Angoscia, Doglia e Pena le tre furie del mondo/Pena
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PENA
terza furia del mondo
PROEMIO
Quella parte celeste, che in me si trova, non cessa di solecitarme che io me unisca piú tosto al cielo che alla donna, fuoco umano e spoglia d’ogni bene. Perciò, quando li spiriti miei uniti possano alquanto, la virtú de l’anima mia me cita dinanzi alla contemplazione, dove si affina l’intelletto umano, come l’oro nel fuoco, rappresentando l’aspetto d’un vero dolore, di continua paura e di eterno orrore: ed è la donna, che nè morte, nè teme la ragione, anzi venze con ira e sdegni ogni gran tormento. Imperò chi non ha pazienzia, overo non si sa moderare nelle tentazioni umane, presto manca, percioché ha in odio la propria vita. Cosí trapassando il mio tempo, in quante pene, in quanti guai e fiamma ardente vissi e vivo, accompagnato di una arpia, giá i uceli de l’aria, i pessi del mare, non che l’umana generazione, il sanno! Perciò quante feste, quanti solazi sprezai di vedere per causa di una donna, che altro non pensava che dannarme. Perché sappiate che non trovo via nè arti per ridure al porto el mio infelice lembo; nè le giuste querelle mi giovano, perché la mia donna ha il melle amaro da ogni canto: sí che credetimi che nè giovene, nè vechio i’ son avezo al fele, nè ancora al melle, percioché la sua falsa dolzezza talvolta me consuma e talvolta me preme, e, benché mi trovo nel duello, me pare di avere contra me una gran schiera di sua inganni. Pertanto nè solevarme posso da terra, nè trovo pace nè fine alla mia guerra; sí che di me istesso non ho piú cura, perché la donna è stata cagion che io ami meno me medesimo di quello che io debbo. Misero me! perché non conoscio me, nè il mio ingegno, nè le altre doti date a me da la natura; ma, ancora che io vo cangiando il pelo, trovo che la ostinata mia donna non ha compassion di me, anzi quanto l’uomo sòl avere di vita lieta, tanto ella mel fa diventare amaro. E fame cercare diversi paesi, praticar con fère e genti dure e strani costumi; di sorte che me intrica di piú gravi errori che si intrica un stanco pellegrino. Perciò, parendomi essere gionto alla porta di la mia morte, ’nanzi che io intri nel suo albergo, dechiarovi la natura della vostra donna, soi spassi e summa contentezza: il che è la nostra incomprensibil pena, per ultima sentenzia del savio vechio, data ragionando col mio maestro. Perché, fra veglia e sonno non essendo perciò levato dal detto marmo, ma disposto giá con la mente de ritornare al mesto mio albergo drento nella cittá di Roma, dove giá doi lustri io aveva consumato angosciando e dolendomi della mia mala sorte; e perché angoscia e doglia son quelle parti de le quali si compone la pena: pertanto in questa ultima parte vi ragionarò unitamente di ultima furia, che nasce di le dua giá dette e dimandasi «pena nostra». Sí che vi prego, curiosi, non trascorrete queste carti senza contemplarli perfettamente, perché qui trovarete quanto la donna è la gran pena nostra, ancora che la sua condizione è piú vile di un brutto omiciolo.
Biondo. Contemplando la mia angoscia, anzi doglioso, sospirando forte come uomo condannato alla eterna pena, nè trovando riposso al corpo, nè quiete alla anima, cominciai spasigiar a l’ombra di una vite, rivolgendo i miei affanni nella mente, e, fatto stanco piú della mente che del corpo, me apogiai la terza volta di sopra il solito marmo, dove subito adormentandomi, mi parve di vedere che li dua vechi non erano partiti ancora, anzi fra loro dua mi parve di vedere un uomo cieco, qual mi pareva che fusse chiamato dagli ambidua come per testimonio di loro ragionamenti; il quale, intendendo li sua contrasti, stava ammirato che cosa avea dire. Pure, dimandato dal savio vechio che li pareva di ciò che egli avea detto al mio maestro, quando egli, savio per natura e non per alcuna dottrina, sogliendo la voce, in questo modo disse, per confirmare quanto ha detto il prudente vechio.
Cieco per natura. Deh! non credete a femina scioca,
e non ve accenda sua finta bellezza.
Perché, contemplando quel che vi inamora, di fatti sua trovarle essere diversi colori adulterini, di quali impiastrandosi o, vòi dire piú onestamente, fissandosi, vi dice che d’un bel colore vi inamorate, che ha admixta la gran parte di attrocissimo veneno, ed è sulimato. Pertanto, cieco ancora, ve desorta che non debbiate amare la femina, percioché è scioca. Il che se gli è vero, vi accertano li strissamenti soi, perché, essendo belli li soi belletti, convien che crediamo che egli è bruta per natura. Il che alla femina essendo noto, opera contra essa natura, perciò quanto deve essere reputata brutta, poiché da se medesima si conosce essere tale, imperò si pollisse, si strissa, si impiastra, si bisonta ed incarognisce. Di sorte, quando la mirate, voi non vedete il suo viso, ma chiare di ova, acque piovane, scuma di argento, lardo di porco, porcelette, sulimato, succo di limoni, medolla di pane e cerusa in quantitá ed altri tali rimedi, piú tosto di mal francese che ornamento di corpo sano. Perciò, se queste cose vili sono piú belle di ella, e che egli giudica che li son di ornamento, dice il nato cieco a confirmazione di ciò che ha detto Socrate: che la donna è brutissima, siche non li crediate che sia bella, perché la bellezza, che si vede in volto, gli è l’onore de l’empiastro che ha di sopra la faccia. Pertanto, se di empiastro ve volete inamorare, andate nelle vostre spicialie, perché almeno ivi trovarete tal concimi pieni di odore, e non puzzolenti come si senteno empiastrati sul volto di femina. E, se pure volete inamorarvi di volti lisciati, inamorative di mascare imbelletate, perché in elle nè denti negri, nè scarnati, nè consumati da sulimato vederete, nè sentirete odor di fiato puzzolente, imperoché la donna ha nel corpo una sentina, piena di puzza e di fetore, che amorba l’uomo piú dil pestilente aere.
Cieco per natura. Il fuoco giá, le femine e la terra,
l’abisso, l’inferno non dicon «basta».
Per essere la donna una delle cinque cose insaziabili, come Cieco vi canta, per confirmare in tutto la sentenzia di Socrate, ve essorto, accesi di fiamma amorosa, che non beviate la bevanda d’amore, perché diventarete furibondi, di sorte che vi darete la morte da voi istessi, come fece Lucrezio poeta, overo serete attosegati dalla vostra donna, come fu atosegato Antioco, re di Siria. Perciò comprimete la fiamma del falso amore, perché è tempo perso di seguirlo, imperoché chi ama la forma di una donna fugge l’onesto e sprezza la fama. Ma, acciò non vi paia che io parlo senza fondamento, dicovi che la fiamma di questo amor crudele, comincia diletare pian piano, perché si notrisse nel principio da piciol vapore; nondimeno il fomento di sua consuetudine, esacerbando con grande ardore, abruscia ciascuno. Pertanto saviamente disse Euripide che l’amor di donna è gran male; sí che sappiate che doi volte more chi ama. Né qui perciò vi val adure causa alcuna nè forza di animo, perché gli è sentenziato da prudenti essere misero chi ama la donna, percioché, essendo la donna insaziabile, come la terra, come il fuoco, come l’abisso e come l’inferno, gli è pur pazza cosa di secquire quella che mai si satola. Imperò, se l’uomo in suo servigio si squaglia e dislegua ancora, non ha fatto cosa alcuna. Pertanto, pria che io descenda al matrimonio, ed a l’ultimo documento di Socrate, dirovi, amici, ma senza senno, le pene in parte e li tormenti di ciascun maritato. Imperò, o voi che andate balestrando per le finestre, cercando il laccio giugale e donna che agrada agli occhi vostri, dicovi che facilmente trovarete un core che sempre è vario, e la donna che ha la carne fragile; sí che di qua si comprende la donna essere pazza facile per cascare nel peccato. Perciò, oltra ancora, sappiate che la donna è per natura superba ed iraconda, secondo la sentenzia di Ioanne, di Lorenzo e di Pietro, santi. Pertanto chi ha la moglie, gli è piú carco d’una nave piena di merce richissima, nè perciò di tal peso altro uomo vi pò liberare che la morte. Oh peso orrendo, peso dannevole, peso ultima nostra ruina! essendo tale. Oh che gran danno è di libero a diventare servo! Perché, dove la donna comanda, convien che l’uomo ubedisse, di sorte che l’uomo maritato di libero è fatto servo, perché costui coglie affanni sopra affanni. Imperoché, dove passa un travaglio, ivi al maritato nasce la fatica, di sorte che l’uomo maritato si assimiglia al bestiolo del vilano, a cui mai manca la soma, perché la donna non mai cessa di stimulare il marito, come fa el vilano il suo sumaro; perciò ciascun maritato va carco, e privo di libertá dolcissima; e chi propone di pigliar moglie, propone di portar la soma e di diventare servo. Imperò notate queste virtú, o maritati, della vostra donna. Spesso fenge di essere inferma; alcuna volta dice essere mal disposta; talvolta simula di essere gravida, per dar al marito fatica e pene, perché il conosce essere desideroso di avere qualche erede: nondimeno gli è piú sterile di arena. Perciò, simulando, dice: — Non so come mi sento... Dubito di qualche cosa... — Ma lui: — Di che? — dimanda. Ed ella, astuta: — Tu me intendi. Me dole il corpo, ho perso l’appetito, voria qualche cosa per acuirlo... — Allora, grosso e buffatone, dice: — Lassa fare a me. — Di sorte che ’l va cercando frutti novelli, diverse composte e cose stranni. Poscia, trincata, dimanda le comare, e medici ancora, che le tocchino il corpo, che mai se satola; che conoscano alla urina di quanti giorni può essere: di sorte che al meschino non mancano affanni e spese, con speranza piena di finochi. Il che li detti facendo cosa possibile, la traditora dice: — Caro mio marito, voria una vestura di altra sorte che non ho, perché pure veráno le vicine e parenti a visitarme. Gli è pur vostro onore che me trovino a pare de le altre ben maritate! — Deh, astuta donna! Quanta malizia hai nel corpo, perché ciò fai per parere bella al tuo amante, con nòve fogge ed altri vestiti, e non per mostrarti bella o contenta di la concepzione alle vicine e parenti; perché tu sei maliziosa, perché non sei tale, anzi tu sei la piú sterile e la piú lusuriosa che si trova nel tuo paese. Pertanto, astuta e satisfatta, da lá a pochi giorni fenge la sua dispersione; e questo per non essere satisfatta in tutto dal marito. Imperò, misero te, quanto sei da poco! Perciò meritaresti di alegrezza morire, come morse Diagora rodio per alegrezza de li soi figlioli, ed ella meritarebbe essere rapita da procella, come fu rapito Leucipo; overo, dimandando simil cose, mi pare che serebbe cosa iusta che i1 marito la morsicasse, a guisa di quel serpente che morsicoe Euridice, fuggendo dal marito, e che moresti, per essere tanto strana; overo che fosti butata al leone, come fu butata Euferia, qual subito morse; e, se ancora la terra se aprisse per ingiottire, mentre che tu contrasti col marito, a guisa che ingioti Anfiarao col caro, mentre che combateva sotto Tebe. Pertanto chi piglia la strana moglie va carco d’un grave peso, dal qual sola morte il può liberare. Perciò dico che ’l marito è servo, e la moglie è padrona; si che chi entra in questo ballo di libero diventa servo, perché