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162 ii - angoscia doglia e pena


la donna è stata cagion che io ami meno me medesimo di quello che io debbo. Misero me! perché non conoscio me, nè il mio ingegno, nè le altre doti date a me da la natura; ma, ancora che io vo cangiando il pelo, trovo che la ostinata mia donna non ha compassion di me, anzi quanto l’uomo sòl avere di vita lieta, tanto ella mel fa diventare amaro. E fame cercare diversi paesi, praticar con fère e genti dure e strani costumi; di sorte che me intrica di piú gravi errori che si intrica un stanco pellegrino. Perciò, parendomi essere gionto alla porta di la mia morte, ’nanzi che io intri nel suo albergo, dechiarovi la natura della vostra donna, soi spassi e summa contentezza: il che è la nostra incomprensibil pena, per ultima sentenzia del savio vechio, data ragionando col mio maestro. Perché, fra veglia e sonno non essendo perciò levato dal detto marmo, ma disposto giá con la mente de ritornare al mesto mio albergo drento nella cittá di Roma, dove giá doi lustri io aveva consumato angosciando e dolendomi della mia mala sorte; e perché angoscia e doglia son quelle parti de le quali si compone la pena: pertanto in questa ultima parte vi ragionarò unitamente di ultima furia, che nasce di le dua giá dette e dimandasi «pena nostra». Sí che vi prego, curiosi, non trascorrete queste carti senza contemplarli perfettamente, perché qui trovarete quanto la donna è la gran pena nostra, ancora che la sua condizione è piú vile di un brutto omiciolo.