera all’istoria filosofica delle religioni, egregio libro, quantunque alla ragione di quei principii bastasse men pertinacia di sistema, ed eloquenza più riposata e più parca32.

XI. Odo rispondere, che la teologia legislatrice e la poesia storica si dileguarono con le opinioni e con l’età per cui nacquero, e che [p. 57 modifica]le scienze essendosi rivendicato il diritto d’illuminare la mente, alle arti letterarie non resta che l’ufficio di dilettarla. È vero: il tempo trasforma il creato; ma il tempo non può distruggere nè un atomo dell’universo: e voi tutti che derivate le vostre sentenze dalle mutazioni degli anni, ed i vostri diritti dalle distinzioni dei nomi, avvertite che l’essenza delle cose non muore se non con esse, e che se talvolta possono sembrare impedite, non perciò sono sviate dalle loro tendenze. Non vive più forse nell’uomo il bisogno di rendere con le parole facile all’intelletto ed amabile al cuore la verità? qual taciturna contemplazione può apprendere ed insegnare questo nostro sapere che ci fa sempre più superbi e più molli? le nostre passioni hanno forse cessato d’agire, o le nostre potenze vitali hanno cangiata natura? e le scienze morali e politiche, che prime ed uniche forse influiscono nella vita civile, perchè sole possono prudentemente giovarsi delle scienze speculative e dell’arti, a che prò tornerebbero se ci ammaestrassero sempre co’sillogismi e coi calcoli? L’uomo non sa di vivere, non pensa, non ragiona, non calcola se non perchè sente; non sente continuamente se non perchè immagina; e non può nè sentire, nè [p. 58 modifica]immaginare senza passioni, illusioni ed errori. La filosofia non cambia che l’oggetto delle passioni; e il piacere, il dolore sono i minimi termini d’ogni ragionamento. Quindi la verità, quantunque d’un aspetto solo ed eterno, appare moltiforme e indistinta al nostro intelletto, perchè noi dovendo incominciare a concepirla coi sensi, e a giudicarla con l’interesse della sola nostra ragione, la vestiamo di tante e sì diverse sembianze, e le sembianze di tanti accidenti, quante sono le disparità de’climi, dei governi, delle educazioni, e de’nostri individuali caratteri; onde anche le cose men dubbie sono assai volte mirate dai saggi con mente perplessa, e dagli altri tutti con occhio incredulo ed abbagliato. E nondimeno il mortale non si affanna d’errore in errore, se non perchè travede in essi la verità ch’ei cerca ansiosamente, conoscendo che le tenebre ingannano e che la luce sola lo guida; ma la natura, mentre gli concesse tanto lume d’esperienza bastante alla propria conservazione, fomentò la curiosità e limitò l’acume della sua mente, ond’ei tra le credulità ed i sospetti eserciti il molo della esistenza, sospirando pur sempre di vedere tutto lo splendore del vero; misero s’ei lo vedesse! non troverebbe più forse ragioni di [p. 59 modifica]vivere. Or per me stimo non potersi mai volgere l’intelletto degli uomini verso le cose meno incerte e per continuo esperimento giovevoli alla loro vita, prima di correggere le passioni dannose del loro cuore, e di distruggere le false opinioni; il che non può farsi se non eccitando col sentimento del piacere e del dolore nuove passioni, e con la speranza dell’utilità fecondando di migliori opinioni la lor fantasia. Se dunque l’eloquenza è facoltà di persuadere, come mai potrà dipartirsi dalle umane passioni, e come la ragione e la verità staranno disgiunte dall’eloquenza? Però questa distinzione d’illuminare e di dilettare fu a principio pretesto di scienziati che non sapeano rendere amabile la parola, e di letterati che non sapeano pensare. La filosofia morale e politica ha rinunziata la sua preponderanza su la prosperità degli stati da che, abbandonando l’eloquenza, si smarrì nella metafisica; e l’eloquenza ha perduta la sua virtù e la sua dignità da che fu abbandonata dalla filosofia e manomessa dai retori. Sciagurati! si professarono architetti di un’arte senza posseder la materia; fantasticarono limiti alle forze intellettuali dell’uomo; s’ eressero dittatori dei grand’ ingegni; ambirono di magnificare le [p. 60 modifica]minime cose, e di trasformare il falso nel vero, e il vero nel falso; l’ozio, la vanità, l’avidità accrebbero la moltitudine degli scrittori; invano la natura esclamava: Io non ti elessi al ministero di amministrare i tuoi concittadini: l’arte lusingava, insegnando a non errare, perchè giudicava gli scritti derivati dalle passioni degli altri; ma l’arte non parlò più alle passioni, perchè non le sentiva; la fantasia, destituta dalle fiamme del cuore, si ritirò fredda nella memoria: destituta dal criterio, inventò mostri e chimere; e la facoltà della parola si ridusse a musica senza pensiero.