ogni giorno cresceno affanni sopra le pene, né passa un tormento che non nasca un altro. Perciò il marito dico essere simile al somaro, stimulato da la donna senza fine. Pertanto, o voi liberi e senza laccio, devete imitare quel Teombroto, il quale si precipitò da so’ posta, letta che ebbe l’opera di Platone Della immortalitá di l’anima. E voi, inteso che avete la natura della donna, overo dovereste mettervi il laccio sul collo, poiché avete perso la libertá, a imitazione di Menippo, filosofo, il qual si impicò per la canna, avendo perse le richezze. Imperò voi, che godete la dolce libertá, odete il frutto amaro del maritato. Quando per disgrazia va la fortuna prospera al marito, dice la moglie essere cagion della bona sorte; ma, se per disgrazia diventano poveri e mendici, accusa la moglie essere cagion il peccato del marito: di sorte che gli è la gran penitenza la strana moglie al marito, non altrimente che gli è a lei il partorire. Perciò credo chi resta mai senza la moglie si spaventa solo di udire di ragionare della moglie, perché né mercante con la sua merce, né alcun artista con sua arte è suficiente di satisfare alla sua moglie. Imperò piú delle volte chi si accompagna con la donna si accompagna col suo inimico, e di soi figliuoli diventa padre afflitto, perché son nati di rissa e di dolore. Oh, che guai, che tormenti, che passione, overo quanta è la pena del marito! Perché conviene che’l proveda per sé, per sua doglia e per la fameglia; e, se per caso non provede come bisogna, conviene ch’el studia a qualche bugia, per mostrare di satisfare alla sua donna. Ed, essendo senza intrata alcuna e senza arte, gli è sforciato di impegnarsi per impire l’insaziabil corpo della sua inimica, di sorte convien che’l stenta senza riposso alcuno, ed è sforciato di finire prima che comincia quelo che richiede alla moglie, tanto è importuna. Di sorte che gli è constretto di sognarsi la notte quel che ha di bisogno ella la matina, perciò il marito si consuma da so’ posta, dormendo e vegliando ancora, per nutrire quella a cui l’opulente Francia non è soficiente di satisfare tutte le sue voglie ed apetiti, perché, cominciando da ciocoli e pianele, di quante sorte vói avere! Forse che noi sappete, o maritati! Imperoché, tal cosa essendo notissima a me, come al marito d’una fastidiosa, cominciarò a contarvi, acciò per tempo siate provisti, benché con tutto ciò non serete fuori di guai e pena. La moglie vói sette pare de ogni cosa: ciocoli e pianelete di vari colori, di corame per casa, e ciò di cordovano turchesco e fino, neri di colore, rossi, bianchi e turchini, stratagliati in diverse fogge e modi, quando alti e quando bassi; ma queli di feste e giorni onorati piú degli altri, convien che sieno di veluto talvolta e di raso, di vari colori, fatti in piú stranie fogge che non è strania ella di soi tagli, striche e cordeline. Altro non dico, perché voi avete meglior parere di me, dicendo che consta piú il lavorieri che non fa il drappo. Né ciò che ha posto il calzolaio di le sue scarpete, non troppo vi ragiono, perché molte di quelle usano calze solate ed alcune divisate; imperò, per mostrare il suo attilato pede, basta di averlo impianelato. Le calze qual debbono essere, voi vedete ogni giorno fogge nòve; al ginochio poi ormesini, taffetá, cordelle d’oro e sopramani di setta di vari colori, quali superano la coda d’un pavone. Dil pano altro non dico, perché piú fino convien che sia del visentino e saia millanese. Deh, ornamento vile, ornamento scioco, ornamento ruina del marito, ma incitamento di lusuria a l’amante, principio della dannazione nostra, ornamento guida de l’inferno e ruina della vita presente! Deh, quanto era meglio forse che la donna fosse creata senza il pede, anzi senza la gamba, perché non verrebbe cosí spesso ad eccitarci a spassi lusuriosi, nostra consumazione e sua satisfazione! Nondimeno non devemo incolpare la natura, perché ogni cosa fece bene, ma damo colpa a noi medesimi, che consentimo a tanti ornamenti, nostra ruina. Perciò Menandro disse saviamente che gli è piú util cosa a l’uomo di sepelire la donna che pigliarla per mogliere. Pertanto, savio lettore, avertisse ch’el pede e la gamba ornata della donna non vi mova ad averla per continua vostra doglia, perché dice Esiodo che, avendo tu la donna galante, hai quella che ti svoda la casa. E Plauto dice che vi sono molti vizi della donna, ma questo è il maggiore: quando si concia sbelletando per piacere a se medesima, dá opera che sia grata a l’uomo ancora. Pertanto mirate alle sue veste fimbriate, che vi presentano piú minuti retalgi che si possa tagliare, tratessuti di tanti colori di quanti l’Africa, e di piú, si suol ornare. Perciò rasi, damaschi ed orinesini non bastano per loro sottane, di colori secondo l’apetito, il quale non posso esprimere, per essere insaziabile. E sappiate che mal volintieri raggiono del busto loro, perché voi vedete che son piú sodi di le corazze, ed oltra le sogliono fodrare di piastra di ferro, perché dubitano delle mortali percosse, per essere sempre infedele al suo sposo. De l’ornamento del suo petto non vi dico cosa, perché voi vedete quanto astutamente, accortamente, con diligenza grande, con tutto il studio che accade, conciano il petto con le mamelle, che offeriscono quella rimulla lussuriosa agli occhi lascivi, coperta a pena con pendente d’oro o catena o altra giogia levantina. E, se mirate al volto e ciglie spelate, voi vedete tutti l’inganni, percioché con tal parte studia grandamente di piacervi. Di trezze bionde e capelli adulterini la testa di ciascuna se gli è ornata non accade che vi dica, perché, essendo forse calve o machiate di qualche rogna, la copreno con erba d’altrui. Scuffiotti e trocchi vi lasso giudicare a vostra posta, perché voi sappete quanto vi costano. Di orecchini e pendenti de le sue orecchie il prezo e la valuta voi sapete, perché in giogie avete speso non solo le vostre facultá, ma ancora il proprio fiato, perciò chi brama di vivere pacificamente, e senza struggere l’avere ed il spirito, fuggia la donna, spezialmente chi dá opera alla virtú e chi disia esaltarsi per via di qualche dottrina, perché la donna è impedimento di onore. Sí che direte che non si acquista corona alcuna stando accompagnato dalla donna strana, perché tal donna è fonte di pazzia ed acqua instabile, perché sempre va in volta col disio; al quale per sorte non satisfacendo il marito, ella diventa adultera senza rispetto, e ciò per vaghezza di ornamenti, in quali consuma il disio, ad effetto che con piú amanti refriggerar possa l’ardore di le sue ventraglie. Perciò, presentata e sodisfata, si accende di vanitá; di sorte, domenticata della fede e di promessa castitá, va cornegiando furiosa, non però mai sazia. E sapiate che vi sonno alcune, che spesse volte dimandano al marito cose disoneste, come praticar con persone infame, andare a spasso in lochi... tu me intendi. E qui potria dire di molte cose: nondimeno lasso la giunta al savio lettore, che possa introscriverla. Di sorte che avete a sapere che ella oserva piú feste che non fa la corte d’un gran principe. Pertanto chi s’accompagna a questi tempi con donna malvagia, si accompagna co’ l’animale che ha la mente impudica e l’animo adultero. Perciò intraviene spesso che l’uomo, morendo, faccia il suo erede colui che non ha generato, benché sia nato in casa, anzi vi dico che ’l nutrisce colui che mai ha semenato. Né di ciò si può accusare la donna, perché, lassato che ha il grembo, non si può infamare nè dire che sia adultera; pertanto assimiglio tal donna alla nave che va sulcando il mare, che, dopo sè, non lassa alcun vestigio: non resta perciò che per mare non sia passata. Pertanto iudico essere grandissimo dolore di vedere semenza d’altrui ed essere sformato di tenerla per propria fatica, essendo perciò frutto produtto de adulterio, e pure, come pazzo, sei constretto di chiamarlo: — Figliolo mio; — perciò presto scade l’onor virile per la adultera moglie. Deh, quante cose dona la donna al suo adultero delle fatiche del marito! E pure, astuta, fenge essere la figliola di Peneo, moglie di Dullo romano, matre di Grachi, figliola di Pitagora, anzi figliola di Costo, re di Alessandria, castissima. Perciò al povero marito ogni ora crescono gli affanni per cagion di quella che notrica; nondimeno altrui ardisse di casticarla! Perciò, o amogliati, avertite a’ casi vostri, spezialmente avendo la moglie bella. Benché la bella moglie gli è un tempio edificato sopra di un vil loco, secondo Socrate, overo gli è la confusione del marito, gli è l’insaziabil animale, gli è il continuo fastidio, gli è la guerra senza fine, gli è il danno cottidiano, gli è l’impedimento di contemplazione e naufragio del marito lusurioso, overo gli è il vaso d’adulterio, gli è la periculosa bataglia, gli è il gravissimo peso, ed è quel aspide insaziabile! Deh, Dio! che cosa debbio dire di quella, la quale nisuna cosa onesta può riprendere nè ritenere da l’errore, la quale nè la acerbitá del peccato, nè la sua gravezza la fa essere timorosa, anzi la intemperanzia la fa audace? Perciò dico che tal donna per natura è senza discrezione. Né vi meravigliate, o maritati, che ciò di voi io dica, perché io trovo che apresso gli antichi romani molti e molti anni è stata occulta la malignitá di sue matrone: imperò, conosciuta che fu, subito nacque sopra loro la legge: perciò leggesi essere decapitate centottanta publicamente. Né crediate, o donne, che ciò io cavo da la mia testa; ma leggete Euripide, Esiodo e Menandro, greci autori: trovarete le mie parole essere un recitar di loro sentenzie. Imperò Menandro, scrivendo il fatto vostro, per consolarvi dice: «La donna nel suo albergo essere a l’uomo una tempesta». Altrove: «La natura muliebre è cosa senza fede». Altrove: «La donna gli è la vita breve a l’uomo». Altrove: «Meglio è di sepelire la donna che averla per sua moglie, perché la donna gli è per natura non so che sontuoso». Altrove: «La donna altro non conosce, salvo quello che ella vòle; la donna simiglia alla donna, perciò donna è donna, e donna è donna». Altrove dice: «La mala donna gli è il tesoro d’ogni male». Altrove: «La donna gli è piú selvagia di qual vòi animale salvatico». Altrove: «La donna, il fuoco ed il mare son tre pericoli». Altronde: «La mala donna gli è il veneno di uno aspide». Altrove: «La crudeltá di una lionessa gli è equale a quella della donna». Altrove: «La donna in ogni loco gli è la presente tristezza». Altrove: «La donna, ornata di argento ed oro, gli è la feze odiata». Nondimeno io trovo che la donna agli uomini è un male deletabile, un dolore comportabile ed una ruina tolerabile. Pertanto, contemplando io la mia donna essere ornata di tute le dette virtú e costumi, poiché io cognobi essere contraria al viver mio, non potendo far altro che soportarla in pazienzia, che giá avanzava ogni religione, desiderava che ella almeno fusse muta per gli affanni e tormenti non dil corpo frale, ma de l’animo celeste. E, mentre che odo le pardi del cieco nato, mi parve di udire che Nifo dimandasse il savio vecchio del fatto del matrimonio. Imperò egli, desideroso di sodisfare al mio maestro, in questo modo cominciò dire.
Socrate. Un basar furioso.
