Alpinisti ciabattoni/Alla ricerca del latte
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Alla ricerca del latte.
Il sole roteava trionfante sulla riviera spolverata, inverniciata dalle pioggie del giorno innanzi, e madama Martina nella letizia di quella mattinata serena, si ricordò che ella era venuta via di Sanazzaro con l’uzzolo di bere il latte fresco, appena munto, in qualche capanna di montagna.
Le sue conoscenze, le sue amiche che erano state a Oropa ed a Graglia, l’avevano incantata con la descrizione delle merende fatte sugli Alpi, accanto a pisciatelli di fontanini scorrenti sui pascoli muschiosi. Quelle belle polentine fumanti, scodellate sul tovagliolo greggio, inaffiate nel latte tiepido e fragrante, le si erano conficcate nel desiderio come un ideale.
Dunque, giacchè la giornata era bella, e la montagna era lì dietro l’albergo, bisognava approfittarne prima che qualche altro malanno mandasse a monte quel bel progetto. — Interrogarono l’ostessa.
— Sopra Artò — aveva risposto — prendendo la sinistra attraverso ai prati, si arriva in mezz’ora all’Alpe Giumello, e là si troveranno bene.
Gaudenzio non era gran che disposto a quella gita, ma non osò mettere contrasti.
Fecero colazione con tutta comodità, e questa volta ebbero il piacere di sedersi a tavola presso il balcone, col lago in faccia che si beveva il sole.
La comitiva di quei signori Begozzi, visto il bel tempo si era messa di buon’ora in viaggio; il professore Augustini e Carlino non avevano aspettato il sole, e già erano Dio sa dove, su per le montagne. Gli sposi Segezzi avevano ancora le finestre chiuse; il capitano Errero era fuori, ed i coniugi Strepponi pigliavano il sole sulla spiaggia.
Suonava mezzodì quando Martina e Gaudenzio incominciarono la salita di Artò.
Il programma era questo: andare comodamente sino all’Alpe, calcolando di arrivarci alle tre: bere un paio di scodelle di buon latte, fare un po’ di sosta, e ridiscendere poscia per la stessa strada.
E avanti dunque! pensava Gaudenzio inerpicandosi svogliato sui primi ciottoli della salita.
La strada era ripida, lastricata di sassi a balzelloni e taglienti; a destra come muraglia i macigni tagliati nel vivo; a sinistra un declivio rapido di roccie franate, e garzaje di sterpi, che scendevano giù nel torrentello frusciante nel fondo del lavino.
A tratti la strada si svolgeva nell’ombra, parendo che andasse a nascondersi su su nella cervice fronzuta della montagna; ma poi allo svolto, ecco una troscia di sentiero a zig, zag, fulminato dal sole.
Martina aprì l’ombrellino, privandosi così del buon aiuto che le dava puntandolo come bastone.
Sor Gaudenzio calò la visiera del cappello sugli occhi, e cominciò a capire che quel maledetto solino e quei polsini inamidati, erano di troppo.
Erano in marcia da una mezz’ora, e già egli aveva richiesto a dieci persone, se quella era la strada di Artò.
— Sempre diritto — gli rispondevano invariabilmente, ed egli ringraziava, pensando che andar diritto è una cosa, ma arrampicarsi così maledettamente era un’altra.
Di tratto in tratto Martina faceva un alt sedendosi sopra qualche roccione, e Gaudenzio stronfiando e sudando, approfittava della sosta per asciugarsi la testa.
— Che ora l’è?
— Quasi un bot.
Passava una ragazza con la gerla ripiena di erbaccio.
— Bella figlia — chiese Gaudenzio — Artò l’è ancora lontano?
— Artò?... eh... una mezz’oretta — rispose la montanara, e via svelta, le mani sui fianchi vigorosi, e le gambotte muscolose fatte a colonna.
Il sole adunghiava ferocemente. Martina riprese la marcia, e Gaudenzio dietro a malincuore, ma con la consolante speranza che la moglie non resisterebbe a lungo.