XII. Poiché i suoni e i significati degli idiomi si trasfusero nelle combinazioni degli alfabeti, questo ritrovato perfezionò la facoltà di pensare e i mezzi di abbellire e di perpetuare il pensiero. Le norme dello stile germogliarono spontanee da quelle della favella, perchè hanno radice negli organi intellettuali dell’uomo, mentre le regole accidentali secondavano la tempra d’ogni lingua e l’ingegno degli scrittori, finchè l’uso e il consenso valsero a convalidarle. Intanto il tempo e le vicende, svelando molti arcani della legislazione teologica, dileguarono le prime illusioni; pero la poesia seguì a confortare con l’entusiasmo, con la [p. 61 modifica]pittura e con l’armonia le utili passioni degli uomini, ma concesse agli storici d’illuminarle con l’osservazione degli avvenimenti, ed agli oratori di persuaderle col calore della poesia, con l’esperienza della storia, e con l’evidenza della ragione. Ne’poeti dunque, negli storici e negli oratori contiensi la letteratura delle nazioni, la quale tanto è più pregna di bella eloquenza, quant’è più derivata dai sentimenti del cuore, dalle ricchezze della fantasia, dal nerbo del raziocinio e dalla convinzione del vero. Quindi la greca letteratura fu sorgente ed esempio agli studi di tutta l’Europa, perchè niun popolo trapassò veloce al pari degli Ateniesi dalla fierezza della barbarie alla raffinatissima civiltà; e niuno potè riunire, quant’essi, le passioni e il criterio, che pur sogliono preponderare ad età differenti negli individui, ne’popoli e nelle lingue. Solone meditò di scrivere in versi, e fra le cerimonie dei sacerdoti e gli oracoli, le leggi d’una città, ove i metafisici contendeano l’Esilo a’mortali e l’onnipotenza agl’iddii; ove le virtù della libertà regnavano ad ora ad ora con l’insania della licenza, e la tirannide anch’essa era costretta ad essere moderata e magnanima. Un popolo che sapeva e ragionare ed illudersi, [p. 62 modifica]e coronare la virtù ed esiliarla; che trucidava i tiranni, debellava le armi di tutta l’Asia, dava norme di giustizia a’Romani, e non sapea godere, nè la giustizia, nè la libertà, nè la pace, un sì fatto popolo doveva esercitare la sagacità de’prudenti, il valore de’forti, la virtù dei savi e il vigor degl’ingegni; dovea congiungere ne’loro pensieri l’entusiasmo ed il calcolo e nella loro lingua il colorito, la musica e tutto il disegno ad un tempo e la filosofica precisione33. Ma la Grecia non potendo tramandarci tutte le cause della sua felicità nelle lettere, ne diè in vece tutte quelle arti che le corrompono.

XIII. Finchè la filosofia s’attenne all’utile verità della pratica morale e politica, e che l’eloquenza s’attenne alla filosofia, la città fu retta da quegli ambiziosi che la natura destina alla prosperità delle repubbliche; da che gli ha dotati d’animo generoso e di egregia [p. 63 modifica]prepotenza d’ingegno. E come i principi degli Ateniesi non doveano mostrarsi ardenti, prodi, avveduti, se dalla loro virtù pendeva la loro patria, e dalla patria la loro gloria e la loro possanza? come la loro voce si sarebbe mai dipartita dalla passione e dal vero, se l’eloquenza sola svolgeva le anime fervide e liberissime de’ loro concittadini? Ma poiché il furore d’imperio, di ricchezze e di fama è più vile e più cieco quanto più vive negli uomini meno degni, e l’eloquenza signoreggiava in Atene i teatri, i licei, i parlamenti e gli eserciti; tutti i faziosi che la natura non aveva creati facondi, s’argomentarono di aiutarsi dell’arte. Se non che il pensiero, il modo di rappresentarlo, risultando dalla tempra e dall’accordo del cuore, dell’immaginazione e del raziocinio, l’eloquenza non è frutto di verun’arte; che se la natura non forma vigorose, arrendevoli e bilanciate in un uomo queste potenze, qual occhio mai saprà indagarne i difetti, qual mano applicarvi i rimedi? E non per tanto mentre la civile filosofia fu adulterata dall’arte dialettica, l’eloquenza cominciò ad esser manomessa dalla rettorica. Già la metafisica allettando gl’ingegni più nobili alle sublimi contemplazioni, facea si che’ei [p. 64 modifica]sdegnassero di dar utili esempi alla loro patria per aspirare ad ammaestrarla su le leggi del globo, del sole, dei cieli, dell’etere, del caos, dell’eternità, dell’universo; grandi nomi, incomprensibili idee, e quindi involte in voci mirabili al volgo. Con questo esempio si coacervarono in un vocabolo solo molte idee morali, che già nell’uso erano determinate e sicure, ma che riunite in una diveniano indistinte, e parvero astratte, indi, sotto colore di dilucidarle, furono tanto divise, che le loro fila facendosi impercettibili, anche le loro parti sembrarono opposte tra loro, e bisognarono nuovi termini, astrusi anch’essi, perchè applicati a nozioni ignote all’uso ed all’esperienza: così gl’ingegni, sviandosi nel labirinto delle speculazioni, armandosi di termini universali in cui si presumea, d’indicare l’essenza, le qualità, le quantità, gli accidenti, i caratteri, le differenze e le coerenze di tutte le cose, e schermendosi o con distinzioni, inesatte sempre perchè le parole erano indefinite ed ambigue, o con definizioni che promettevano di accertare la natura degli enti, ma che sviavano dalla certezza del loro uso, si imparò ad insidiare la ragione e a far sospetta la verità: quindi la moltitudine de’sofisti, [p. 65 modifica]l’indifferenza del vero ch’essi non sapeano difendere, l’irriverenza al giusto ed al bello che poteano negare, l’amore del paradosso da cui solo attendeano trionfi, l’infinito numero delle quistioni, la libidine eterna di controversie, l’arte dialettica insomma. Su queste trame fu tessuta l’arte rettorica da quei letterati venali, che, promettendo di far eloquenti gl’ingegni vani e le lingue più invereconde, ebbero le cattedre affollale di demagoghi e di pubblicani che già con le speranze invadeano gli onori, le leggi e l’erario della repubblica. Primo Gorgia, che non potea amare una città ov’egli era mercenario e straniero, insegnò in Atene a blandire i vizi e l’ignoranza del popolo, ammaliandogli l’intelletto con la pompa delle figure, chiudendogli il cuore alla voce degli affetti e del vero, lusingandogli i sensi con l’azione teatrale e con la cadenza di periodi aculeati e sonanti34. Salì sul teatro e si proferì parato a qualunque argomento; e mostrò che si può declamare con lode senza meditazione35. Foggiò canoni d’eloquenza [p. 66 modifica]e di stile, e fu padre della turba clamorosa implacabile de’grammatici, intenti sempre ad angariare gli scrittori obbedienti e a scomunicare i magnanimi. Insegnò antitesi a chi non avea nervi e spiriti nel pensiero36; luoghi comuni a chi non sapea le materie37; descrizioni ed amplificazioni a chiunque mancava di fantasia pronta e pittrice; lenocinio di declamazione a chi non avea dignità di aspetto e di voce; lascivia di idioma a chi cercava le grazie; superstizioni per le regole inanimate a chi non ha senno da considerarne calde e parlanti nei sommi scrittori; l’arte insomma, che nel petto de’letterati fa sottentrare all’emulazione l’invidia, all’ardore di fama la vanità degli applausi, all’esempio l’imitazione, al sapere l’erudizione, l’arte, o giovani, che moltiplica i precettori, che nella prima educazione snerva le fibre de’più forti [p. 67 modifica]intelletti, che per tanti secoli fe’ricca di inezie l’italiana letteratura. Almeno la letteratura fosse divenuta disutile, senza divenire scellerata ed infame! ma quel Gorgia stesso, ravviluppando nelle fallacie dell’arte dialettica anche le verità concedute al senso ed alla mente degl’idioti, celebrò in Atene un mestiero che valeva a coronare il delitto38, a insanguinar l’innocenza, ad esaltare le usurpazioni degli opulenti, a santificare le libidini della democrazia e le carnificine della tirannide, a tradire la patria, a vender l’anima, a contaminare di fiele e di sangue la vecchiaia di Socrate.

