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ii - angoscia doglia e pena |
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la donna è stata cagion che io ami meno me medesimo di quello
che io debbo. Misero me! perché non conoscio me, nè il mio
ingegno, nè le altre doti date a me da la natura; ma, ancora
che io vo cangiando il pelo, trovo che la ostinata mia donna
non ha compassion di me, anzi quanto l’uomo sòl avere di vita
lieta, tanto ella mel fa diventare amaro. E fame cercare diversi
paesi, praticar con fère e genti dure e strani costumi; di sorte
che me intrica di piú gravi errori che si intrica un stanco pellegrino.
Perciò, parendomi essere gionto alla porta di la mia
morte, ’nanzi che io intri nel suo albergo, dechiarovi la natura
della vostra donna, soi spassi e summa contentezza: il che è
la nostra incomprensibil pena, per ultima sentenzia del savio
vechio, data ragionando col mio maestro. Perché, fra veglia e
sonno non essendo perciò levato dal detto marmo, ma disposto
giá con la mente de ritornare al mesto mio albergo drento nella
cittá di Roma, dove giá doi lustri io aveva consumato angosciando
e dolendomi della mia mala sorte; e perché angoscia
e doglia son quelle parti de le quali si compone la pena: pertanto
in questa ultima parte vi ragionarò unitamente di ultima
furia, che nasce di le dua giá dette e dimandasi «pena nostra».
Sí che vi prego, curiosi, non trascorrete queste carti senza contemplarli
perfettamente, perché qui trovarete quanto la donna
è la gran pena nostra, ancora che la sua condizione è piú vile
di un brutto omiciolo.