Provò a levarsi il cappello, ma il sole flagellava la sua testa arrapata e sudata, dandogli certe caldane che lo stordivano. Rimise il cappello, e si sbottonò il solino già molle di sudore.
Ma quella sua palandrana di vestito gli pesava; pensò bene di levarselo e portarlo sul braccio, andando innanzi scamiciato; e sempre su, per una strada così ripida che gli metteva le ginocchia fin sulla bocca.
Alla prima tratta ombrosa, Martina fece il solito alt, ed entrambi stettero un istante a guardarsi indietro.
Erano già molto in alto. Una guardata di falco. Pella appariva come schiacciata in fondo, sopra uno spazio largo un palmo. Il lago tremolava, vibrando una lucentezza azzurrina di cielo, l’isola pareva un giocattolo galleggiante.
Martina si levò per la prima volta la solita scarpetta, e Gaudenzio balenò un sorriso di soddisfazione.
Dal fondo della valle veniva su una brezzolina pungente, frusciando nei fogliami.
— Che buona arietta!
— Anca tropa — rispose lui sentendosi come ravvolto in un sudario diacciato, e ricalzò subito la giacca.
— Che ora l’è?
— La vuna e meza.
Ripresero la salita. La strada era sempre ripida, sassosa, ma ombreggiata di castani e di abeti, spazzata da un venticello freddo, che pareva soffiasse tutto nella schiena sudata di Gaudenzio.
Decisamente era meglio la cottura del sole. Camminarono per un’altra mezz’ora in silenzio, barellando ed ansimando; in fondo fra i fogliami, ecco finalmente un campanile bianco acuminato.
Un vecchierello presso una catapecchia, rimestava un mucchio di letame fumante.
— Brav’uomo... semo a Artò?
— No signore; quella è la chiesa di Centonara, più in su troveranno Artò.
E avanti ancora, adesso sotto la sferza di un sole rovente.
Quel campanile pareva lì oltre il boschetto, ma allo svolto della strada era saltato più in là, sopra un fianco di montagna che scendeva giù a rotta di collo nel burrone.
Gaudenzio andava arrancando, un passo dopo l’altro, pensando che le ore dei montanari sono fatte di piombo.
— Fermet un momento! — gridò alla moglie che lo precedeva; ma la signora Martina era tirata da quel campanile che aveva negli occhi, e lavorava di anche e di gambe per arrivarci; e Gaudenzio dietro, rassegnato, curvo, gobbuto, come se portasse un quintale di roba sulla schiena.
Arrivarono finalmente alla spianata della chiesuola, e fecero una fermata sotto il pronao dipinto di rozzi mascheroni in affresco.
Poco più in su, nel trogolo del fontanino, una bellissima giovane dagli occhioni da giovenca, fresca, colorita, pomposa, tuffava le braccia rosee e vigorose nell’acqua cristallina, risciacquando un cesto di verdura.
Sor Gaudenzio avrebbe mangiato volontieri quell’insalatina fresca e lucente; la sgambettata sulla montagna gli aveva mandato la colazione fino ai garretti.
Attraversarono Centonara, e sbucarono di nuovo all’aperto, fra praterie a scodelle, e guanciali di verde smalto trapuntati qua e là di zuccaje che stendevano a gambe di ragno i branchii fronzuti sull’erba.
Ma quel sole arrostiva dappertutto: anche Martina si sentiva nella schiena una filtrazione di caldura scottante. E quel suo cappellino che fastidio Dio buono!
Finalmente in capo alla strada, ecco un gruppo di case addossate, nere e viscide come fungaja.
— Se quello non è Artò — sclamò Gaudenzio, — giuri che turni indrè!
Peccato! questa volta ci erano proprio arrivati.
Inoltrarono nella strada stretta, tortuosa e scura del paesello alpestre, e Gaudenzio trascinandosi sui ciottoloni lubrici del selciato, mulinava fra sè: — Eh bel gusto! anche qui pietre dure, catapecchie buje e rampicate da gatto!