Biondo. Non sapendo che spazio desse il cielo alla mia vita ne l’ora del mio nascimento, nè sapendo io qual vita fosse piú lodevole, libera, sola, overo ligata di laccio matrimoniale ed accompata di quella, che per natura al primo parente fu data per sua continua compagna — sí che natura ordinoe e fece la legge che, per consolazione propria e per la multiplicazione de la umana generazione, ciascun uomo avesse la sua propria donna, una e non piú, mentre che egli vivea; e cosí la donna avesse un uomo proprio e non piú, mentre che lei era viva; e dopo la morte un e l’altro che ’l si potesse giongere ad un’altra ed un altro onestamente, e per via della legge naturale; sí che parve alli primi nostri parenti de dimandare la copula di uomo e di femina «matrimonio» e piú vuolgarmente il «maritare»; — imperò, acioché ciascuno intenda come Socrate dice al mio maestro in doi parole che cosa è il matrimonio overo il maritare, con brevi parole, ma molte utile, vi esponeremo, se pure vi contentati de intendergli. Dico che il matrimonio gli è la legitima compagnia fra l’uomo e la donna, nella quale si obliga un a l’altro per propria volontá, overo gli è la marital coniunzione fra legitime persone che tiene la vita indisolubile, overo gli è la individua copulazione e la eterna consuetudine della vita. Né vi meravigliate che tal coniunzione non sia deta «patrimonio», cioè che descenda dal patre, come descende da la madre, perché pare che ’l patre gli è piú nobile ed egli è l’autore della generazione: nondimeno gli è parso alla natura ed alli prudenti che ’l matrimonio derivasse dalla donna, piú tosto che da l’uomo, perché la donna soporta e tolera piú affanni de l’uomo, come apare mentre che è gravida, e nel doloroso parto, e nel cinare laborioso. Imperò questa copula non per altro fu ordinata che per cagion della propagazione; il che considerando molti savi e dotti essere cosa molto lodevole, anzi frutuosa, si gionseno in matrimonio: come Omero con Crizia, Ptolomeo con Beronica, Cicerone con Terenzia overo Elbia, Socrate con Santipe, Aristotele con Erpilida, uomini pieni di dottrina; Priamo con Ecuba, Romulo con Ersilia e Iulio Cesare con Aurelia, principi e rettori di gran Stati e regni. E tanto è santo e forte il vinculo matrimoniale, che per nisuna cagione si può disolvere nè partire, sí che il matrimonio è cosa santa, ordenata prencipalmente da Iddio, il che si conosse dal grande amore che si vede fra maritati, e questo amore si prova con molti atti, concessi a maritati, e spezialmente col basare. Imperò Socrate, volendo mostrare il matrimonio essere cosa grata a Dio e diletevole agli uomini, el dichiara con quegli atti che molto piaceno agli uomini, e massime quali, apertamente ancora fatti, non son dannati da alcuno, anzi lodati sono sumamente. Perciò Socrate per gli effetti onesti prova la causa essere molto onesta, sí che dice che il matrimonio gli è un «basar furioso», cioè: fra maritati è lecito basarsi tanto cordialmente che di grande amore. Nel basar mostri l’ira de l’animo, acesa nell’atto piacevolissimo, come se dir volesse: a’ soli maritati esser lecito di basarsi apertamente senza timore e molto tempo, percioché le cose furiose son aperte a ciascuno e durano longo tempo, perché questo furore presto si accende, ma tardi s’aqueta. Nondimeno, per saper che cosa è il basio, convien che sapiamo di che parti de l’uomo, overo di qual suo membro, gli è ofizio tale. Pertanto ve aviso voi, che non sète gionti a tale etá, che per natura posiate conoscere il membro basiarolo, che sono le labra della bocca, con qual i sposati nuovamente danno e riceveno i dolci basioci apertamente, occultamente, in presenza ed in absenza ancora di queli che temeno. Oh dolce baso! oh piacevol basio! oh suave basio! Quanto veneno occulto, quanto tosico amaro, quanto grave cordoglio, quanto ramarico, quanto penar, quanto strugger del spirito celeste in te nascosto cova! Deh, chi ’l potesse comprendere, beati voi! Nondimeno per la commune affettazione del basiare, spezialmente delle bellissime, iudico che la natura abbia dotato i labri di suavissime proprietá. Perciò quanti non vi si possono spicare dalla sua donna per la dolcezza del basio! quanti si strugono basando! quanti stanno accidiosi per non poter satisfarsi nel basio! quanti lassano le delicate vivande, nutrimento di lor forze infiachite, per il basiare! Oh baso, fundamento reale della destruzzione nostra! oh basio, principio manifesto della ignoranzia! oh baso, edificio di lusuria! o baso suave inspirazione di mortalissimo veneno! Perciò non baso, ma caso, overo rovina umana, perciò non basio, ma opressione di la contemplazione; perciò non baso, ma separazione di ogni virtuoso consorzio. Pure, per non parere di non volervi sodisfare, vi voglio descrivere le sorte delle labra, accioché conoscati qual vi sono piú suave, e qual piú dolci di basiare. Sappiate, o voi che volete maritarvi, che le sorti de le labra vi sono sei sorti: labre gentili, labre grosse, labre gracili, labre distesi, labre sporte in fori, e labre torte ancora si trovano. Ma di che sorti di queste labra se spiccano li piú dolci, li piú cari e li piú suavi basioci, avemo a vedere: perciò diròvi il giudicio commune; perché il mio servarò apresso di me, mentre che Iddio vuole. Pertanto, usando giá ventiun anno, non compito, come udirete, quando carpiva, quando spiccava e quando rubbava basi dolci, basioci amari, basi grati, basioci sdegnosi, basi furiosi, basioci pieni di veneno, basi pieni di licor suave, basioci carchi di rabbia occulta, basi segno di amore, basioci segno di perdizione, basio concordia maritale, basioci discordia occulta. Deh, basio o basiocio o baso, se me fosse lecito de scrivere le tue proprietá, per certo le uderesti essere piú che non vi sono li maritati, piú che non sono quelli che si dilettano del baso, piú che non sono quelle che sono basate e piú di quelle che sperano ancora di essere basate! Ma, per non attristarvi, lasarrò da parte le sue proprietá, e diròvi, secondo il giudicio commune, che li basi e basioci se spicano da li suavi e grati da labre gracili e gentili, purché siano sporte in fuori alquanto. O labre succarele, zuccarele, inzuccarate, quanti ne avete non solo ingannati, ma ancora oppressi di mortal ruina! Ma labre grosse, insuave, labre bavose, labre bovine, labre della mia mula che sempre bavegia, e labre povere di nutrimento, piú delle volte son cagion de scognare i denti: perciò tal labre offendeno, piú tosto che inducano alcuna suavitá basando; imperò si deveno recusar di basare. Ma quanto i labri son piú robicondi, tanto sonno piú deletevoli li sua basioci, perché sono pieni del succo, dal quale nasce suavissimo baso. Sí che, lassando le cortegiane e la cortigiana lascivia, quando voi vedarete onesti uomini e donne basarsi, giudicarle essere congiunti in matrimonio; non perciò, per un semplice baso, perché il baso talvolta fra amici e parenti gli è segno di un certo onesto amore e benevolenza. Pertanto il baso furioso è di maritati, semplice gli è di amici e parenti. Né qui intenderete di quel baso di Teseo con Ariadna, nè di Paris con Elena, nè di Pirro con la nepote di Ercole, nè di Telamone con Esione trogiana, nè di Achile con Briseida, nè di Aiace con Tecmessa, nè di Cefiso con Liriope; ma del Biondo, giá maritato con Iulia Marsia napolitana, nobile di sangue, ma di lingua iniuriosa.
Socrate. Un esser nudo.
Biondo. O lieti fiori, o felici erbe, o plage amene, o freschi colli, o dolce rive, o schietti arboscelli, o frondi verde, o selve ombrose, quanta invidia vi porto! Perché voi non temete il verno nè la estate, perciò non accade a voi che vi vestiate nè che vi spogliate. Ma a noi, miseri mortali, non solo accade di vestersi e di spogliarsi, anzi gli è cosa necessaria con ogni studio sempre, e mentre che si vive al mondo, di dar opera a vestirsi, poscia ed a spogliarsi di quei panni, che ordinoe la natura che si convengano a ciascuno per sua sorte, percioché ciascun di noi nacque nudo al mondo, nudo di vestimenti, nudo dil sapere, nudo dil ben e dil male, nudo di ciascuno disio, nudo di oltraggio, nudo di simulazione, nudo di amore, nudo ancora di odio. Il che essendo cosa notissima a Socrate, mi pare che, continuando il suo ragionamento, dice che nel matrimonio convien che sia «nudo». «Nudo» disse, ma non avendo detto egli qual di dua conviene che sia nudo, mi pare che ’l Nifo mottegia, volendo saper da lui chi debbe essere nudo. — E di che cosa? — pertanto parmi ch’el dica — l’uomo piú tosto che la donna, overo la donna piú che l’uomo debbe essere? — Imperò Socrate parmi che parla impersonalmente, dicendo «un essere nudo», cioè che tanto l’uomo quanto la donna, coniunti in matrimonio, debbeno essere nudi; nondimeno, questo «esser nudi» potendosi intendere in piú modi, pare che ’l mio maestro dica: — Di che cosa debbono spogliarsi per essere nudi? — Poscia parmi che, ragionando adaso adaso, el dica: — Forse debbeno esser nudi di natura del lupo? — No. — Debbeno spogliarsi di proprietá del delfino? — No. — Debbon esser nudi de natura de l’aquila? — No. — Debbeno spogliarsi di natura dolce e molle? — No. — Debbon esser nudi di color bianco? — No. — Debbono spogliarsi di proprie forze? — No. — Imperò, volendo il savio vecchio essere inteso, per descrezione disse: — Si convien di spogliarsi e mostrar le carni nude per satisfar al suo sposo, dopo il furioso basiar, accioché la moglie mostri tutta la affezzione, l’amor e benevolenza al suo marito, in darsi a lui, come preda al caciatore, essendo venta, perché i vestimenti e panni alle volte impediscono la satisfazione di uno e di l’altro. — Imperò, sí come ne l’atto di contraere il matrimonio si conviene puritá del core, sinceritá della mente e concordanza di parole, cosí medesimamente si ricerca la satisfazione de l’apetito e volontá umana a’ giunti in matrimonio. Nondimeno mi pare che Socrate volesse dire: nudo essere ignorante, nudo essere senza vizio, nudo essere senza fraude, nudo essere senza inganno, nudo essere ogni cosa aperta. Esser nudo non mai pensar ad alcun inganno; essere nudo non mai far ad altrui quel che non voresti che fusse fatto a te; esser nudo, cioè di voler quel medesimo che vòle il compagno; essere nudo, non aver una cosa al core e l’altra in bocca. Pure, vedendo che Socrate non ragiona d’altro che del matrimonio, perciò «nudo essere» overo «esser nudo» diremo che significa: la bona moglie di aver sempre nel core il suo marito absente, e non altrui, perché cosí será nuda di peccato, ma dirási essere vestita di castitá; ed altro tanto dico del marito. Altrimente essendo, dico che «nuda» significa quella caccia che la moglia ria sòl aparechiare al marito, armandosi di dua o tre cani, con quali l’avesse a offendere cogliendola ne l’errore alla improvista. Nondimeno dirò con quel prudente greco che «nudo» altro non significa che esser spogliato l’uomo con sua moglie, e la donna con suo marito, ch’è summa suavitá e convenienza fra il marito e la moglie sino alla vechieza. Oh santa convenenzia! Oh beata convenienza! Oh celeste concordia! Oh convenienza elementale unione! Oh convenienza finalmente pace angelica! Imperò non convenienza ma sconcordia, non convenienza ma tempesta orribile, non convenienza ma guerra, come si vede oggi in dua cristianissimi principi e suinamente catolici difficilmente per finire altrimente, salvo che, per loro ultimo fine, gli è stata la mia condizione, giá venti anni e nove mesi. Sí che «nudo», apreso di me, significa privo di pace, nudo di riposso, privo di consolazione, nudo di contenteza, privo di libertá, nudo non di miei panni, ma spogliato era di quanti piaceri che si trovano al mondo. Perché la mia donna non immitava la moglie di re Admeta, la qual deliberò di morire per raquistar la salute al suo marito gravemente amalato; anzi ella desiava la mia morte, e di poca mia infirmitá si alegrava. facendo festa. Penelope servò la castitá venti anni e persino al ritorno di Ulisse; Ipermestra liberò il marito da la morte; Laodomia desiderava Anfiarao morto; Porzia, udita la morte del marito, col foco aceso vòlse morire; Ipsicratea combateva in compagnia del marito Mitridate, con capili rasi per piú commoditá de l’elmetto, contra li inimici: ma la mia donna si accendeva di ira e sdegno per far guerra con me solo, anzi pregava Iddio che eccitasse li miei inimici contra me ed a la mia morte. Pertanto non era nuda nè spogliata, come io, di odio manifesto, di crudeltá palese e di inimicizia, giá nota a l’universo. Gli è ben vero che io era nudo di libertá, nudo di pace, nudo di riposo, nudo di contenteza, nudo di piaceri, nudo finalmente di tutte quelle cose che consolano la vita umana. Deh, quanto potria dire di l’essere nudo! Nondimeno non mi pare cosa onesta che al presente sappiate tutto il significato di questa parola: imperò bastavi a sapere che un «esser nudo» significa quella cosa giustissima; ed è che la donna maritata aspetta il suo marito absente, casta, pudica e senza alcun errore, sempre avendo la sua figura nella mente, sí come l’ha inanzi gli occhi quando egli è presente.
Socrate. Un cavalcar.