XIV. E Socrate che non ambiva nè gloria di scienziato, nè emolumenti di retore, nè dignità di capitano e di pritano, ma che vedeva quanto le virtù cittadine scadeano con la vera eloquenza e con esse l’onore e la libertà della patria, ripetea que’consigli che tanti scrittori hanno serbati a noi posteri. Ed io li leggeva per emenda della mia vita; ma oggi, poichè nelle poetiche e ne’trattati non so discernere aiuti all’istituto di professore, ordinerò quei consigli di Socrate per unica norma alle lezioni ch’io potrò scrivere; e piaccia a voi pure [p. 68 modifica]di udirli. Uditeli; benché forse il mio stile, non certamente l’arbitrio de’miei pensieri, potrà violare il discorso, di quel giustissimo tra i mortali.

O Ateniesi, adorate Dio, e non aspirate a conoscerlo: amate il paese ove la natura vi ha fatto nascere, e seconderete le leggi dell’universo: non disputate sull’anima, ma dirigete le vostre passioni verso le cose che giovarono a’nostri padri. O miei concittadini, non a tutti è dato di essere oratore o poeta: coltivate i vostri poderi, permutate i frutti e le merci, poichè tutti abbiamo necessità della terra e a pochi manca l’industria: tutti i padri possono educare i loro figliuoli a venerare gl’iddii, ad obbedire alle leggi, ad amare la patria, e tutti i giovani possono difenderla co’loro petti; ma in ogni studio ascoltale il proprio Genio, e sarete onorati e benemeriti cittadini. Sì, Ateniesi, un Genio parla nel petto a ciascheduno di noi; però l’oracolo consultato da’miei genitori rispose: Che facessero voti a Giove padre e alle Muse, e che mi abbandonassero in tutto al mio genio39; il quale, interrogato da me, [p. 69 modifica]esortavami di studiare ciò che poteva essere utile a me stesso ed agli altri. Onde imparai musica da Damone, e volli vedere cosa fosse poetica, rettorica e geometria, e considerai le arti e gli artefici, ed ascoltai filosofia universale dal vecchio Anassagora, e fui prediletto discepolo di Archelao, e volli anche da Diotima, donna di elegantissimo ingegno, apprendere dottrine di amore40. Or benchè fossi da’precettori stimato di felice intelletto, niuna verità m’avvenia d’imparare si certamente ch’io potessi ridirla senza timor di mentire o di nuocere. Anzi il Genio mi comandava ognor più di rinunziare all’onore ed al lucro di quegli studi, ed anche all’arte della scultura insegnatami dal padre mio, e che unica omai potea camparmi da povertà, per vivere invece tra gli uomini, e considerare e dire le cose che li fanno disgraziati o felici. Da indi in qua mi vedete nelle vie più frequenti, e tra le gioie e le querele degli uomini, e nelle tende e nelle officine, sì che chiunque a cui piaccia, mi risponda e m’ascolti; [p. 70 modifica]e dopo avere udita e considerata ogni cosa, paleso, com’io so, quelle sole verità che vedo chiarissime nella mente e che sento nel petto profondo, e che taciute mi fariano colpevole e disonesto dinanzi al mio Genio. Ma la verità che mi è da tanti anni manifestata dalla condizione della patria, e che mi fa ognor più colpevole ed importuno in Atene, è questa che io voglio ripetervi, perchè mi si è fitta più tenacemente nell’animo. O Ateniesi: massima impostura e pubblica calamità si è l’accostarsi ad un’arte senza ingegno, studio e coraggio convenienti ad esercitarla. Che nè io, tuttochè figliuolo e discepolo di scultore, avrei potuto emulare le statue di Fidia; nè Fidia cessò di fare il simulacro di Pallade, quantunque ei prevedesse, che per quel lavoro sarebbe morto in prigione41. Se dunque l’amore di un’arte vi conforta contro la povertà e l’ingiustizia, voi sarete miseri forse nell’opinione degli altri, ma compianti dagli uomini buoni e gloriosi in futuro, e quel che è più soddisfatti nel vostro cuore. Ma se studiate eloquenza e poesia non per altro che per vivere mollemente, voi non seconderete lo [p. 71 modifica]scopo di queste arti, le profanerete con mercimonio servile, e lascerete quelle che potriano farvi più avventurati e più onesti. Però il divino Omero cantò che la Musa gli avea rapito il caro lume degli occhi, ma che l’avea pur compensato di tanta disavventura, concedendogli l’amabile canto42. E in vero la poesia è una divina concitazione del Genio, è certa sapienza ispirata; e non è molto che udimmo l’oracolo di Delfo, interrogato da Cherefonte, rispondere ch’ Euripide e Sofocle erano sapienti tra gli uomini43. Or chi non reputa eminentissima la facoltà di persuadere? chè senz’essa nè poeti, nè storici acquisterebbero