Martina sempre innanzi di due passi, guardava senza soggezione negli occhi della gente, e nell’interno delle case.
Passarono vicino alle fontane; un bell’arco di acqua viva precipitava gorgogliando nel trogolo colmo, riboccando e travasando in cascatelle e stillicidii argentei; in terra un guazzo viscido, che fra gli interstizii dei ciottoli lucenti, rispecchiava il cielo.
Gaudenzio volle bere una sorsata, ma quel mestolone di ferro irrugginito gli faceva ripugnanza, e preferì il metodo più spiccio. Mise la mano sotto la bocchetta dell’acqua, e vi accostò le labbra; ma nell’incurvarsi, la mano si piegò, e giù nella manica un torrente di acqua gelida.
Alcune donne che erano lì presso, diedero in una risata, e Martina, che pure aveva una sete tormentosa, rinunciò alla prova.
Gaudenzio un po’ mortificato volle fare lo gnorri, si guardò intorno, mise gli occhi sopra un’insegna che sporgeva sulla strada, esclamando:
— To! Osteria della Rana Secca! — e rise forte, per vendicarsi del paese e delle sue fontane.
Giunti in capo del borgo, Martina interrogò una donna per avere indicazioni su quell’alpe di Giumelli che l’aveva tirata fin là.
— Più in su, le fu risposto, dopo un po’ di strada, c’era una cappella; abbandonare la strada, prendere la sinistra sui prati, e salire poscia per un’oretta.
— Malarbetta — borbottò Gaudenzio — qui le ore son gravide, e diventano tre o quattro strada facendo!
Ricominciava a grancirli quel sole che bruciava i panni, Martina si sentiva friggere le cervella sotto il cappellino piumato, e dalla fronte le colavano goccioloni di sudore più grossi che i brillanti dei suoi orecchini.
Aveva la gola arsa, ed una sete che le faceva rimpiangere la bella fontana zampillante nell’ombria fresca del paesello che avevano attraversato.
— Eh va la — diceva Gaudenzio — ne troverem de l’altra! In montagna ghe doma che acqua, sol e sass de preja dura!
E difatti dopo un trattino di strada, ecco che da un muricciolo di macera, fatto di roccie sovrapposte, sporgeva un tegolo, e da questo, giù nel fossatello un bel getto di acqua chiara, scintillante al sole.
— L’e bona de bev? — chiese Martina.
— Altro che! l’è tutta bona l’acqua de montagna! — e come aveva sete anch’egli, e non voleva rifare il bagno dell’altra volta, improvvisò una barchetta con un foglio di carta.
Oh! che ristoro! Non era molto fresca, ma era buona quell’acqua, e sopratutto leggera, come asseriva Gaudenzio.
Martina ne sorseggiò tre barchette.
Tirarono innanzi verso una casuccia che era più in su una cinquantina di passi. Due donne risciacquavano in un fossatello pannilini squaccherati da bambino, ed altra biancheria sucida.
Gaudenzio che si era avvicinato per informarsi come al solito della strada, vedendo la direzione di quell’acqua, ebbe un fiero sospetto, e chiese alle donne:
— Quest’acqua qui, l’è quella che va giù là sulla strada?
Ed era proprio quella.
Madama Martina si sentì un urto di vomito nello stomaco, e scappò via sputacchiando e facendo segni di schifezza e di desolazione; e quando potè lasciarsi sfuggire una parola, ringhiò invelenita:
— Ti te sarè semper un asen! — E poi via di corsa a scaracchiare e nettarsi la bocca col fazzoletto, contraendo il volto in tutte le espressioni della nausea e della ripugnanza.
Gaudenzio allibito, e pur esso impressionato dalle due barchette che gli ballavano sullo stomaco, rispose adirato:
— L’ho bevuda anca mi!..... chi la saveva sta roba?
Ecco finalmente la Cappelletta; ecco a sinistra il sentiero sui prati, ma i Gibella erano tanto ingrugnati, che non si dissero parola.