Biondo. ludico, o maritati, esservi noto quanto Pericle amava la sua moglie, poiché, continuamente stando in casa, gli era al lato, sí che se la basava o accarezzava altrimente. Lasso considerar a voi perciò di Periandro corinzio: tacerò la benevolenzia, che era fra egli e la moglie, perché mi persuado che voi sapete, come si legge, di averla abraciata morta. Imperò di me, afflitto, che debbio dire? Perché era sforciato, cavalcando per il mondo per fuggire l’aspreza della mia donna, impir le valli di miei lamenti, crescere li fiumi col mio pianto, placar le fere con le mie pene, invescare li vaghi uccellini con la mia saliva dove io sputava, inescare i pesci col proprio mio cibo, scaldar l’aria serena col mio suspirare e far amaro ogni sapor dolce dov’io alogiava per consolarmi alquanto. Pertanto, quando Socrate disse al mio maestro «un cavalcar» essere cosa di matrimonio, mi parve che volesse intendere di qualche partenza, overo mutar talvolta il paese, e ciò si fa cavalcando, accioché in tutto non se consumi il marito al lato della sua moglie; perché, quando li detti si amano con perfetto core, per grande benevolenza si sogliono consumare, come la cera a canto il fuoco. Sí che li primi miei sette anni, stando al lato della mia donna, odendo alcuno che diceva di voler cavalcare in parte lontane per la straneza della sua moglie, mi maravegliava grandemente come li comportava il core di fare tal partenza; sí che, conoscendo loro piú di me ed avendo provato quello che io aspettava di gustar amaramente, non potendo soportar le pene, li guai e li strani appetiti della sua moglie, deliberavano di cavalcare tanto lontano, che mai piú potesseno udire il nome di tal donna fastidiosa. Perciò molti facevano professione di domare cavalli del paese atti alla fatica, molti se dilettavano di alevar zanetti di Spagna, molti se innamoravano di corsieri turcheschi e molti di cavalli francesi, molti di crovati, overo sardi arditi, e molti di schiavoti; e chi di questi ancora non poteva essere patrone, per averlo impoverito la superba e vana moglie, egli nutriva la sua roza solo per poter andare lontano. Dch, cavalcare amaro! cavalcar dolce! cavalcar sconsolato! cavalcar contento! cavalcar confuso! cavalcar, finalmente, satisfazione della pena corporale, ma afflizione della mente! Perché chi mai, partendosi da la sua moglie, furia del mondo, si parte contento, si parte lieto, si parte sodisfatto, si parte per tornare in magior tormento e pena, tornando egli alla sua moglie? Dch, Dio! oimè, che gli è piú grave il ricascar nel male che non vi è la prima infirmitá! Nondimeno, conversando con varie nazioni, non mai vidi pur una che non avesse non mille, ma mille millia scontenti amogliati: perciò alcun di quei desiava di aver il cavalo di Castore «Cillaro» chiamato, alcuno Rebo di Mezenzio, molti Etone di Palante e molti Pegaso di Neptuno; quel il cavalo alato di Medusa, chi Arione da Neptuno dato in dono ad Adarasto, chi Bucefalo di Alesandro, chi Pasace de Ciro, immite ed efreno, chi Boristene di Adriano e chi tal cavalo, qual era di Artibto, capitano di persiani, il quale, nel prosimo asalto, col morso ruinava gli inimici. Imperò tutti questi disiri non per altro si odevano che per la domestica guerra. Oh guerra iniqua! guerra iniusta! guerra ruina sí de chi vence come de chi perde, per essere guerra domestica! Nondimeno, contemplando la parola dil savio Socrate, trovo che non senza gran misterio egli ha detto un «cavalcar» essere conveniente al matrimonio. Forse egli intese di spasi e recreazione, che si conviene talvolta a maritati, percioché a cavalo si spassa l’uomo magiormente che a piedi. Pertanto dico che alora la moglie sta contenta, quando cavalca col marito per piagge amene, per verde colline, per valle ombrose, talora, e selve scure. Oh cavalcar grato! cavalcar contento! cavalcar senza guerra! cavalcar senza contesa! cavalcar amoroso! cavalcar dolce! cavalcar assai piú grato alla moglie che al marito! Oh che maraveglioso offizio! Oh che lodevole esercizio gli è il cavalcare! Il cavalcare gli è cosa signorile, il cavalcare si appartiene a’ gran maestri, il cavalcare ama il gentiluomo, il cavalcare disia el citadino; non si stima alcuno essere di qualche cosa salvo che tene el cavalo: perciò non mi maraveglio che ciascuno si satisfacia piú a cavalo che a piedi, perché mi pare che la natura ordenasse il cavalcare. Pertanto chi ama le cose naturali gli è amico di natura, e chi biasima il cavalcare gli è inimico del proprio riposso, non che di essa natura. Pertanto, o voi amogliati, mentre che state in pace, per conservar il matrimonio santo, cavalcate con la vostra moglie, basandovi spesso; e talora, spogliandovi, ricavalcate, perché cosí diventarete parenti di belli figliuoli, di cari figliuoli, di dolci figliuoli, i quali assaissime fiate serano cagion di perpetua pace e di eterno amore; benché in me solo questa regola è stata falace. Perché non mai, passati li primi sette anni con copia di figliuoli, con cavalcar spesso e ricavalcar, di giorno in giorno, trovai pace; anzi, non so da che cagion, nacque tanta la guerra, che, nè cavalcando, nè stando, nè dormendo, nè vegliando, aveva un punto de riposso. Né perciò credete ad alcuno che dicesse il contrario, perché in satisfazion matrimoniale non mai al mio pare ho ceduto nè cederia: dil che vi acerta la copia di miei figliuoli, nati secondo la legge e matrimonio.
Socrate. Un pigliarsi a doi mani.
Biondo. Lungo fora a contarvi come l’amor mi condusse in la pregione il primo giorno di quel mese, quando le rose e fiori suave odore rendeno ai spiriti nostri per consolargli. Lungo fora ancora a contarvi quando l’amore diceva al mio core, che per me solo è sciolto, il viver mio serebbe apena un giorno. Sí che parve al traditore di ingannarmi, benché, in quel tempo di venti anni o poco piú, averebbe ingannato un piú saggio di me. Sí che, posto che mi ebbe il giogo al collo, le catene alle mani e ceppi alli miei piedi, me li fe’ sentir piú dolci e piú cari che era di andare sciolto. Nondimeno, afflitto me! pur, quando egli vòlse, me avidi del mio male, invero tardi per me, ma per lui parea ancor per tempo. Pur, cercando egli de incatenarme, mi mostrò le trezze di una donna di color d’oro, e di tempo a’ miei biondi capelli uguale, poi un fronte chiaro fece mostrarmi, sotto al quale mi fe’ vedere un vago lume, che ardeva oltra misura, di quei bei occhi, di quali la morte ora me fa essere scarso; e oltra mi fe’ veder il viso ornato di pietosi colori e di esca amorosa, che dal petto venia a quei labri vermigli, di quali ricevendo il fiato, ardeva maravigliosamente; e, vedendola movere, non mi pareva che andasse come donna mortale, ma come angelica forma. Benché la sua voce non altro organo era che umano, pure il suo spirito mi pareva celeste, anzi mi parve il vero sole, quando la vidi la prima volta. Imperò, per servare la legge matrimoniale, la pigliai non per una mano, ma per tutte dua, come giá avea inteso dalla dottrina di Socrate. Né vi maravigliate che io la pigliassi per le dua mani, nè che Socrate mi persuada quel che oggi non si oserva; perché non pare che piú una mano che l’altra abbia della virtú del core, perché il core non sta piú in parte sinistra che in parte destra. Pertanto, desiando che equalmente la virtú del cor della mia donna fosse unita al mio core, la pigliai per le dua mani, perché mi pare che Socrate vuol che fra gli altri spassi umani il senso del tatto gli è gratissimo senso a l’uomo. Il che omai, o maritati, devete sapere per averlo provato, come io ancora: perciò ve aviso che, se ve dilettate dil tatto della vostra donna, senza avedervi vi trovarete senza le forze, senza umore, recreamento del vostro spirito e finalmente senza la vita. Pertanto io vi dico che questo senso gli è senso grato, senso giocondo, senso piacevole, senso magior satisfazione della carne che del spirito, oservato con moderazione. Ma chi di voi trascorre la mèta de la moderazione, son certo che trovará questo senso acerbo, senso amaro, senso inanzi veduto ramarico, senso finalmente cagion della distruzzione dil corpo e de l’avere. Ma, perché Socrate ragiona delle mani, membra de l’uomo, necesari al corpo sí per suo ornamento come per suo servigio, imperò mi pare di recitarvi le sorte delle mani e di narrarvi il suo offizio, accioché sappiate ricapar le mani grate al tatto, le mani delicate a tratarli, le mani principio della disposizione alla unione, le mani concitamento alla gratissima accoglienza. Oh che membra sonno le mani! e quanto ben ordenate dalla natura! Pertanto beato è colui che ha le mani felice, e colui che ha le man infelice; e per contrario colui, che non ha le mani, gli è infelice e disgraziato, anzi è monstro di natura. Sí che sapiate le sorte delle mani voi, che vi dilettate di tratar la mano di la vostra donna o di altra. Dicovi che Colui che creò l’universo fece a l’uomo le mani grande, mani piccine, mani contratte, mani conveniente, che non fossero troppo lunghe o curte. E le mani de l’uomo sonno differente dalle mani della donna: perciò di alcuno uomo sono le mani grave, man dure, man forte e grandi, benché si trova l’uomo con man molle, leve, e giuste mani, e manco forte. Imperò le man di donna, a rispetto de l’uomo, sonno piccine, man strette e mani breve, man rubiconde, come ancora si vedeno in molti degli uomini. Pertanto, lassando la considerazione delle man dell’uomo, dichiareremo solamente le qualitá delle mani della donna, accioché sappiate la natura della donna e di sua membri dal tatto, quando voi la pigliate con una overo con doi mani, secondo il precetto di Socrate. Pertanto, se trovate le mani di una donna piccine, indicate che tal donna è lusuriosa e di poco ingegno; le mani breve e strette arguisseno la difficultá del partorire, tal mani ancora mostrano la sua natura essere della medesima porzione; e voi, maritate, il sapete: perciò non mi stendo piú chiaramente. Le man vermiglie per natura son segno di complessione sanguigna e di insaziabile apetito della admistione.
Socrate. Un volger d’ochi.
Biondo. Sola morte poteva chiudere a li miei pensieri amorosi la via che me conduceva a l’infelice porto di miei affanni; perché, cecandomi in tutto, non avria girato gli echi nel bellissimo viso di quella, che ’nanzi il tempo me cacciava sotto terra. Pertanto ve aviso, cari miei lettori, che siate accorti di conoscere co’ l’intelletto vostro quanto son dannosi gli ochi di una donna, spezialmente vaga, perché nisuna altra cosa ancora me condanna ed ha condannato che ’l volgere di ochi vaghi. Pertanto, pria ch’io dica degli occhi concordi alla unione matrimoniale, dirò di miei, lamentandomi di sua natura e di troppo acuto e studioso sguardo overo «luce», come dicono piú consolati di me. Dch, occhi miei! dch, luce, guida di questo corpo affannato! dch, lume di intelletto ancora, ditemi, per grazia, che vi giova, per essere stati voi cagione di condurme a’ strazi e stente, avendo voi per obieto cosa piú bella, piú degna, piú onorata, piú aprezata e piú desiderata da ciascheduno, che non è la donna? Dch, ochi miei, perché fosti veloci in trovar quella che nel piú bel mirar vostro vi fece diventar lassi? Dch, perché ve girasti vo’ nel volto di colei che fu cagion di farme penar quasi ventiun anno? Dch, ochi miei, perché ve apropriasti il lume de l’intelletto cecandolovi, e voi per tropo gran luce occupastevi il vostro splendore a tale, che intelletto, per essere privo di lume, e voi, per averne molto, me avete condotto nella pregion, da la quale non mai l’uomo, ma la morte sola me ha liberato? Perciò non a voi, ma ad ella rendo infinite grazie, perché voi di libertá me avete posto in servitú, ed ella di servo me ha ridotto alla mia pristina libertá. Pertanto, ochi miei, per me fosti mal ochi, ochi dannosi, ochi scandalosi, occhi ribeli a me, ad altrui fedeli, ochi miei cieco lume a me, ochi mei fiamma overo furore, ochi miei impeto giovenile, ochi miei! Deh, voi, miei ochi prestezza senile, cagion di piú grave morbo, che non è il dolor di gionture; ochi miei non giá, ma tenebre, poiché al petto mio avete tolto la forza e via di spiriti, di sorte che non afronto piú ardua cosa, anzi rendo la voce per le vie e canali assutti, come un organo discordato overo impoverito di sua instrumenti! ochi miei non giá, ma veri inimici, perché sète cagion che ogni cosa abbia a stomaco, onde che, pria che da voi fosse si mal guidato, padiva persino il ferro, come fa il struzzo! ochi miei non giá, ma profondi pensieri, e in che voi sapete, e quanto e come mi disleguo, mi sfaccio ed ancora mi squagliarebbe volintieri, a guisa d’un ghiaccio, se voi, ochi miei, non foste cagion della mia lunga lunga via! ochi miei, che dovevate essermi lucerne, accioché io vedesse con quell’uomo che vi sta drento in me, perché io non son vero uomo senza esso, il quale comprendo, ma non veggio per cagion vostra! di voi, ochi miei, dirò omai gagliofi, rubaldi e scelerati a colui che vi porta, che vi conforta, che vi lava, che vi adorna, che vi passe dalla fanciulezza e giá persino alla etá virile, anzi alla omai inclinata vecchiezza, che ha di bisogno piú di riposso che di stenta! Pertanto scondetevi, se altro piacer non mi potete fare, acciò non siate piú cagion di altri miei affanni o altre pene; perché, se novo obietto per voi entra al mio core, di altrui no. Ma doleròmi di voi soli e dil vostro volgere, perché voi sète cagion che io abbia disiare l’ultima ora del mio fine, voi sète cagion di longi miei martiri, voi sète cagion di lunga mia fatica, voi sète cagion che, guardando la donna, me ricordi della mia pena acrescendo! Deh, ochi miei, miei occhi, quanti me fate vedere che la mia vita struggeno senza accostarvisi! ochi, deh, ochi, con quanti ve infrontate, che mirandovi si sforzano di affasinarvi! ma voi, miei ochi, non vedete quanti mali ochi vi occorreno, quanti ochi non so che sempre vi rubbano. Perciò, ochi miei, pregovi che, afrontandovi con ochi maligni, vi sformate di conoscere la loro disposizione dal moto, da le vene, da la figura, dal suo colore, da la sua prodezza e da le proprie sue operazioni; perché, se voi sarete soleciti di comprendere la natura di vari ochi, non vi lassarete ingannare dagli ochi umani. Pertanto, o maritati, ve aviso che abbiate essere pronti nel volgere de li vostri ochi a cerca a cerca; perché, essendo la donna vostra ornata di ochi tenti di rosso, direte ella essere sticiosa e di animo altiero, sí che la dimandarete «corociaréla» per eccellenzia; perciò tal donna giudicarete essere da poco. Pertanto ve avisa il savio Socrate che conviene che l’uomo amogliato spesso spesso volgia li sua ochi, aciò da la sua donna tale non sia ingannato. Ma il tardo moto degli ochi e pigro acusa la vostra donna esser litigiosa e falsidica. E, perché vi sono varie sorti degli occhi, varie nature di donne e vari costumi {di quali noi abbiamo scrito nel libro Della cognizione de l’uomo), pertanto tuti, tuti voi, mal maritati, ricorete alla sua dottrina, perché ivi trovarete quanto vi è necessario di sapere, sí che spesso volgerete li vostri ochi a cerca la donna vostra, senza che vi esorta il savio vecchio; perché la scritura nostra ve insegna a quanti modi avete a volgere li vostri ochi, benché si volgeno alcuna volta per la satisfazione di la vostra donna nel stretto abracciarsi ed altre piacevolissime cortesie, come voi sapete. Imperò non vi maravegliate che io non mi stendo qui del vario volgere di ochi e di varie persone, perché son certo che voi sapete che qui non ragiono del volgere de’ ochi di lascivi amanti, non di astuti cortigiani, non di mercanti avari, ma solo di voi, che forse non meno di me angosciate, non meno di me forse vi dolete di la vostra sorte, penando, come io penai, per mia disgrazia. Sí che, accorti, volgete spesso li vostri ochi al bisogno della vostra donna, alla sua contentezza, alli sua spassi, se amate vivere contenti nel sacro e santo matrimonio. Il che facendo, la donna vostra comprenderá esservi grata, di sorte che la indurete a maggior vostra benevolenza, a servarvi la promessa fede, studiando solo di piacere a voi solamente e non ad altrui. Sí che volgetivi spesso alla donna vostra, se non volete essere dannati da ella, come io son stato dannato. Non mancai perciò in tutto quelo che ’l bon marito deve fare per compiacere alla sua donna; nondimeno la mia sorte è stata tale che, stando amogliato, tutto quanto ero fatto mole. Perciò non vi meravigliate che ancora io vado scolorito e con poche forze, perché di longo stracio, non altrimente che di lunga infirmitá, uomo stenta longo tempo a refarsi e ristorarsi.