grazia e credenza; e vedo che quante discipline s’insegnano, tutte s’insegnano col discorso; e so che per essa Temistocle ed altri forti salvarono la repubblica, e la fecero gloriosa e possente, tuttochè arringassero nell’assemblea ravvolti, all’uso di Pericle, nella clamide e senza gesti nè melodia44. [p. 72 modifica]Però chi tiene quest’arte e può compartirla per oro, come si usa da Gorgia Leontino e da Polo, è da stimarsi cittadino benefico e beatissimo tra’mortali. Ch’ei senza dubbio deve insegnare che questi facitori di ditirambi agguaglino Alceo, senza avere liberata la patria; e mentre pur vegliano all’altrui cena motteggiando piacevolmente, scrivano i cori d’Euripide nostro che avea sembiante verecondo e severo, e che nell’ilarità de’conviti ospitali cantava agli amici: Aborriamo coloro che celebrando motteggi fannno gli nomini più maligni45: anzi deve insegnare a’nuovi poeti, i quali si vanno insidiando con invidia mortale, ad emulare le tragedie di Sofocle; e pure Sofocle, benchè contendesse ad Euripide la corona, non però cessò d’onorarlo, e quando Euripide mori, egli comparve in veste lugubre, e pianse con tutta la città che quel nobile capo giacesse in tomba straniera, nè patì che gli attori a quei

là nell’atto stesso che pur favellava, insinuò quindi in coloro che il maneggio avevano della repubblica, quella libertà licenziosa e quella trascuranza dell’onesto e del convenevole, dalle quali poco dopo messi furono in iscompiglio tutti gli affari». [p. 73 modifica]giorni rappresentassero coronati l’Edipo46. Inoltre Gorgia deve negli oratori politici infondere giustizia per discernere l’utilità delle leggi, e temperanza per amministrare l’erario, e prudenza por non irritare le tribù negli scandali, e gravità per sedarli, e fortezza per dissipar le fazioni, e desterità co’nemici e cogli alleati, e lealtà in parlamento, e valore nel campo, perchè le sentenze non siano smentite dai fatti. Come si possa insegnar tutto questo non saprei dire; e mi pare potenza maggiore dell’umana. Vedo bensì giudici ed oratori sorgere giovani da quelle scuole; e voi vedete a che termini siano gli ordini e i costumi della repubblica. Che se quell’arte non tende che ad accattare regali dagli ambiziosi e voti dal popolo, non dubito ch’ella sia facilissima, da che basta piaggiare i più prodighi, e decretando i tre oboli ai poveri sì che v’intervengano, fare ozioso teatro dell’assemblea per proverbiare i più saggi. Or tutti voi ricordate che i trenta tiranni pubblicarono legge perch’io solo non fossi oratore, e quella legge mi significò che nell’amor della patria spira certo fuoco divino, e nella verità una beltà [p. 74 modifica]incorruttibile a cui non giunge il discorso impetuoso e ripulito de’ retori e ch’io doveva tenermi veracemente oratore, poichè a me solo e non ai maestri vien dato di non far peggiore con l’eloquenza veruno di voi, anzi giovai per alcuni ad innamorarvi dell’onestà. Ma come stiasi la cosa, certo è che il genio mi consentì questa proprietà di oratore; perchè nè quando mi opposi solo alle crudeltà dell’oligarchia, nè quando in democrazia per non violare il pubblico giuramento negai d’approvare nel senato una sentenza che mi pareva non giusta, nè adesso nè mai avrei detto parola, se la voce del genio mi avesse, come suole talvolta, disanimato. Or poichè quei trenta si sono cangiati, ma non i modi della città, io mi vedo assai vicino alla morte. E veramente Omero attribuì ad alcuni nella fine della loro vita certa prescienza dell’avvenire; e piace anche a me di emettere un vaticinio: Io morrò ingiustamente. Se il vivere o il morire sia miglior cosa, è a tutti incerto fuori che a Dio; questo so che di me faranno testimonianza il tempo passato ed il futuro.

E morì; e un retore ordì la calunnia, e un ricco fazioso pagò lo spergiuro de’ testimoni e de’ giudici, e un poeta d’inette tragedie [p. 75 modifica]perorò contro Socrate, e trecento Ateniesi lo condannarono, e la sapienza fuggì dal governo, e l’eloquenza ammutì, e Atene fu serva dei retori che fecero esiliare tutti i filosofi47, e Italia pure li vide espulsi quando Domiziano insigniva un retore del consolato48, il retore Quintiliano che nelle Istituzioni ov’ ei predica la lealtà indispensabile agli oratori, parlando di Domiziano, di quell’ingrato insidiatore di Tito, di quell’invido tiranno d’ogni virtù, di quel carnefice industrioso, lo chiama «censore santissimo de’ costumi, e in tutto e nelle lettere eminentissimo49».