Sedettero. Martina seguitava a sputacchiare parendole di avere in bocca i sapori più sospetti, e Gaudenzio, oltre all’acqua infetta, aveva anche sullo stomaco quell’ingiuria saettatagli dalla moglie.
La prateria indicata si perdeva giù per un dolce declivio: più in là si ergevano monticoli ravvolti nell’ombrosa frescura delle boscaglie, e dietro si levava alto, ampio, solenne, il grandioso scenario delle montagne pennellate di toni caldi, gradanti dal verde al rossigno, e roccie ambrate, di una maturità vetusta elaborata dal sole e dai secoli.
Non c’era anima viva da interrogare, ma il sentiero del prato era lì; dunque, avanti, non si poteva sbagliare.
La prateria era ampia, il sole dardeggiava vampe e bagliori intollerabili.
Gaudenzio sotto il cappello si sentiva le fumane, a scappellarsi, tolgalo Iddio, c’era da cascar fulminato sull’erba!
Il prato declinava giù verso una valletta ombreggiata, che pareva lì sotto mano, e poi si allontanava secondo le tortuosità del sentiero.
Per un po’ camminarono bene sull’erba soffice, ma poi la stradicciola si avvallava con una certa ripidezza, e quando finì la prateria, ecco certi fossatelli pieni di fanghiglia. Madama aveva già scivolato più volte in causa dei suoi stivaletti tanto inadatti a quell’esercizio.
E sempre giù, giù, saltando, scivolando, finchè arrivarono, sudati ed ammazzati dalla fatica, in fondo della valletta.
Bisognava traghettare il torrentello; un’acqua di cristallo così chiara che si lasciava contare i grani di sabbia del fondo, e spandeva intorno una frescura refrigerante.
Martina aveva una sete diabolica, ma piuttosto morire che bere ancora l’acqua delle montagne! Gaudenzio invece fece scodella con le mani, e giù a bere tre o quattro volte. Tanto fa, pensava, quello che è stato è stato, e dopo di aver bevuto quella lavatura di stracci, peggio non poteva capitare.
Al di là del torrente ricominciava il sentiero; ma il guaio stava nel traghetto.
Passò prima Gaudenzio sui ciottoli del guado, affondando tutta una scarpa nell’acqua, indi porse la mano a Martina; ma le pietre tentennavano, e giù anche lei, in bagno fino alle calzette con tutti e due i piedi, ed un lembo delle sottane.
E adesso il gioco era alla rovescia; ecco che il sentiero incominciava ad arrampicare andando a nascondersi, dopo un bel tratto, in una fratta intricatissima.
Sarà quella la strada? Chi lo sa?
Gaudenzio aveva le paturnie, sempre per quell’asino buttatogli sulla faccia, e Martina che l’aveva capita, bazzicava con prudenza. Però quel bagno di calzette l’aveva resa di pessimo umore, e così nè l’uno nè l’altro, ponevano mente all’incantevole valletta fresca di verde e di ombre, per entro cui si aggiravano.
Su quel burrato ripido si andava più presto con gli occhi che con le scarpe, e ad un certo punto il sentiero era così disfatto, che i Gibella dovettero scartarsi sull’erba.
Ma quell’erbetta asciutta, rabbiosa, era lubrica, infida, e spesso or l’uno or l’altro, or tutti e due insieme, scivolavano indietro, e dovevano arrapparsi con mani ed unghie per non ruzzolare di nuovo in quell’acqua chiara.
Martina con l’ombrellino a manico arroncigliato, poteva aiutarsi uncinandosi sugli sterpi; ma era una pietà vederla dal basso a manovrare con mani e piedi su per l’erta, col suo cappellino elegante e fiorito, con le sue scarpette bagnate e insafardate di terriccio.
Sor Gaudenzio per istinto atavico retrocedendo di alcuni gradi nella genealogia della specie, si mise senz’altro a camminare a quattro mani come un antropoide.