Socrate. Con una man aperta.
Biondo. Poiché la vista serena di uno angelico aspetto ralegra l’uomo in sua presenza, giudico che similmente la sua partenza l’atrista, ed è cason di quel dolore che attrista la sua anima piú di un grave fetore. Percioché savio Socrate ragionando con mio maestro, parmi che ’l dica: — Chi ha la bella donna per sua consorte rare volte omai li leva l’ochi da dosso. — E, se pur adviene che non la mira, nè la può vedere, vòle che l’uomo la tenga con la man stretta, e l’altra abbia operare per suo servigio, come se dir volesse: — Fa’ che la tua donna non si parta da te tanto che non la possi toccare almeno con la mano, perché quanto la donna è piú magra, tanto è piú vana e da piú gioveni è disiata. — Pertanto vi aviso tacitamente, o maritati, che poco ve abbiate a luntanare dalla vostra donna, overo vi esorto che non mai li abbiate dar tute dua le mani, acciò non paia che di voi possa fare ciò che ella vòle, come di suo servidore. Imperò ve insegna il savio vecchio che alla vostra consorte siate liberali con una mano, e con l’altra sappiate conservare li commodi vostri, perché la donna è suficiente in brevissimo tempo consumar l’avere acquistato nel tempo di vostri antecesori, non che il presente vostro guadagno. Sí che in questa parte Socrate vi admonisse che siate accorti, percioché le mani son quele che porgeno e ricevono le cose grate; le mani son quelle che, dopo l’ochio, vi satisfano in ciò che voi, disiando, toccate. Deh, mani, cagion sí del bene come del male! Deh, mani, mezo di riposso e di stenta ancora! perché il vostro tatto ripresenta al core la cosa grata ed odiata, e perché le mani son le membra fatte dalla natura a l’uomo sí per ornamento come per sua necessitá, perché di quelle l’uomo si serve grandamente. Pertanto noi vi dichiararono le diversitá di questi membra, accioché, non solamente operando voi con le vostre mani, ma ancora toccando quelle d’altrui, possiate conoscere
la bontá ed il vizio di colui, overo colei che toccarete la mano. Pertanto le mani di alcuna donna son grande, di alcuna piccine, benché noi abbiamo veduto le mani strette, anzi gobbette alquanto; ma le mani conveniente al corpo sonno nè tropo lunghe nè molto curte, nè gobbette overo strette: imperò le mani della donna trovarete differente da quelle de l’uomo. Perciò, toccando la mano grande, dura e ponderosa, giudicarete tal uomo essere di fatica; ma, se ciò voi trovate in qualche gentiluomo, direte essere di casa generosa. La mano piena di carne significa l’animo inquieto, e forte grassa vi accusa l’intelletto bufalino; le man sutili e gobbette son segno di uomo guloso, le man dritte fanno testimonianza di verbositá, e le mani ristrette son segno di furente; e chi move spesso le mani, di sorte che pare di scrimire, direte essere ingannatore ed invido e bel parlatore. Le tremanti mani segno di sdegnoso, e molto collorite di imbriaco e di sanguigna complessione; man sottile e lunghe segno di pazzia e desideroso del tirannizare; e, spezialmente in donna, le man piccine son segno manifesto di sozzo e vil amore e di grosso intelletto, ma curte e le mani strette, son dimostrazione de diffícile partorire. Piú cose ancora vi potria dire delle mani e quale debbono essere del marito verso la sua moglie: nondimeno, per non intrar in disgrazia delle donne, mi perdonarete, o maritati, che non mi stendo altrimente con essempi nè argmnenti, perché mi pare che vi basta quanto vi ho scritto per vostra dottrina, dichiarando quanto me ha instrutto il savio vecchio, ragionando con mio maestro. Imperò bastavi avere una man stretta e l’altra aperta, in satisfacione de la vostra donna. E perciò, savio mio lettore, da questa dottrina piglia quel documento che te conservi con l’avere, per maggior bisogni che non sono queli di la vostra donna, che ad altro non attende che alla propria vaghezza. E, perché le mani son dotate dalla natura del senso dimandato «tatto», pertanto quante parti son nella donna, che ’l tatto è cagion che ’l spirito nostro gode molto magiormente che non fa per il vedere! Il che se gli è vero, son certo, o maritati, che, quando voi toccate le mani morbide, molle e pastose, ritratandole con le vostre deta,
di sorte che le sua giunture cedeno al vostro tatto e manigiamento, vi si fa sentire nelle vostre medolle una tenerezza che vi fa ragionar il spirito vostro in voi, che voresti essere un medesimo corpo con la vostra donna. Ed, essendo satisfatto dalla man bianca, dalla man delicata, subito vi viene magior disio, e di piú nobel membro, che non vi è la mano: ed è quel volto sereno, quella faccia bella, quel viso angelico, il quale, guanciando con la mano, vi fa sentire in mezzo del core vostro un rinovarsi di contentezza, un struggersi di tenerezza, un voler dire non so che piú, che di essere suo in anima ed in corpo, spicando quei basioci cari cari, per mezo di quali il spirito di tuti dua par che si faccia uno medesimo, il che vi acerta quel mancamento che vi par di avere del spirito. Deh, voi, maritati, voria sapere se voi me intendete. Son certo de sí. Perciò ditemi ancora: quando sendete con la vostra mano dal volto alle mamelle per guanciarle, che spasso, che piacere, che contentezza voi sentite! In veritá mi persuado che non avete modo nè arte di esporla, ed io manco in ricordarmi di le satisfacioni nel tatto alcuna volta di colei, che me faceva diventar il core quando di giaccio e quando di foco. Pertanto il resto, che si può dire circa il tatto, voi supplirete, perché a me, essendo privo di la mia donna, mi manca l’animo, ricordandomi dil detto tatto, a guisa di colui a chi si rinovano le piaghe antiche. Perciò mi perdonate a quel che io manco.
Socrate. Un macinar a tempo.
Biondo. Nella piú bella etá, overo nel piú fiorito tempo della mia vita, quando ogni mio succo, essendo verde, aveva la magior possanza che l’uomo deve avere in questa scorza terrena, cominciai stentare a guisa di uno molinaio: perciò lamentarmi conviene. E de chi, sássel colei che fu cagion di ogni mio lamento; per cui oggi ancora la mia vita pena e stenta, a sembianza del ladro mollinaio. Sí che, se sconsolato me vedete, o maritati, adviene per ciò, sapiate, che ’l lume mio amoroso giá, anzi la sustanzia degli ochi miei, ha portato con sè colei che, involta nel doloroso velo, non piú con me, ma contende con la terra; ed a me fa cangiare ogni di il pelo, racordandomi della mia stenta, piú aspra d’uno molinaio, fatta nel tempo che ella viveva. Perciò dura legge fu di Socrate, perché, ancora che ambidua siano di uno e dil medesimo volere, non mai possono essere síconcordi, che ogni cosa di voluntá di tutti dua venga osservare un medesimo tempo, come si vede in piú maritati. Pertanto non so se dil tempo, che fugge piú d’una frezza da l’arco, mi debbio dolere, overo di me stesso, che nel macinare non sapea concordarmi con la mia sorte. Non so perciò a che modo vòle il savio vecchio che ’l mio maestro intenda il macinare essere cosa di maritati, salvo non voglia usar al presente qualche metafora; overo voglia dire, per essempio, che, cosí come il macinar consta da doi ruote di marmo gravissimo, nondimeno, volgendosi a tempo per forza del corso di l’acqua, fanno diventar il grano tritissima polve, e ciò in ésca umana; cosí ancora intendo che voglia inferire il detto vecchio che, ancora che ’l marito sia greve e moglie ponderosa, cioè uno abbia un volere e l’altro diverso disio dal compagno, nondimeno non mai fanno la bella prole nè crescimento di robba, salvo quando si concordano. Pertanto, studiando gli anni passati dal mille e cinque con vintidua sopra cento, persino a tre sopra quaranta con cinquecento e mille anni correnti del nostro Socrate, macinai tanto col mio molino, che la prima volta dalla concordanza sponsalle generai dua creatura: per non errare, uno fu maschio e l’altro femina. Ecco il macinar concorde, ecco la farina delle due mole, ecco la veritá della metafora del savio vecchio. Poi, in processo del tempo, macinando come ’l bon marito, in piú volte fui produttore di sette figliuoli con la mia consorte, con tutto che era diventata furia del mondo, come sapete; di sorte che nel medesimo macinare me ingiotiva, me mordeva, me sconsolava con lingua piú acuta di qual vòi serpente: ed io, reprendendola, ringraziava a Dio, pregandolo che da molinaio me facesse diventar romito, come io giá son diventato, per grazia di Sua Magestá. Imperò, o voi, che nel matrimonio avete il nome di un bono molinaio, diròvi il tempo ed il modo del vero macinare insino che ’l sacco diventa pieno, benché mi persuado che voi sapete macinar perfettamente; ma non tuti sapete far la bona farina nè impire il sacco secondo che comanda il detto vecchio. Pertanto sapiate che ’l tenero molinaio non fa la bona farina, nè ancora troppo atempato. Perciò pigliate l’essempio da l’aratore, il quale non mai dispone la terra a far bon frutto con iuvenci, specialmente non usati al versore, nè ancora la terra si cultiva perfettamente con bovi invechiati. Pertanto, quando volete che ’l campo renda bon frutto, cultivate la terra con bovi maturi, bovi usati, ma non consumati da la fatica; il che si vede con esperienza. Perciò la cosa essendo chiara, non troppo mi stendo a dichiararla. Sí che sappiate che ’l bon molino conviene essere franco di gabella per nove mesi con il ventre pieno: pertanto ve aviso, o maritati, cercate di avere bon sacelli, se volete che la vostra farina non si spanda, perché il sacco rotto overo tarolato non serva la vostra farina. Del macinar a tempo non vi ragiono, perché son certo che sète soleciti in concordarvi con la vostra molinaia; nè crederete che questo macinar sia cosa moderna, ma vecchia overo antica. Perciò con molti esempi, per consolarvi, ve acertaremo, cominciando da l’antichissimo macinare. Narrano li sentori che Demorgorgone produsse otto figliuoli: Litigio, Pane, Cloto, Lachese, Atròposo. Polo, Pitone, Terra. Ed Èrebo produsse Tartaro, Taigete, Anteo, la Note e Fama, Amore, la Fatica, la Paura, la Frode, il Morbo, el Pallore, Sonno, Caronte, il Giorno, il Cielo, la Grazia, Invidia, il Dolo, Pertinacia, Povertá, Miseria, Fame, Querela, Vechiezza, Tenebre e la Morte. Oh che divino, oh che eccellente produttore fu questo! Ma non troppo bono per noi altri! Iove pria produsse Apis, Sole, Mercurio, Tritopatre, Epuleo, Scita, Dionisio, Ercole, Libero padre, Epafo, Minerva, Diana e Proserpina, Mercurio; secondo produsse Cupidine ed Auctolio. Belo generò Danao, Egisto ed Agenore. Agenore produsse Polidoro, Fenice, Cadmo, Labdaco, Taigeta ed Europa. Cadmo generoe Semele, Agave, Autonoe ed Ino. Edipo fece Eteocle, Polinice, Antigona ed Ismena. Il Cielo generoe Vulcano, primo, Mercurio, Tosio, Titano, Iove; secondo Oceano, Ope, Tetis grande e la grande Venere. Acheronte produsse Ascalafo, Aletto, Tesifone, Megera, Vittoria e Stige. Titano fece Iperione, Briareo, Ceo, Tifeo, Encelado, Egeone, Iapeto, Astreo, Aloe, Palene, Runco, Purpereo e Licaone con Aurora. Iperione produsse il Sole e la Luna. Il Sole generò Fetonte, Mileto, Fetusa. Salapezio produsse Dirce, Pasife, Etá, Circe ed Egina. Latona fece Apolline e Diana. Amfione produsse Archemore, Antegoro, Tantalo, Fadimo, Sipolo, Senarco, Epinito, Asticrazia, Pelopia, Chelote, Cleodoro, Angue, Facia e Nerea. Laomedonte generò Lampo, dizione, Iotaonet, Itone, Priamo, Antigona con Esiona. Priamo fece Paris, Ectore, Eleno, Coar, Troilo, Deifobo, Polidoro, Licaone, Esaco, Antiso, Iso, Teucro, Dimocoonte, Echemone, Cremenone con Orgitone, Cebrione, Fatbaso, Doricone, Pammone, Alifone, Agatone, Ippotoo, Aganone, Lacoonte, Mistore, Ifate, Testorio, Timoete, Polite, Creusa, Cassandra, Uiona, Laodice, Licastri, Medisicasti e Policena. Oh che dolce, oh che saporito e, finalmente, glorioso macinar fu di Priamo, dopo che fece la tanta farina! Felice molinaio, beato molinaio! Deh, molinaio, quante donne contentasti mai? Ed a che modo, se io potessi sapere, volinteri a questi miei fratelli mostraria la via del bon macinare. Pure, sformandomi de macinare con furiosa donna, anzi il grano di essa furia macinando, per farla contenta, la prima volta ardito, come un fresco molinaio, doi sachi ad un trato feci, pieni e di bona farina, perché generai un maschio e l’altra femina, la seconda volta femina, la terza volta femina, la quarta volta femina, la quinta volta femina, la sesta maschio e la settima volta, che fu l’ultimo macinar nostro, generai pure una femina, in spazio di anni ventiuno non compito. E, se del tempo non vi scrivo la circostanzia, come non disse nè ancora esso Socrate, non vi maravigliate, percioché io reputo che siate boni filosofi e perfetti matematici. Pertanto non avete di bisogno che io vi descriva quelo che voi sapete meglio di me; imperò nel macinare non vi cedo, nè vi pretendo de scrivere la diversitá del macinare, nè che acqua gira meglio il molino, perché di ciò molti hanno scritto, e, fra gli altri, il divino Aretino e quel giá glorioso Molza. Pertanto, mentre che avete tempo, macinate; perciò piú contenti di me, perché io fui scontento molinaio, mentre che visse la mia donna.
