Pagina:Trattati del Cinquecento sulla donna, 1913 – BEIC 1949816.djvu/192

186 ii - angoscia doglia e pena



Socrate. Un volger d’ochi.

Biondo. Sola morte poteva chiudere a li miei pensieri amorosi la via che me conduceva a l’infelice porto di miei affanni; perché, cecandomi in tutto, non avria girato gli echi nel bellissimo viso di quella, che ’nanzi il tempo me cacciava sotto terra. Pertanto ve aviso, cari miei lettori, che siate accorti di conoscere co’ l’intelletto vostro quanto son dannosi gli ochi di una donna, spezialmente vaga, perché nisuna altra cosa ancora me condanna ed ha condannato che ’l volgere di ochi vaghi. Pertanto, pria ch’io dica degli occhi concordi alla unione matrimoniale, dirò di miei, lamentandomi di sua natura e di troppo acuto e studioso sguardo overo «luce», come dicono piú consolati di me. Dch, occhi miei! dch, luce, guida di questo corpo affannato! dch, lume di intelletto ancora, ditemi, per grazia, che vi giova, per essere stati voi cagione di condurme a’ strazi e stente, avendo voi per obieto cosa piú bella, piú degna, piú onorata, piú aprezata e piú desiderata da ciascheduno, che non è la donna? Dch, ochi miei, perché fosti veloci in trovar quella che nel piú bel mirar vostro vi fece diventar lassi? Dch, perché ve girasti vo’ nel volto di colei che fu cagion di farme penar quasi ventiun anno? Dch, ochi miei, perché ve apropriasti il lume de l’intelletto cecandolovi, e voi per tropo gran luce occupastevi il vostro splendore a tale, che intelletto, per essere privo di lume, e voi, per averne molto, me avete condotto nella pregion, da la quale non mai l’uomo, ma la morte sola me ha liberato? Perciò non a voi, ma ad ella rendo infinite grazie, perché voi di libertá me avete posto in servitú, ed ella di servo me ha ridotto alla mia pristina libertá. Pertanto, ochi miei, per me fosti mal ochi, ochi dannosi, ochi scandalosi, occhi ribeli a me, ad altrui fedeli, ochi miei cieco lume a me, ochi mei fiamma overo furore, ochi miei impeto giovenile, ochi miei! Deh, voi, miei ochi prestezza senile, cagion di piú grave morbo, che non è il dolor di gionture; ochi miei non giá, ma tenebre,