Martina era finalmente arrivata al boschetto; anch’egli stava per aggrapparsi alle prime alberelle, quando per un passo in fallo, ebbe un tale sobbalzone che gli fece saltar via il cappello, e con un dispetto da non dirsi, vide il suo bel tegamino nuovo, rotolarsi pian piano fin nel guazzo del torrente.
Non aveva l’abitudine di bestemmiare Gaudenzio, ma questa volta mandò in aria un accidenti rabbioso così, da staccare una mezza dozzina di santi.
Bisognava andarlo a ripescare quel maledetto cappello che costava otto lirette, e dopo di aver sparato i suoi moccoli, ridiscese con le natiche, e risalì poscia coi ginocchi.
Un altro guaio adesso! Il sentiero inoltrava in uno sterpeto fitto, spinoso, aggrovigliato. Bisognava andare innanzi carponi, con la gobba arcuata nei bassi meandri della fratta. Là entro serpeggiava un freddo viscido di ombra perenne, un umidore di fungaja, e quei poveretti sudati ed ansimanti, sentivano sotto la camicia una frigidezza molestissima.
Povera Martina! che aveva mai fatto a ficcarsi in quella garzaia! Ad ogni passo, i veli e le piume del suo cappellino si impigliavano nelle spine, uncinature e strappi nelle vesti e dappertutto: e Gaudenzio, che già aveva il suo da fare, doveva prestarle aiuto e districarla come poteva, per vederla di lì ad un momento di nuovo agganciata in nuove panie, come un passerino nelle tramaglie.
Martina cominciava a scoraggirsi.
Dove diavolo si andava a finire su quella strada da briganti? Quelle spine, quei virgulti forcellati la fustigavano maledettamente. Gaudenzio che le veniva dietro, oltre al resto, si era già preso alcune sverzate di rami sbattuti sulla faccia; ed ormai entrambi tiravano innanzi rassegnati, perchè era follia pensare a tornare indietro.
Dopo una camminata così carponi per entro a quella lacca malagevole, coi panni sgualciti, la faccia barbigiata di ragnatele, trafelati, ingranchiti, e viscidi di umido e di sudore, sbucarono finalmente alla luce del cielo, per trovarsi in faccia un demonio di ciglione irto di macigni e franature.
Il sentiero era basito, e neanche le capre avrebbero arrischiato di arrampicarsi lassù.
— Adess sem bei! — sclamò Gaudenzio guardandosi intorno.
In faccia si ergeva quel monticolo inaccessibile, a sinistra una ripida discesa di ciglione muschioso, in fondo il torrente verde spumeggiante fra le roccie, e oltre il torrente, di nuovo quelle montagnaccie dai greppi arsicci, irti di balze e di scoscendimenti perigliosi, e le immani giogaie petrose, librate nel cielo diafano.
A destra ed a tergo, quella dannata boscaglia piena di pruni e di muffe; e tutto intorno, silenzio profondo, squallido, rotto soltanto dal fruscio solenne e perenne delle acque gementi nel fondo della forra.
— Sem fora de strada! — riflettè Martina.
— Fora del mond a dirittura! — gridò Gaudenzio.
— E pura là gh’era el senter.
— Gh’era un corno te disi! — sclamò il droghiere irritato; — mi sont un asen, ma ti, va la,... che talentona!
Martina non rispose, ma scrollò le spalle, e Gaudenzio, questa volta senza ragione, diede la stura alla sua collera.
— Ehi ehi disi! guarda che se te fet la mula, te pianti chi, e turni indrè!...
Tornare indietro però, era più presto detto che fatto, e Gaudenzio era tanto persuaso di questo, che diede in altre escandescenze per conto suo.
— Accidenti a la campagna, al latt, a la montagna!