Socrate. Un per nome chiamar.
Biondo. Nel cominciare del mio ragionamento, si sveglia in me quel ardente disire, che, nanzi ch’io dica cosa, mi fa sospirare a guisa di colui che resta privo di sua somma contentezza, di sorte come foribondo mi trovo, odendo ciò che dice il savio vecchio: «un per nome chiamar», contemplando che, per mostrare amorosa benevolenza overo benevolo amore e grata accoglienza con la sua donna, conviene di chiamarla per nome. Non so perciò se questo nome vuol essere nome di «acerba», nome di «amara», nome di «sdegnosa», nome di «foribonda», nome di «vana» e di «insaziabile», nome di «consumatrice», nome di «vaga», nome di «fenestrera» e finalmente nome di «pazzarella» o no. Non so se questo nome debbe essere di «vilana» e di «scortese», nome di «accorta» o di «piacevole», nome di «ninfa» o di «fera selvagia», nome di «consolatrice» o di «inimica», nome di «infedele» o di «amica», nome di «pietosa» overo «disdegnosa», nome di «solecita» o di «pigra», nome di «delicata» o di «sozza», nome di «pomposa» o di «abietta», di «religiosa» o di «mondana», nome di «iudea» o di «cristiana», nome di «soletaria» o di «compagna», nome di «felice» o di «sventurata», nome di «montanara» o di «citadina», nome di «curiosa» o di «dormigliosa», nome di «signora» o di «patrona» ancora. Non so se ’l chiamar per nome li si convenga di «mezana» o di «concordia», di «copula» overo de «discordia e lontananza». Non so se gli è degna, o no, del nome di «arpia», di «cagna», di «vuolpe», di «lupa», di la «tigre» e di «lionessa», perché son certo che non li conviene il nome di «casta», non di «pudica», non di «fruttuosa» nè di «vergognosa»; percioché, salvo per forza, conserva la castitá, abbraccia la pudicizia e non consuma quando ella non può. Della onestá altro non vi dico, perché non fugge, salvo le tenebre, per essere veduta senza vergogna, con fimbriati panni, con vuolto lisciato e petto pieno di lascivia, come sapete. Nondimeno, ancora che la vostra consorte fosse piú orrenda della morte, fosse piú nemica de l’uomo del basalisco, sei sforciato di chiamarla per nome (dico proprio nome, e non alieno), accomodandoli li sua epiteti, perché cosí li mostrerai perfetto amore, grande benevolenza, l’incomprensibile affezzione e tenerezza di animo, la quale la esorta che voi solo abbia amare, voi solo abbia oservare, voi solo abbia avere per il piú caro. Deh, nome virtuoso, nome potente, nome di grande efficacia! Deh, nome, quanto debbi essere caroalli concordi nel matrimonio! Nome, deh, nome, quanto debbi esser celebrato al mondo fra maritati! Perciò voi, o maritati, abbiate a caro il nome della vostra consorte, perché la vostra sorte è egli di lei. Perciò ragionate di ella, perciò scrivete di lei, perciò cantate di ella, perciò v’imaginate; il che facendo, viverete di me piú lieti, di me piú constanti nella sua benevolenzia, perché non forse la trovarete de natura della mia, la quale nelli dua passati ragionamenti avete conosciuto. Né perciò crederete ch’io non la chiamassi col proprio nome, per ubedire al savio vecchio; di sorte che la chiamava lusingando: — Iulia mia, cor mio, amor mio, bene mio, anima mia, conforto mio, speranza mia, dolce mio riposo, mia speme, aura suave al mio affannato cuore, summo ristoro delle mie deboli forze, unico inio spasso, angelica vista — finalmente, — in questa vita mio paradiso! — di sorte che, e vegliando e setandomi dal sonno, sempre il suo nome in bocca avea. Con tutto ciò, per mia sciagura, per mio tormento, per mia scontentezza, rare volte omai la mia voluntá li piaceva nè la deletava, passati che fòro li dua lustri. Imperò non so se alli cieli, overo a’ fati, overo alla mia disanventura ciò debbo ascrivere, li quali me mutavano di riposso in affanno, di quiete in travaglio, e di contentezza in sconsolazione, mentre che ella visse. Di sorte non mi giova la dottrina di Socrate, non li documenti di Pitagora, non la eloquenzia di Demostene nè di Cicerone, nè ancora le umili prece, accioché si ricordasse de l’amor coniugale, atento che solo amore, e non le facultá del mondo, avian contratto il nostro matrimonio, nel quale si ha verificato quel proverbio antico: «Chi per amore si giunge in matrimonio, per rabbia si parte overo soglie dal suo ligame». Imperò, cari miei lettori, pigliate esempio di me, e studiate meglio di me in copularvi in matrimonio, divino e santo, trovando piú dolci modi e piú care paroli, a conservazione della vostra pace, con quela che Iddio vi ha datto per vostra sposa, percioché la mia è stata non men acerba che crudele. Il che son certo che, senza adurvi esempio, mi credete.
Socrate. E con la bocca.
Biondo. Tennemi l’amore ardendo apreso ventiun anno, perciò non sempre lieto, ma molte fiate nel foco, alcuna volta nel grave duolo e nella summa tristezza, non però senza speme di refriggerio nè di dolce consolazione, anzi con certa promissione di vera contentezza. Imperò non so chi tacitamente in mezzo al mio petto talora diceva: — Sta’ fermo e constante in questo martire, perché in breve madonna ha da salir in cielo, non compiti uno sopra li venti anni del tuo laccio e di le catene giugali. — Ed io, sospirando, talvolta diceva: — Son stanco, son lasso, son consumato, anzi son strutto, di sorte che piú non posso, le forze mi mancano. — Deh, Dio! se gli è cosa fastidiosa di vedere la donna altiera, superba ed invidiosa, quanto è magior dolore di udirla! Perciò, o maritati, non vi maravegliate se talvolta dico essere stato di giaccio, e talvolta di foco. Nondimeno, lasciando da parte l’angoscia e la mia doglia, dirovi la proprietá della bocca della vostra consorte; perché, essendo amogliato, contemplava la bocca della mia, un tempo cara, poscia non mia consorte, ma vera matregna. Sapiate, pria che mi stenda alle sue proprietá, che la bocca è quella parte dalla quale il marito comprende l’afezzione della sua sposa, ed è ancora la passione del sposo. Deh, dolce bocca, saporosa bocca, suave bocca, grata bocca, mentre vi si vive pacificamente nel sacro e santo matrimonio! percioché per mezo della bocca vi entra il spirito di dua corpi, dimandato «fiato». Deh, Dio! quanto grande misterio è della tua maiestá, di fare di dua spiriti un solo uniforme, consáno, concorde, pacifico e d’un medesimo volere. Perciò beati voi, maritati, che, dalla bocca di vostra consorte pigliando il fiato suave, li inspirate il spirito conforme, senza guerra, senza contrasto e repugnanza alcuna. Imperoché omai posiate conoscere che parte de l’uomo è la bocca, dicovi che la bocca è quel membro de l’uomo, nel concavo del quale summo Iddio vi pose la lingua, coi denti. E di piú sorte si trova questo membro: percioché è una sorte di boccace grandi per natura; vi è un’alira sorte fatta come per mani di uno fabro, si come fosse tagliata col ferro; trovasi ancora la bocca piccina e tonda, a modo di un zero; e torta abbián veduta la bocca in molti e molte. Pertanto la donna di gran boccacia è loquace, zanzarela e forte lusuriosa; ma la donna che ha ’l bocchino piccino è di contraria natura alla detta, ed è segno di avara; ma tonda a modo di zero, e torta ancora, è segno di pazzia. Nondimeno, se piú sorti della bocca co’ le sua proprietá tu vòi sappere, andarai scorrendo il nostro libro Della cognizione de l’uomo per l’aspetto, percioché ivi troverai de tutte le parti de l’uomo e della donna le sue significazioni. E questo abbiamo scritto per tuo documento, o maritato.
Socrate. Vibrar di lingua.