XV. Così l’arte andò deturpando sino a’ dì nostri le lettere: non però valse ad annientare il decreto della natura che le destinò ministre delle immagini, degli affetti e della ragione dell’uomo. E mentre Isocrate pronunziava dopo dieci anni di squisitissima industria un panegirico della repubblica, ove intendendo d’esaltarla con l’eloquenza vituperavala col raziocinio50; e mentre verseggiatori e sofisti [p. 76 modifica]trafficavano l’ingegno e le Muse, Tucidide, Demostene e Senofonte apparecchiavano esempi immortali d’elevata, di maschia e di affettuosa eloquenza. La storia di Plinio e i versi di Giovenale e di Persio insegnarono a’declamatori ed a’potei di Roma come le lettere giovino alle scienze, e consacrino gli adulatori ed i vizi all’infamia. Anzi Tacito impose sì fattamente rispetto a quei retori, che, non attentandosi di nominarlo, lasciarono scritto ne’loro libri: Che l’alto spirito e la verità perigliosa degli annali di un loro contemporaneo, benchè meritevoli della memoria de’ secoli non conseguirebbero imitatori51. Dai mezzi con che gli egregi letterati di tutte le età ottennero fama ed amore nel mondo, appare omai l’ufficio della letteratura; appare che la natura, creando alcuni ingegni alle lettere, li confida all’esperienza delle passioni all’inestinguibile desiderio del vero, allo studio dei sommi esemplari, all’amore della gloria, alla indipendenza della fortuna ed alla santa carità della patria. Qualunque manchi di queste proprietà negli

eloquenza debba magnificare le minime cose ed impiccolire le grandi; e procede esaltando i benemeriti degli Ateniesi. Vedi Longino, Del sublime cap. 38., che da quell’assioma desume il vituperio d’Atene. [p. 77 modifica]uomini letterati, niun’arte mai, niun istituto di università o d’accademia, niuna munificenza di principe farà che le lettere non declinino, e che anzi non cadano nell’abbiezione ove tutte o in gran parte mancassero queste doti. O Italiani! qual popolo più di noi può lodarsi dei benefizi della natura? ma chi più di noi (nè dissimulerò ciò che sembrami vero quando l’occasione mi comanda di palesarlo), chi più di noi trascura o profonde que’ benefizi? A che vi querelate se i germi dell’italiano sapere sono coltivati dagli stranieri che ve gli usurpano52? meritamente ne colgono il frutto: la letteratura, che illumina il vero, fa sovente obbliare gli scopritori e lodare con gratitudine chiunque sa renderlo amabile a chi lo cerca. Pochi, è vero, in Italia levarono altissimo grido, non perchè soli filosofassero egregiamente, ma perchè egregiamente scrivevano le loro meditazioni, e perchè amando la loro patria, si emanciparono dall’ambizioso costume di dettare le scienze in latino, ed onorarono il materno idioma: quindi le opere del Machiavelli e di Galileo risplendono ancora tra i pochi [p. 78 modifica]esemplari di faconda filosofia: e lo stile assoluto e sicuro del libro de’ delitti e delle pene, e l’elegante trattato del Galiani su le monete vivranno nobile ed eterno retaggio tra noi; e mille Italiani sanno difenderlo dalla usurpazione e dalla calunnia. Ma poichè oggi gli scienziati non degnano di promuovere i loro studi con eloquenza, poichè non si valgono delle attrattive della loro lingua per farli proprietà cara e comune agl’ingegni concittadini, non sono essi soli colpevoli se pochi si curano, se pochissimi possono vendicare la loro fama, e se tutti corrono a dissetarsi ne’fonti, i quali se non sono più salutari, sembrano almeno più limpidi? Quanti dotti non serbano ancora in Italia con sudori e con zelo la riverenza e l’amore alla lingua e alle opere greche? e chi di loro non ci esalta Tucidide che fu esempio al sommo degli oratori e alla velocità di Sallustio e alla fede di Tacito? chi non ci esalta Senofonte, pregno di socratica virtù e di passione e di storia e di militare scienza, e di soavissimo stile? e Polibio insigne maestro di governo e di guerra? ma chi mai dotto di greco diffonde le loro ricchezze? chi li traduce con amore uguale alla loro fama? Giacciono quei solenni scrittori nell’oblio de’ volgarizzatori imprudenti e venali dei secoli scorsi, e ad ogni [p. 79 modifica]Italiano educato è pur forza di studiarli in lingua straniera e comperare a gran prezzo i barbarismi che vanno ognor più deturpando la nostra. Io vedo cinquanta versioni delle lascivie di Anacreonte e non una de’ libri filosofici di Plutarco, non una degna di palesar quei tesori di tutta la filosofia degli antichi. Volgetevi alle vostre biblioteche. Eccovi annali e commentari e biografi ed elogi accademici, e il Crescimbeni ed il Tiraboschi ed il Quadrio; ma dov’è un libro che discerna le vere cause della decadenza dell’utile letteratura, che riponga l’onore italiano più nel merito che nel numero degli scrittori, che vi nutra di maschia e spregiudicata filosofia, che col potere dell’eloquenza vi accenda all’emulazione degli uomini grandi? Ah le virtù, le sventure e gli errori degli uomini grandi non possono scriversi nelle arcadie e nei chiostri! Eccovi da altra parte e cronache e genealogie e memorie municipali, e le congerie del benemerito Muratori, ed edizioni obliate di storici di ciascheduna città d’Italia; ma dov’è una storia d’Italia? E come oserete lodare senza rossore gli esempi di Livio e di Niccolò Machiavelli, se voi potete e non volete seguirli? Come ricambierete le vigilie dei nostri padri se non profittate de’ documenti che vi apprestarono? È vero; niuno rammemora senza [p. 80 modifica]lagrime le liberalità della famiglia de’Medici verso le arti belle e le lettere; ma si aspettò che un inglese, dissotterrando i tesori de’ nostri archivi, rimeritasse i principi italiani d’un esempio che illuminò la barbarie dell’Europa; si aspettò che la storia de’ secoli di Lorenzo il magnifico e di Leone X ci venissero di là dall’oceano. O Italiani, io vi esorto alle storie, perchè niun popolo più di voi può mostrare nè più calamità da compiangere, nè più errori da evitare, nè più virtù che vi facciano rispettare, nè più grandi anime degne di essere liberate dalla obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri e a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri. Io vi esorto alle storie, perchè angusta è l’arena degli oratori; e chi omai può contendervi la poetica palma? Ma nelle storie tutta si spiega la nobiltà dello stile, tutti gli affetti delle virtù, tutto l’incanto della poesia, tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i benemeriti dell’italiano sapere. Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre? e che speranze, che ricompense gli apparecchiate? e come nell’agonia della morte lo consolerà il pensiero di rivivere almeno nel petto de suoi cittadini, se vede che la storia in Italia non tramandi i [p. 81 modifica]nobili fatti alla fede delle venture generazioni? Forse la sola poesia e la magnificenza del panegirico potranno rimunerar degnamente il principe che vi dà leggi e milizia e compiacenza del nome italiano? Oh come all’esaltazioni con che Plinio secondo si studia di celebrare Traiano, oh come il saggio sorride! ma quando legge le poche sentenze di Tacito, adora la sublime anima di Traiano e giustifica quelle vittorie che assoggettarono i popoli all’impero del più magnanimo tra i successori di Cesare53. Quali passioni frattanto la nostra letteratura alimenta, quali opinioni governa nelle famiglie? Come influisce in quei cittadini collocati dalla fortuna tra l’idiota ed il letterato, tra la ragione di stato [p. 82 modifica]che non può guardare se non la pubblica utilità, e la misera plebe che ciecamente obbedisce alle supreme necessità della vita, in quei cittadini che soli devono e possono prosperare la patria perchè hanno e tetti e campi, ed autorità di nome, e certezza di eredità, e che quando possedono virtù civili e domestiche, hanno mezzi e vigore d’insinuarle tra il popolo e di parteciparle allo stato? L’alta letteratura riserbasi a pochi, atti a sentire e ad intendere profondamente; ma que’ moltissimi che per educazione, per agi e per l’umano bisogno di occupare il cuore e la mente sono adescati dal diletto e dall’ozio tra’libri, denno ricorrere a’ giornali, alle novelle, alle rime; così si vanno imbevendo dell’ignorante malignità degli uni, delle stravaganze degli altri, del vaniloquio de’ verseggiatori; così inavvedutamente si nutrono di sciocchezze e di vizi, ed imparano a disprezzare le lettere. Ma indarno la Ciropedia e il Telemaco, tramandatici da due mortali cospicui nelle loro patrie per dignità e per costumi, ne ammoniscono che la sapienza detta anch’essa romanzi alla Musa e alla Storia; indarno il viaggio d’Anacarsi ci porge luminosissimo specchio quanto possa un romanzo senza taccia di menzogna iniziare i men dotti nel santuario della storica filosofia; indarno e i [p. 83 modifica]Germani e gl’inglesi ci dicono che la gioventù non vive che d’illusioni e di sentimenti, e che la bellezza non è immune dalle insidie del mondo; e che, poichè la natura e i costumi non concedono di preservare la gioventù e la bellezza dalle passioni, la letteratura deve, se non altro, nutrire le meno nocive, dipingere le opinioni, gli usi e le sembianze de’ giorni presenti, ed ammaestrare con la storia delle famiglie. Secondate i cuori palpitanti dei giovanetti e delle fanciulle, assuefateli, finchè son creduli ed innocenti, a compiangere gli uomini, a conoscere i loro difetti ne’ libri, a cercare il bello ed il vero morale: le illusioni de’ vostri racconti svaniranno dalla fantasia con l’età; ma il calore con cui cominciarono ad istruire, spirerà continuo ne’ petti. Offerite spontanei que libri che se non saranno procacciati utilmente da voi, il bisogno, l’esempio, la seduzione li procacceranno in secreto. Già i sogni e le ipocrite virtù di mille romanzi inondano le nostre case; gli allettamenti del loro stile fanno quasi abborrire come pedantesca ed inetta la nostra lingua; la oscenità di mille altri sfiora negli adolescenti il più gentile ornamento de’ loro labbri, il pudore. E frattanto chi de’ nostri contemporanei va fingendo novelle sugli usi, lo stile e le fogge dell’età del Boccaccio; chi [p. 84 modifica]segue a rimare sonetti; nè l’ingegno eminente, nè la sublime poesia di que’ pochi che custodiscono la riputazione degli stati e dei principi basta per avventura a serbare inviolato il palladio della patria letteratura. Ah! vi sono pure in tutte le città d’Italia uomini prediletti dalla natura, educati dalla filosofia, d’incolpabile vita, e dolenti della corruzione e della venalità delle lettere; ma che, non osando affrontare l’insidie del volgo dei letterati e le minaccie della fortuna, vivono e gemono verecondi e remoti. O miei concittadini! quanto è scarsa la consolazione d’essere puro ed illuminato senza preservare la nostra patria dagl’ignoranti e dai vili! Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi ed assumerete il coraggio della concordia; nè la fortuna nè la calunnia potranno opprimervi mai, quando la coscienza del sapere e dell’onestà v’arma del desiderio della vera ed utile fama. Osservate negli altri le passioni che voi sentite, dipingetele, destate la pietà che parla in voi stessi, quella unica virtù disinteressata negli uomini; abbellite la vostra lingua della evidenza, dell’energia e della luce delle vostre idee, amate la vostr’arte, e disprezzerete le leggi delle accademie grammaticali, ed arricchirete [p. 85 modifica]lo stile; amate la vostra patria, e non contaminerete con merci straniere la purità e le ricchezze e le grazie natie del nostro idioma. La verità e le passioni faranno più esatti, meno inetti, e più doviziosi i vostri vocabolari, le scienze avranno veste italiana, e l’affettazione de’ modi non raffredderà i vostri pensieri. Visitate l’Italia! o amabile terra! o tempio di Venere e delle Muse! e come ti dipingono i viaggiatori che ostentano di celebrarti! come t’umiliano gli stranieri che presumono d’ammaestrarti! Ma chi può meglio descriverti di chi è nato per vedere fino ch’ei vive la tua beltà? chi può parlarti con più ferventi e con più candide esortazioni di chiunque non è onorato nè amato se non ti onora e non t’ama? Nè le barbarie de’ Goti, nè le animosità provinciali, nè le devastazioni di tanti eserciti, spensero in quest’aure quel fuoco immortale che animò gli Etruschi e i Latini, che animò Dante nelle calamità dell’esilio, e il Machiavelli nelle angosce della tortura, e Galileo nel terrore della inquisizione, e Torquato nella vita raminga, nella persecuzione de’ retori, nel lungo amore infelice, nella ingratitudine delle corti, nè tutti questi ne tant’altri grandissimi ingegni nella domestica povertà. Prostratevi su’ loro sepolcri, interrogateli [p. 86 modifica]come furono grandi e infelici, e come l’amor della patria, della gloria e del vero accrebbe la costanza del loro cuore, la forza del loro ingegno e i loro beneficii verso di noi.