E pensare che a casa sua, a Sannazzaro, due passi più in là della sua drogheria, c’era la lattivendola, la quale per un soldo dava il latte a scodellate! Sannazzaro!... dov’era mai adesso quel benedetto paesello così allegro e pieno di comodità? Si stava tanto bene là! ed eccoli adesso per la smania inglese delle scampagnate, eccoli dispersi per i boschi, senza saper come disgavignarsi, abburattati, pesti, sgraffignati, eccoli vaganti su per roccie, giù per burroni, come due malandrini scappati dalla galera! sudati, laceri, affamati, ed avvelenati da un’acqua che non la beverebbero neanche i cani!... E questo si dice andare in campagna!
Ma intanto un partito bisognava prenderlo. Erano le tre, ed ancora che indugiassero là entro, il tramonto li pigliava di sorpresa per la strada.
Dopo un picchio e ripicchio di reciproci rinfacci, i coniugi ebbero un buon momento di resipiscenza e si rappacificarono presto, perchè in quella landa solitaria, così lontana dai rumori del mondo, i poveretti sentivano un gran bisogno di stringersi l’uno all’altro.
L’imponente silenzio che governava il grandioso panorama, quelle enormi giogaie petrose, librate nel cielo con ardimenti titanici, gli anfratti ombrosi delle forre, i lontani meandri delle vallicine dileguanti nelle lontananze verdi, ignote, il romire mesto, incessante, delle acque nell’alveo del torrente; tutto quell’insieme di grandioso mistero, rimpiccioliva, sgomentava quei poveri Gibella, tuffandoli per successioni di malinconie, in certi pensieri che parevano versetti da messa da morto.
— Chi bisogna pensà de tirass foera! — disse Gaudenzio mettendosi sul serio a studiare la situazione.
Dunque, sentiero niente nè da una parte nè dall’altra. Neanche per sogno rificcarsi nella boscaglia, e meno ancora pensare ad arrampicarsi su quel groppone sassoso che gli sbarrava la strada.
— Là, ghe una scapiota! — sclamò Martina additando il casolare di un Alpe che faceva capolino lontano sui greppi della montagna.
Gaudenzio spinse l’occhio colassù, e sorrise; benchè poco esperto di cose alpestri, capì che per andare sino a quei culmini, ci voleva la strada fatta, e una mezza giornata di cammino.
Notò invece che più in basso del ciglione dove tenevano i piedi, c’era come una striscia di sentiero battuto, e cominciò a scavalcare le roccie franate per scendere fin là. Egli tanto e tanto se ne districava alla meglio, un po’ aggrappandosi con mani e piedi, un po’ sdrucciolando; ma la povera Martina con le sue sottane arramacciava giù ogni cosa, impigliandosi così, che più volte Gaudenzio la vide di sotto in sù, con le brache sui sassi e le vesti in testa. Entrambi sudati, sporchi, e stracchi a morirne.
— Disen che fa ben sta vita de can! — borbottò Gaudenzio.
Si ricomposero un poco, tirarono innanzi, e quando furono allo svolto del ciglione che gli sbarrava la strada, videro aprirsi una valletta, una piccola scodella verde, solcata da una dolce scriminatura di sentiero.
Se non altro ecco una stradicciuola da galantuomo. Entrambi avevano una sete da Crociati: Martina non ne poteva più, nondimeno rifiutò di bere in un rigagnoletto che scendeva giù bulicando nell’erba.
— Tutt l’è istess — disse Gaudenzio — fa cunt de bev del brod! — e tuffò il muso e la barbetta nel rigagnolo, bevendo una lunga sorsata.
Pochi passi più in su, fecero una scoperta che li ravvivò alla speranza.
Proprio nel bel mezzo del sentiero, c’erano le traccie sicure, irrefragabili, del passaggio di bestie bovine.
I Gibella contemplarono per un po’ quei depositi, analizzandoli con gli occhi.
— Questa l’è roba fresca de vacca — sentenziò Gaudenzio; dunque o Alpe, o cascina, o casolare, non potevano essere lontani; dunque andando dietro a quei segni...
Ma il busillis era questo: la bestia andava in su o in giù? Da che parte era voltata quando metteva giù i segni strada facendo? guardava il torrente, o guardava la montagna?