Biondo. Non senza cagion, versando le lagrime dagli ochi, piansi un tempo, bagnando il mio petto sinistro dal lato di drento e di fuori. Non senza cagion, stando nel buio, stava con gli occhi chiusi, anzi non curava chi urtando me chiamava, o chi mi accendeva d’ira, perché era diventato come il piombo, che non curra la botta di martelo; ed era a guisa di quel legno che non stima il foco, venendo dal tronco verde. E ciò non per altra cagione, salvo per quel vibrar di lingua della mia donna, a modo di uno venenoso serpe, benché alcuna volta, alli dua concordi, tal moto si conviene della sua lingua. Imperò il savio vecchio, amaestrando il mio maestro, dice che, per unione e concordanza di maritati, si ricerca fra l’altre convenienze il velocissimo moto di lingua, percioché la lingua è quel membro, nel quale natura pose la proprietá del gusto, e fecelo piú suave nel veloce moto: pertanto tal moto veloce fu detto altrimente il «vibrare». E, perché questo termine gli è inproprio a l’uomo, ed è un detto conveniente piú a’ venenosi serpenti che a l’uomo, pertanto, contemplando parte per parte, vi dechiararò ancora che cosa vòl dire «vibrar di lingua». Si legge che, per natura, serpenti moveno la sua lingua con tanta velocitá, che quasi il tempo del moto al moto non si diserne, perciò tal velocissimo moto dicono «vibrar di lingua». «Vibrar» ancora vòl dire quando uno che tira d’un dardo, scorla il suo braccio per trar di lunga: nondimeno gli è molto piú proprio al serpe che non è a l’uomo. Ma, lassando a chi piú conviene, mi pare che abbiamo a vedere che cosa importa quella velocitá, dimandata «vibrar di lingua», perché non senza la gran cagione si cerca fra maritati il vibrar di lingua, a uso di serpenti; perciò dal contemplare del vibramento serpentino descenderemo a quello della donna. Mi pare che la provida natura dotoe il serpe de gran veneno, e fra gli altri lochi ordinoe che ’l stesse sotto la lingua, ed è il loco fra i denti e la lingua, anzi sotto la lingua, benché sia vicino ai denti. Ed, essendo la natura del serpente di mostrare quanta è la sua proprietá, non potendo altrimente dimostrarla, si sforza di movere tanto spesso spesso la lingua, che pare non metta tempo di un moto a l’altro, e ciò per concitare quella sua vera proprietá, che per natura vi sta sotto la lingua. Il che essendo un umore frigido per natura e greve ancora, si sforza il detto serpe de riscaldarlo e di solevarlo, di sotto, sopra alla lingua; si sforza di vibrar la lingua, cioè di mover spesso spesso e senza meter tempo dal moto al moto, per trar fuori, come cosa, la quale, essendo a lei suave e conveniente, credendo che non possa essere ad altrui ancora altrimente, el gietta, con fischio alle volte ancora, volendo mostrar con la sua voce che cortesemente vi impartisse del suo sapore e di quello che ha per natura nella lingua. La quale, essendo quella parte de l’uomo che principalmente gusta li sapori di tutte le vivande, meritamente ritenendo per sè il piú saporoso umore, il quale credendo egli che será tale ancora agli altri, volintieri l’impartise, come animale che per natura ama la societá. Dil che vedendo voi ancora gli effetti, dovete prestar la fede a le mie parole. E credetemi che talvolta il serpe, se sapesse di mortificar l’uomo e privarlo di la presente vita, non credo che ’l cercarebbe di impartire del detto suo sapore. Il che non fa la donna; anzi, se ella fermamente tenesse di poter mortificar alcuno, non mancarebbe di trar fuori non solamente la saliva, ma ancora sputarebbe la lingua talvolta, tanto è maligna e venenosa. Imperò, lasando da parte l’odio feminile e lo veneno serpentino, desenderemo a quella contemplazione che si conviene al vibrar della lingua della sua donna col proprio marito. Avete a sapere che, avendo detto di sopra il savio vecchio «con la bocca», cioè che la bocca, come la porta del core, che sia la prima verso il marito pronta ed aperta ad ogni sua dimanda, poscia séguita il savio vecchio che: — Non bastando — dice — la bocca, convien che la lingua subito mostri la satisfazione al marito. — E, perché molte cose si affinano con veloce moto, parmi che Socrate affina ancora l’amore fra il marito e la moglie con questo moto, perché vuole che un a l’altro faccia parte del proprio gusto, del quale è il proprio membro la lingua. Lingua giotta, lingua leccarda, lingua sapporosa, deh, lingua, quanti n’hai legati? deh, lingua, quanti ne hai obbligati? deh, lingua, quanti n’hai infetti? deh, lingua, quanti n’hai amorbati? deh, lingua, lingua; non lingua, ma veneno a chi molto ti succhia; lingua non giá, ma morte eterna; deh, lingua, occulta mia morte; lingua, che, ligando senza lacci e catene, hai ligato tanti e tanti, che mai non vi si potriano nomerare; deh, lingua, se io non credesse di intrare in disgrazia di tante donne e di matrone, direi di te, lingua, piú che non si dice d’improvido capitano, piú che non se dice di una furiosa, e piú ancora che non si ragiona della malignitá di colui che non brama la pace, anzi disia di star sempre in guerra! Nondimeno, o maritati, avertite a le parole del savio vecchio, perché gli pronunzia in bona parte, dicendo: — Basatevi con la bocca in modo che, porgendo del proprio sapore, nutrimento del spirito vostro, spesso fatevi parte un a l’altro di quello ch’el vostro core si notrisse, nel quale è fundato il spirito in dui corpi, per via della legge santa fatto uno, uniforme; anzi è la medesima sustanzia spiritale. — Piú cose averia scritto in questa parte, s’io non credesse che tutti voi sète miglior maestri di me: imperò, con la vostra piú perfetta dottrina, supplirete dove io son mancato.
Socrate. Un tutto stanco dir.
Biondo.Son certo che di fuori si legge come io ardo di drento, per gli atti di allegrezza quali in me si vedeno essere spenti; di sorte che ciascuno, vedendomi pensoso andar misurando i passi, facilmente s’accorge della mia tristezza, del mio ramarico e del mio dolore. Percioché, contemplando la sentenzia del savio vecchio, manco di animo, anzi non mi pare essere quello che fui produtto al mondo da li miei parenti; perché di quanto Socrate, ragionando col mio maestro, disse, non mai piú rimasi tanto confuso quanto di questa sentenzia, ché vuole che ’l marito, quasi stanco, dica quel che dice alla sua consorte. Imperò non so se quel «stanco» s’intendesse della persona del marito veramente, overo vuole che ’l s’intenda della pronunzia a guisa di stanco, a modo forse di stracco, ad usanza forse di addolorato; perché il stanco, il stracco e il adolorato sempre ritarda la sua parola, sempre va quasi masticando quello che egli dice, di sorte che, pria che pronunzia la parola, stracca, anzi affastidisce il suo auditore. Nondimeno ciò ancora non mi pare che voglia dire il savio vecchio, perché serebbe piú tosto atto de discordia, di poca satisfazione e quasi un modo de stracciare la sua consorte. Perché, quando il marito ritarda quel che la consorte vuole intendere presto, li pare un stracciar, un beffarsi e non volergli satisfare. Pure nè ciò ancora è quel che intende il vecchio Socrate, perché, avendo ragionato di sopra del fatto della bocca e della lingua, al presente mi pare ch’el voglia concludere il suo ragionamento dicendo: — Un tutto stanco dir. — Cioè che conviene che ’l marito tanto raggioni con la sua consorte, sino a quanto si stracchi raggionando in satisfarli sempre, specialmente che la donna, fra le altre cose, ama la chiachiara, gode di raggionamenti, triumfa di affanni, ancora con la voce li manifesta. Deh, raggionar grato alli concordi! deh, stanca pronunzia, quanto sei grata alli doi unanimi, concordi ed affannati insieme! Ma, perché, savio mio lettore, tu aspetti ch’io mi ricordi della mia solita usanza ne l’esponere di quanto dice il savio vecchio, percioch’io ancora non paia stanco, dirò in quanti modi l’uomo può straccarsi, perché cosí comprenderai la stanchezza de l’uomo maritato. «Stanco» si dice altrimente «affaticato», altrimente «ben stracco», altrimente «con poche forze», altrimente «angoscioso», altrimente «indebolito», altrimente «infiachito», non solamente delle forze del corpo, ma ancora del potere de l’animo. Deh, stanco dire; deh, dir stanco, quanto sei grato alla donna, specialmente se ella conosce la cagione della stanchezza! Deh, gloriosa fatica; deh, atto angoscioso, quanta contentezza tu sei della donna! Imperò, volgiendo la carta, quanta amaritudine, quanto dolore, quanta angoscia, quanto perdimento, quanta destruzzione tu sei del misero marito! Perché, ogni volta che ritarda l’uomo la parola e mancali il fiatto, sappi che è molto impoverito di spiriti, sappi che è tutto esanimato, sappi che pare essere stato nel torculaio; di sorte, per non abbondare nelle parole, la moglie non mai giudica che ’l marito l’ama perfettamente, salvo quando lui diventa con le gambe di cervo, col collo di la grue e col corpo di formica, con l’apetito di amalato, con forze di colui che sempre stesse impiagato, con vista di colui che sempre sta con febre lenta. Di sorte che tu, savio marito, omai pòi comprendere che la tua donna non ti ama, salvo destrutto, salvo defetato, salvo consumato: perciò fa’ che tu metti il freno al tuo corsieri, e non fare che mai ti veda l’uomo stanco per sua cagione, accioché tu non diventi favola del volgo.
Socrate. E fame far. Biondo. Omai tacer vorrebbe, ma veramente non posso, perch’io temo che ’l contrario effetto in me non adopre la mia lingua. Ma pur ditemi, o maritati: com’io posso nè favellare nè tacere, se non odo la voce di quei che son statti principio del mio ragionamento, che acquetino il cor mio con la sua taciturnitá, facendo fine al suo ragionamento? Imperò, odendo quel che dice il savio vecchio al mio maestro, mi pare che omai gionga al fine del suo ragionamento. Perciò, o voi, lettori miei, aguagliarete le mie parole alle vostre non mortali, ma opre divine; e delle mie passioni pregovi che fatte li immortai trofei alla maritale umilitá, alla mia pazienza ed alli indicibili martiri di questo mio corpo. Imperò, ’nanzi che fosse rotta l’aspra mia pregione, che credete che mi abbia fatto fare? Come dice il savio vecchio, dico di ogni cosa sette para: di affanni, di stenti, di tormenti, di sospiri, di gemiti e di singulti, di mal pasti, di degiuni, di creppacore e di infiniti altri para di malani, li quali lasso ricontar a voi, o maritati. Perché io so che la vostra moglie vi fa fare sette para di pianele, sette para di scarpe, sette para di ligazze, sette para di camise, sette para di sottane, sette para di guardacori, sette para di cambre, sette para di guarneli, sette para di vesture o vòi dire gonne, sette para di manti, sette para di tovaglie di testa, sette para di zagaglie da intrezare le sue trezze, sette para di scufioti, sette para di catenele, sette para di pendenti ed orechini, sette para di corone, nelle quali prega per la tua presta morte, overo per tua pregionia, overo per qualche altra disgrazia, accioché ella possa satisfarsi in ciascuno apetito: perciò vi fa fare le tante mercanzie, li tanti bazzari di trafighi. Altro non dico, perché non vi è baro al mondo, col quale non abbiate avuto a far facende, fatte fare ancora li stocchi, le usure, li prestiti non solo sette volte, ma ancora sette milliara di volte. Deh, maritati! quante altre cose vi fa fare la vostra consorte, son certo che voi il sapete; perciò metetevi la man al petto, ché trovarete tanti e tanti vie sette, quali non potriano acozzar insieme, se vegliassero di sopra sette anni, sette mesi, sette setemane, sette giorni, sette ore, sette minuti, sette seconde, sette terze ancora, tutti li abbachisti. Perciò sappiate che la vostra moglie è suficiente di farvi fare maggior miracoli delli sette miracoli del mondo, overo cosa di maggior maraveglia che non è la piramide del Nilo, la torre e le mura di Babilonia, il tempio della Diana efesia, il simulacro di Mausolio, colosso dil Sole apreso i rodioti e simulacro di love olimpico; e, piú, vi fa fare li insoliti digiuni per le feste non comandate, li piú longhi viaggi che non son quelli di Gallicia, le piú strane fantasie che non è strana egli. Fávi fare ancora l’inusitate arti, le insolite e nòve fozze e le piú maravigliose cose che non si trovano drento al mare overo che nascono dalla terra. Deh, Dio! quante sonno le cose che la moglie fa fare al marito! S’io non fosse per essere ripreso, ne contaria tante e tante, che di maraveglia ciascun di voi cascarebbe nel stupore. Imperò, per non indurvi qualche infirmitá, lassarò di contarvi le facende che la vostra donna vi fa fare, perché da per voi le conoscete, come le sette vivande, li sette pasti sette volte al giorno, e sette per sorte di ciascuno. Sí che qualunche di voi altri non ha provato, spechiasi in me ed in questo libro, perché trovará d’ogni cosa non sette, ma migliara sette, per essere tanti li sua vizi, per essere tanti li sua disiri, e finalmente sette ventriculi insaziabili nel suo corpo. Il resto, che vi manca, da per voi giongerete, sempre oservando la sentenzia del savio vecchio, perché rare volte o mai potrete errare.
Socrate. Son le catene che ligato m’hanno.