XVI. Queste cose (considerando, come ho saputo, la natura dell’uomo e le storie) ho meditate e scritte intorno all’origine e all’ufficio della letteratura. Che se le giudicherete di vostro profitto, io l’ascriverò alla efficacia meravigliosa del vero, il quale benchè taciuto per lunghissima età, ed acremente impugnato dagli uomini, si vendica per se stesso dell’obblivione de’ tempi e della pertinacia delle opinioni. Se non ch’io pure non avrò forse difesa che la mia propria opinione; ma tolga il cielo che quanto io scrivo possa riescire mai di alcun danno alle lettere ed all’Italia.



Note

  1. È sembrato ad alcuni che questa tesi sia falsa, e che basti a smentirla un’occhiata alle scuole de’sordimuti di Parigi, Genova, e Milano. Ma ove ben si consideri provano queste istituzioni che la ragione è un’emanazione del linguaggio, e che è dessa più o meno perfezionata a misura che è più o meno perfetto il sistema de’segni rappresentativi de’nostri pensieri. A provare l’errore di coloro che pretendono doversi qualificare l’animale umano dalla ragione e non dalla loquela, basta il riflettere che l’infante non ragiona, e che i più fra gli adulti sono quelli che sragionano: dal che si può rilevare che, dicendo il popolo, che l’uomo nasce colla ragione, che tutti hanno la ragione, o sono dotati della ragione, non altro vuol significare se non che tutti hanno la naturale disposizione o forza di rendersi suscettibili di dedurre i ragionamenti.
  2. Vedi Zoega, De origine et usum obeliscorum.
  3. Assegno a Teuto l’invenzione del calcolo astronomico sulla testimonianza degli Egizi, i quali dissero a Socrate: «che (Theut) era nume etiope, e che primo aveva inventati numeri e computi, e geometria ed astronomia». Platone nel Fedro.
    Da questo passo derivano e si concatenano le prove di tre nostre opinioni: 1.° Che le leggi fossero incorporate ai dogmi e alle storie, come appare nella Genesi, e che i principi fossero capitani e sacerdoti ed artefici ad un tempo, e i primi tra loro deificati: 2.° Che i popoli nell’emigrazioni e nelle guerre si portassero reciprocamente le loro religioni, e che ampliandosi quindi le idee, si ampliasse il significato de’nomi: così Teuto, nome individuale degli Etiopi, si converti in Giove, nume supremo, poi in Teos, nome solenne d’ogni dio, finalmente in deus e dio, voce universale ed incomprensibile: 3.° Quindi confermasi che senza parola non si danno astrazioni.
  4. E certamente possiamo affermare che i due globi celeste e terrestre siano i due più antichi libri della profana letteratura; perciocchè il terrestre ne’vari nomi delle provincie e de’mari conserva un catalogo assai fedele di varie nazioni che le abitarono, e di molti principi che le ressero: ed il celeste nelle immagini antichissime disegnatevi sopra, avanti all’età d’Omero e di Esiodo, è un monumento chiarissimo di imprese e di capitani, di arti e d’artefici, tramandati alla cognizione dei posteri. Bianchini, Istor. univ. Introd. cap. 3.
  5. La prima o la maggior piramide fu eretta da Chemi, secondo Diod. lib. I, 64; o da Ceope, secondo Erodoto, l. II, 126.
  6. L’Egitto fu sempre insanguinato dalle guerre straniere cittadinesche e servili; ma la storia ci presenta tre celebri conquistatori, Cambise che desolò ed imbarbarì tutto l’Egitto mediterraneo; Alessandro, che fabbricando la capitale nell’Egitto marittimo, ridusse quel paese all’antica prosperità, e riunendo la delicatezza greca all’acutezza africana, lo lece scuola delle scienze e delle arti: finalmente Selim I, che lo tolse ai Circassi: su di che vedi Demetrio Cantemir, Storia della casa ottomana, vol. XI.
  7. Antonio Conti, Sogno nel globo di Venere.
  8. Vedi il cardinale Noris, Epoche de’ Siromacedoni, diss. v, cap. 4.
  9. L’Iside egizia è le più volte rappresentata or con la luna falcata sul capo, or con la luna piena sul petto.
  10. Virgilio, Georg., lib. IV. vers. 502.
  11. Orazio, Epodi, Ode V, vers. 52, Od. XII, ver. 3.
  12. Ateneo, lib. XIII, ove narra «che ’l Sonno, ottimo fra gl’iddii, addormentasse Endimione, ma con le palpebre dischiuse», perch’egli nella tranquillità fissasse gli sguardi perpetuamente ne’ moti celesti.