Gaudenzio si dichiarò incompetente a sciogliere il quesito. Guardò l’orologio... giurabacco! un altr’ora basita in un soffio.
E nessun indizio di poter metter fuori i piedi da quella sassaiuola.
Mentre Sor Gaudenzio faceva i suoi studi topografici, ecco che dal fondo del sentiero svoltò un uomo, una persona viva, che i Gibella salutarono come un arcangelo.
— Ehi là, brav’uomo? — gridò Gaudenzio — Semo lontani dell’Alpe dei Giumelli?
Il montanaro sorrise. — Altro che lontani, erano fuori di strada! bisognava tenere la sinistra del torrente, invece di valicarlo. Se volevano andare all’Alpe, egli li accompagnava per un buon tratto, e li avrebbe messi sulla via sicura.
I Gibella si interrogarono a occhiate, e Gaudenzio, indovinando che ormai la moglie aveva rinunziato alla polentina, disse che preferiva esser rimesso sulla buona via, per discendere a Oira.
Fa lo stesso, aveva risposto il montanaro, era sempre la medesima strada, solamente dopo un po’, invece di salire, si svoltava a dritta, sulla discesa di Artò.
Quel montanino aveva una faccia da galantuomo, ed i Gibella accettarono la sua compagnia con riconoscenza.
Strada facendo, Gaudenzio si mise in chiacchiere col nuovo camerata, e Martina dietro, a badare dove metteva i piedi, perchè si scendeva rapidamente in una valletta stretta e fonda come un pozzo.
E va, e va, e non si arrivava mai in capo di quella strada di capre, che li obbligava a marciare uno dietro l’altro.
Il montanaro, che precedeva, filava dritto co’ suoi garretti sicuri, ma i Gibella per tenergli dietro arrembavano, e non poco. E quando credettero di essere sul buono, ecco che la guida svoltava, abbandonava il sentiero per internarsi in certe gole petrose che mettevano spavento; e mai un’anima viva, non un cane, non uno stambugio durante una sgambettata di quasi un’ora!
Gaudenzio, senza saper darsi una ragione, aveva l’idea fissa che la strada buona fosse a destra; e quell’altro invece svoltava sempre a sinistra.
— Brav’omo, andemo giusto de qui?
Ed il montanaro sempre innanzi di alcuni passi, rispondeva con un monosillabo, o semplicemente affermando col capo.
Strano! prima colui pareva ben disposto alle chiacchiere, ed ecco che adesso aveva perduto la parlantina, non rispondeva neanche più, e tirava inesorabilmente innanzi, sempre verso la sinistra, cioè in mezzo a certe gole avvallate e nere, come gola di lupo.
— Ma dove l’è sta benedetta strada?
— Più in là. — Rispose la guida senza voltarsi.
O fosse vero, o fosse immaginazione, fatto sta che Gaudenzio trovò, nel tono della risposta, una secchezza inquietante, e istintivamente si guardò intorno con diffidenza.
Adesso erano proprio nel fondo di un burrone stretto, che li incassava fra due gigantesche pareti di macigni. A guardare in su per vedere un pezzo di cielo, bisognava scavezzarsi il collo. Un paesaggio orrido, una forra da briganti, e Gaudenzio, senza sforzo, ricordò, con una lucidità di mal augurio, tutte le leggende di assassinii perpetrati da malandrini appostati nelle gole delle montagne.
Martina da un pezzo era andata più oltre nei sospetti, e già spasimava nella paura che quel montanaro volesse tirarli in qualche agguato.
Sor Gaudenzio, facendo uno sforzo di sorriso, ruppe l’angoscioso silenzio:
— In somma, me par proprio che de chi, se va lontan de la nostra strada!
La guida si voltò per rassicurarli, ed i Gibella si barattarono uno sguardo rapido, atterrito. — Dio, che ceffo aveva colui! che occhio torvo... che aria di manigoldo! E poi, che cosa era quel bernoccolo che ponzava sotto la zimarra? un falcetto, o una pistola?... Ah più nessun dubbio, sotto quei cenci di fustagno c’era un malfattore armato fino ai denti!