Biondo. Mentre che io udiva gli alti ragionamenti di Socrate e Nilo, mi pareva, quando d’angoscia, quando di pietá, morire; nondimeno poi ’l mio maestro mi fe’ cenno che io stessi accorto, accioché di catene non mai piu potesse essere ligato, percioché tutti li sopradetti ragionamenti conteneno le maglie della catena iugale, imperoché ciò ancora conclude il savio vecchio, ragionando col mio maestro. Di sorte che, avendo udito a satisfazione de l’animo tuta la sustanzia della donna e che giamai non potria udire cosa maggiore, perciò, con gli occhi bassi e la barba al petto, dispose il mio maestro di licenziarsi da Socrate, proponendo non mai piú di accostarsi a donna alcuna. Perciò, disparendo dagli occhi miei, mi levai dal marmo, sopra il quale me ero posto a iacere per strachezza delli domestici affanni, e, setandomi e caciando via il sonno dagli occhi con le detta, me ricordai di tuto il ragionamento delli dua filosofi; i quali conoscendo che avean detto il vero, ho voluto esporvi quanto intesi, per vostra dottrina. Ma, perché il fine loda il tutto, perciò, concludendo il nostro ragionamento, ancora dicovi che la loro conclusione mi fu molto noiosa. Perché il savio vecchio, doppo tanti ragionamenti, conclude che ciò che vi si fa o ragiona di la donna, con la imaginazione ancora, son le catene, con quali resta ligato l’uomo dalla donna; imperò sí il dir male come dir bene, o lodarli overo biasemarli, anzi sí il fuggire alle volte come il abracciarli, son le maglie, anzi catene grossissime, con le quali la donna lega l’uomo. Perciò, o voi, amanti o maritati, o voi ancora che fuggite dalla donna, sappiate che al fin fine restate suo pregione; e ciò, non per vostra cagione nè per il suo diffetto, ma per l’ordine che vien di sopra. Pertanto, accioché meno vi abbia dolere il perdere di vostra libertá e di star impregionato, o vòi dire legato, di sua catene, vi voglio dichiarar finalmente tal catene che cosa sono, e che possanza abbiano, dechiarandovi ancora come l’uomo scappa della sua pregione e liberasi totalmente di le sua catene. Perciò, stando attenti, pigliarete essempio da me alfine, perché cosí spero che restarete sodisfatti. La catena è quella machina di ferro, che di piú annella sta ligata insieme, e doperasi nelle nave, nelle porte di gran pallazzi, nel ritenere di schiavi e condannati alla galea, per tirar il remo in satisfazione di sua errori. «Catena» ancora, per metafora, si piglia per un grande vinculo di legame d’amore; pigliasi per la grande progenie, overo parentela; la catena dicesi e’ del vinculo matrimoniale, percioché vulgarmente dicono al maritato: — Gli è incatenato. — «Catene» dicono li savi le parole ligate insieme, e molte sentente, overo sensi, raccolti in un libro, come è quello di san Tomaso d’Aquino, dimandato La catena aurea. Pertanto diremo ancora le parole di Socrate essere una catena, che contiene l’Astrologia di Orfeo, la Trasmutazione di Partenio, gli Oraculi di Orfeo Odrisio, la Generazione del mondo di Palefato, La invenzione della antiquata musa di Anfione, con la Filosofia di Porfirio, La provocazione delle muse di Tamira, la Scienzia di Esiodo ed Appollodoro, la Guerra di giganti di Melampo, con la Procreazione delli dèi di Aristeo e la musa di Omero, l’ardore d’animo di ateniesi, celebrato da Tirteo, la Vittoria ateniese contro Serse di Cerilo, la Varia istoria di Pisandro, el Principio de tutte le cose di Parmenide, le Leggi di Focilide, la Regola del vivere onesto di Pitagora, la Varia istoria di Euforio, la varia musa di Calimaco, le Favole di Frinico e quanto scrisse Sofocle col verso tragico. Taccio le cose di Appolodoro, di Aristarco, di Cefisidoro, di Carcino, di Teogino, di Nicomaco, di Timesiteo, di Timocreo, di Alceo, di Cratino, di Epicarmo, di Aristofane, di Appollofane, di Sannirio, di Filidio, di Teogneto, di Alterco, di Tirtilo, di Sofilio, di Filippide, di Aristonimo, di Pindaro, di Simonide, di Stesicoro, di Diagora, di Aristoclide e finalmente di Timoteo e di tuta la scola greca: essere la catena un ligame di parole sentenziose, una sentenzia legata con parole nottandi. Pertanto la catena è cosa maravegliosa, a cui non se trova altro modo di snodar le sua annella che per mezo della morte. Perciò, riducendo al fine il suo ragionamento, Socrate, per satisfare a pieno al mio maestro nel fatto della donna, dice che la grossissima catena di sua libertá, l’indisolubile nodo, nodato quando per propria voluntá, quando contra il proprio volere, non mai si snoda u soglie, altrimente che per mezzo della morte. IL che se gli è vero, odete per grazia quanto vòlse mostrar la natura, overo Iddio, nel sogliere e snodare della catena, con la quale io era legato giá ventiun anno. Pertanto li miei cocenti sospiri, le mie continue lagrime, l’acerbo mio dolore, omai aveano fatti molli molli tutti li nodi e le anella della catena, con la quale io ero ligato, come voi avete udito di sopra. Perciò, parendo alla divina bontá de liberarme di tal catena e laccio fastidioso, doppo la mia tornata da Vineggia a Roma, mi fecce apparere in sonno che la parte, dove giaceva la mia consorte, e la mitá della porta della camera, ove io riposava, era rutta, tolta via senza far male a persona, di sorte che la mitá della casa mi pareva essere mancata. Dii che impaurito, setandomi, cominciai contemplare la visione, e, non potendo indovinare da me istesso, deliberai di consultare sopra di ciò col potente astrologo Gaurico, veramente principe di astrologi di tempo nostro. E, facendo piú figure di geomanzia e di astrologia ancora, trovamo qualmente io doveva uscire da le catene, e di pregionia reintrar nella antica mia libertá, perché ciò mostravano le seconde cause, come mezi della divina voluntá e del suo ordine. Pertanto in spazio di quattro giorni venne l’insonio a l’effetto; perciò, senza colpa di omo vivente, precipitossi da un par de gradi, erti forse da ventiun palmo. E ciò intravenne alle sedici ore, a’ quattro di marzo del 42 doppo 1500, nel dí del mio nascimento, nel dí che intrai in lacci, ed il dí medesimo rimasi libero e solto e senza catene; e fu il giorno di Venere, giorno fortunato ed infortunato, giorno felice ed infelice a me, giorno nel quale fui nato, incatenato e solto certamente. Pertanto, doppo il caso e la sua morte, dissi a multi e multi che la voluntá divina ciò è stata, e non desordene umano. Nondimeno, ancora che ella è stata tanto fastidiosa, tanto molesta quanto voi sapete, assai mi dole della sua morte, e, ricordandomi di la sua grazia, della sua beltá, non posso non sospirare e piangere ancora. Pertanto, lettori miei cari, pigliate esempio di questa mia sorte e lezzione, fatta per nostra instruzione, esortando le donne vostre che non vogliano esser maligne, non superbe nè ingiuriose; perciò, quando loro non credeno, Iddio rompe la catena e levale da questo mondo, forse nel fiore della sua gioventú. Percioché la mia mancoe negli anni quarantuno della sua etá, essendo stata meco nella catena iugale, perciò, uno sopra li venti anni. Imperò, lassando omai il fatto della mia donna, discorrerò alcuni casi con voi, o maritati, per avisarvi di tutto quel che occorre alla giornata circa al fatto della donna; e ciò per far fine al mio ragionamento, di sorte che in ciascun loco di me vi possiate aricordare. Se voi, maritati, avéssate determinato solo di amare le vostri consorti, molto menore conversazione serebbe la vostra con le donne d’altrui. Imperò al presente, vedendo la nostra libertá essere nella posanza della donna, sì vegio che ancora nei pubblici lochi val poco l’autoritá vostra, imperoché, non potendo soportare una sola, avete in odio tute le donne. Per certo, insino al presente, ho creduto essere una favola e cosa fenta che gli uomini, racolti in qualche isola, abbiano giurato insieme di levarsi dalla pratica delle donne, il che apena posso imaginarmi, e giudicar ancora qual cosa è piú inconveniente: di fugirle o di amarle. Perciò voi giudicarete che cosa è piú onorevole: che ’l uomo da sua posta, e la donna d’altra banda viva senza l’uomo. Nondimeno, secondo la mia sentenzia, dico essere molto piú vil cosa che la donna viva lontana da l’uomo che non è quando l’uomo si alontana da la donna; nondimeno la legge mi pare essere comune agli uomini di fugire tute le fastidiose. Ed accade che uno, avendosi liberato di una fastidiosa, che si sforza fugire tutte le donne come fastidiose, perché si trova donna alle volte tanto sfaciata, che non si vergogna di uscir fuori nella contrata per afrontare qualche uomo; il che potevano far medesimamente nel proprio albergo e con suo marito. Nondimeno io credo che le donne siano piú piacevole nel publico loco e fuori della casa con foristieri e gente strana, che non sonno con li sua mariti e drento in casa. Imperò, se la legge fatta per le donne fosse piena di vergogna, si continerebbono di correre cosí vilmente nel publico. Perciò non senza cagione li magior nostri nisuna cosa publica nè privata lasavano far alla donna, e per questa cagione gli stava apresso il patre o la matre, overo alcun fratelo, overo il suo marito. Ma, a questi tempi, non solo in casa, ma soportiamo che vengano a chichiarare in meze le piaze, disputando ugualmente con gli uomini. Perciò voi, savi mariti, metete il freno a l’animale indomito ed alla natura impotente, e fate che da per sè non siano licenziose, ma che ve rispettino sempre mai, percioché poca cosa è questa che vi persuado, ma è di grande importanza. Perché, nè per via della legge nè per natura, le donne debbon godere la libertá di tutte le cose, anzi gli è il dovere che sempre abbiano licenzia da li sua magiori; imperò, se una volta sola vi vence la vostra donna, sempre fará poca stima di voi. Pertanto pensategli sopra, perché la cosa non è di picciol momento: imperò li vostri magiori, contemplando il fatto della donna, la sottoposeno al giugo maritale. Nondimeno, con tuto che la natura e la legge l’have sottoposte a l’uomo, non basta ancora di frenarle tanto che non errino grandamente; onde che, se voi sopportate che faciano a suo modo, che vivano come li piace, che trafighino a suo volere, deventarano uguale a voi uomini. Il che ancora parendovi di comportare, dicovi che, senza avedervi, di paritá diventarano superiore a voi. Pertanto, quando vi cercano la libertá, il vivere a suo modo, conculcano tute le leggi, e disiano di esservi ingiuriose, anzi cominciano operar in contrario: di meter la legge piú dura che non era imposta a loro. Perciò avertite di non metervi il freno, con quale avendo domate tante furiose, che col medesimo freno non vi facciano diventare furiosi. E, se me dite pure: — Alle volte le donne son sforziate de praticare nei lochi publici e nelle piaze, come per pregar il principe che abbia pietá della loro povertá, perché non possono satisfare l’imposte e le gabelle, per avere a rescatare li sua, presi da’ turchi e fatti schiavi (dil che Iddio liberi ciascuno); — e nondimeno, con tutti questi casi ancora, la donna non deve avere libertá del venire nel publico, nè ciò li se debbe concedere per via di loro pianti e pietose lagrime, imperoché, non la pietá di sua, fatti schiavi, nè imposte del principe le muoveno a mostrarsi nel publico, ma il proprio furore. E per tal cagione si ornano di vario drappo di purpura e di recami e vestimenti piú levi del vento, inaurate, inarzentate, impernate e divisate con infinite giogge, come se mostrasseno de trionfare di quello che dicono di dolersi ed attristarsi. Deh, maritati, o voi che senno avete, ditemi: che vi pare di nove fogge? di questi novi, ma lusuriosi vestiti e portamenti? dico tanto degli uomini quanto delle donne. Deh, Dio! quanto è grande l’errore umano, ché oggi l’estrema avarizia regnar si vede, e la pompa lusuriosa crescere: il che mi pare dua contrari, che non possono star insieme. E pur si vedeno! Oh, quanto serebbe meglio, o maritati, che le vostre intrate cresceseno, che li vostri figliuoli diventasseno savi e prudenti, che ’l regno di cristiani si stendesse come si vede crescer quel di infedeli! Nondimeno, tutto il contrario vedendosi, dicovi che l’imperi e Stati grandi la donna pomposa, overo la pompa donnesca, ha rovinati, anzi destrulti. E questo non per altro vi dico, o maritati, salvo accioché la vostra fortuna alla giornata diventi piú lieta e migliore, e che creschino le vostre intrate come l’imperio romano. Qual prego Iddio che si possa stendere de lá di Grecia e di Asia ancora, e che di giogge levantine posciate ornare le donne e li trofei, secondo il vostro appetito.
Ed a me, pregovi, perdonate, percioché la presente opera scrissi per sfocar la mia mente piú tosto che non feci per narrarvi il fatto della donna, perché mi persuado che voi ancora sappete tuto quel che io ho discorso ne li miei ragionamenti. E voi, donne grate agli uomini, madre venerande, mi perdonate, di grazia vi prego, se in cosa v’avesse offeso, apropriandovi quel che non fosse conveniente a voi. Ma, conoscendo voi che io abbia detto le doti e vostre proprietá non note a ciascuno, pregovi, se pure non mi volete ringraziare, almeno non me dannate, nè crediate che a me ancora le donne non piaciano, come a tutti gli altri uomini. Anzi sappiate (che vi giuro per l’intelletto che Iddio m’ha datto) che mi rincresse di essere spogliato della mia donna, benché egli fosse furiosa! Pure, metendo da un lato il suo furore e da l’altro la sua bellezza, mi pare che me atrista assai piú il suo furore che non consolava la sua bellezza, la quale è stata cagion di suo e mio laccio giugale. E sappiate che per altro non resto di reintrar in rete e lacci, salvo che io mi persuado che tute le donne siano furiose; il che è grandamente contrario alle mie muse, delle quali confesso essere piú inamorato che di voi, donne. Perciò vivete in pace, ricordandovi del Biondo, che, se voi volete o no, vi è servitore.