  13. Teocrito, Idilio II, segnatamente verso la fine.
  14. Callimaco, Inno a Diana.
  15. Omero, Inno a Venere, vers. 19.
  16. Pitica XI, vers. 12.
  17. Vedi gli espositori de’ monumenti etruschi.
  18. Orazio, Carm. seculare, vers. 25.
  19. Plalone parla d’un tempio di Diana Ilitia aperto alle incinte: Delie leggi, lib. VI.
  20. Tesoro Gruteriano XLI 8. Opis suona provvidenza.
  21. In molte medaglie Diana rappresentasi con una face.
  22. Tesoro Gruteriano XLI, 4. ove Diana è chiamala mater.
  23. Visconti, Museo Pio-Clementino.
  24. Questa verità sui principii di tutte le nazioni fu veduta dal Vico, e noi ci siamo studiati di dimostrarla e di applicare le sue conseguenze alla storia de’ nostri tempi. Vedi il nostro discorso su le Deificazioni, nella Chioma di Berenice.
  25. Renato Cartesio pianta per assioma «Che la natura abbia dotati gli uomini di pari facoltà di ragionare (Disser-
  26. Segnatamente nel Cratilo e nel Convito.
  27. Bailly, Storia dell’Astronomia.
  28. Cicerone nelle Filosofiche, passim, e il Vico nel libro De antiquissima Italorum sapientia.
  29. Vedi il suo libro De sapientia veterum.
  30. Principii d’una scienza nuova ecc.
  31. Istoria universale espressa con monumenti e figurata con simboli degli antichi, di monsignor Francesco Bianchini veronese.
  32. Dupuis, Origine de tous les cultes.
  33. E questa a me pare in gran parte la causa della originalità e della fecondità dell’italiana letteratura in Firenze, ove, a’tempi di Dante, lo stato popolare e la libertà eccitavano le passioni de’cittadini e l’ingegno degli scrittori; mentre le altre città d’Italia ridotte a feudi imperiali dalle vittorie di Federigo I e di Federigo II contro la chiesa, continuavano nella barbarie, e le Muse si stavano nelle corti tra’ giocolari, e nelle celle tra’ monaci.
  34. Platone, Hipp. maj. Cicerone, Orator. c. 49. Dionisio Alicarnas. Epistola ad Amm. cap. 2.
  35. Platone, in Gorgia, Cicerone, De finibus, lib. II cap. 1, ed altri.
  36. Ecco un passo di Gorgia recato da Plutarco, e da noi tradotto letteralmente. «La tragedia è un inganno nel quale colui che inganna, diviene più giusto del non ingannante, e l’ingannato più saggio del non ingannato». Vedi l’opuscolo De audiendis poetis
  37. Corace siracusano mandò primo in Grecia un libro rettorico tessuto su le fallacie dialettiche: vedi i Prolegomeni ad Ermogene presso i rettorici antichi; ed Aristotele, Ret. lib. II, cap, 24. Quindi Protagora, discepolo di Democrito scrisse il libro Dei luoghi comuni; Arist, ib. lib. I, cap. 2, e Cicerone, Topic.
  38. Gorgia, presso Cic. De claris oratoribus, c. 12.
  39. Plutarco, De genio Socratis. Tutti i pensieri e gli argomenti di questo discorso furono da noi religiosamente ri-
  40. Di tutti questi studi di Socrate vedi il Bruckero, Historia philosophiae, tom. I, part. 2, lib. II, cap. 2, De schola socratica.
  41. Diodoro Siculo, lib. XII. Plutarco in Pericle.
  42. Omero, Odissea, cant. VII, vers. 61, 64.
  43. Vedi i due celebri versi di quest’oracolo, e l’interptazione di Suida all’articolo Sofos.
  44. Eschine in Timarco. Ed è memorabile il passo di Plutarco nella vita di Nicia: «Cleono levò la decenza e il decoro che si convengono al tribunale e alla bigoncia, e avendo egli il primo cominciato a gridar forte nel concionare, ad aprirsi la veste, a battersi sulla coscia e a scorrere quà e là nell’atto stesso che pur favellava, insinuò quindi in coloro che il maneggio avevano della repubblica, quella libertà licenziosa e quella trascuranza dell’onesto e del convenevole, dalle quali poco dopo messi furono in iscompiglio tutti gli affari».
  45. Eliano, Varia istor. lib. VIII, c. 13. Eurip. in Melan. presso Ateneo, lib. XIX.
  46. Thom. Mag. In vita Euripid., Svida in Sofocle.
  47. Vedi Bruckero, Stor. filosof. alla vita di Teofrasto; e l’Enciclopedia, articolo Aristotelisme.
  48. Tacito, Vita d’Agricola sul principio; Svetonio in Domiziano: ed Enrico Dodwello Annales Quintilianei.
  49. Instit. Orat. lib. IV, nel proemio.
  50. In quell'orazione Isocrate piantò per assioma che l’e-eloquenza debba magnificare le minime cose ed impiccolire le grandi; e procede esaltando i benemeriti degli Ateniesi. Vedi Longino, Del sublime cap. 38., che da quell’assioma desume il vituperio d’Atene.
  51. Quintilano, Istituz. lib. X, cap. 1.
  52. Leggasi l’orazione inaugurale, Intorno ai debito di onorare i primi scopritori del Vero, di Vincenzo Monti che in questa cattedra (nell’università di Pavia) fu mio predecessore.
  53. E che dirò io di quegli scrittori che senza celebrità letteraria, senza onore domestico, senza amore agli studi e alla patria s’ accostano a celebrare le glorie del principe? Infami in perpetuo, se la loro penna potesse almeno aspirare ad una infame immortalità! Ma vili ed ignoranti ad un tempo hanno per principio e fine d’ogni linea che scrivono, il prezzo della dedicatoria. Sapientemente Ottaviano che era in necessità di alimentale le lettere e di rispettare gl’ingegni, spediva decreti perchè gli scrittori d’ignobile fama non lo lodassero: Ingenia saeculi sui omnibus modis Augustus fovit. Recitantes et benigne et patienter audivit: nec tantum carmina et historias, sed et orationes et dialogos. Componi tamen aliquid de se, nisi et serio et a praestantissimis offendebatur; admonebatque praetores, ne paterentur nomen suum commissionibus obsole fieri. Sveton., lib. II, cap. 3.