Gaudenzio sudava ghiaccio. Martina si soffermò alquanto con un pretesto dietro un masso, e di fretta e furia si tolse gli orecchini, la catena e l’orologio, ed abboracciò tutto nelle calze.
Ah che batticuore! Dio santo. Pareva che li avesse rubati lei!
Procedevano silenziosi, riluttanti, guardinghi, con terrore di vittime impotenti a sottrarsi al loro destino.
Ogni movimento di quell’uomo confermava gli atroci sospetti. A momenti colui si sarebbe voltato con quella sua faccia da galeotto, con pistola e coltellaccio, li avrebbe presi per la gola ruggendo con voce da Caruso:
— O la borsa o la vita!
Per la borsa, pazienza! pensava Gaudenzio; glie l’avrebbe data anche subito a semplice richiesta, colle buone, pur di evitare a lui ed a Martina lo spavento di un’aggressione. Ma la sua pelle lasciarla proprio là, in quella gola da lupo! Ah Gesummaria, pur troppo... pur troppo non c’era da sperare! questi briganti svaligiano, poi accoppano, buttano le vittime in un fosso, e buona notte!
Ogni minimo rumore, un alito d’aria nei fogliami, il fruscio di una lucertola, il rumore stesso dei loro passi li metteva in un sussulto di terrore, strozzandogli il respiro. — Pur troppo era finita! Oh perchè mai avevano lasciato il loro bel paesello, e la quiete della famiglia? Difendersi? e come? Gaudenzio non ci pensava nemmeno, non aveva più fiato... era nelle mani d’Iddio. Tornare indietro, fuggire? e dove? avevano forse ancora le gambe?...
Eppoi, colui li avrebbe subito ghermiti in due salti, ferendoli sul colpo con quel coltellaccio da macellaio che aveva in saccoccia.
Ah la migliore, la più prudente, era quella di pigliarlo con le buone colui, andargli a versi e non irritarlo. Chissà; forse sarebbe abbastanza cristiano da contentarsi delle duecento lire circa che Gaudenzio aveva in tasca, e dell’orologio. E se quei danari non bastavano, egli avrebbe fatto giuramento di spedirgliene degli altri con vaglia postale, appena giunto a casa, ed avrebbe tenuto la parola da onesto negoziante, convinto che in vita sua non avrebbe mai fatto miglior affare.
Tutto, tutto, qualunque patto, qualunque sacrificio; ma quel coltellaccio nelle carni... quella lama gelida nella pancia!... misericordia, misericordia!!
Ecco, adesso quell’assassino svoltava, trascinandosi dietro le sue vittime all’ultima tappa. Forse i suoi colleghi briganti erano là, appiattati nelle macchie di quel montagnone che si levava immane segregandoli dall’universo...
Una sciamata di uccelli starnazzò da un ciglione, e via rapida nel cielo sereno, con le ali pennellate di sole... Oh come sono felici gli uccelli!...
Un fischio lungo, acuto, risuonò nel grembo della montagna, e subito dopo un altro sibilo più in su.
— È finita! — pensò Gaudenzio — ci siamo!
Martina pallida, convulsa, stava per cadere in deliquio, quando una voce allegra, ruppe il silenzio della valle.
— Ehi Carlino?... sbrighiamoci!
Per l’amore di tutti i Santi! Gaudenzio riconobbe quella voce... ma sì, ma sì, era lui!... eccolo! ecco il professore Augustini che sbucava da una macchia, ed ecco il suo bel figliuolino più in su, che scendeva a precipizio per raggiungere il babbo.
Gaudenzio non ebbe freno alla gioia, e protendendo le braccia come naufrago che scorge una vela, urlò:
— Professore!... professore! siamo qui... siamo noi!... Oh sia benedetto!
La gioia, l’entusiasmo, la felicità di quei poveri Gibella, sono cose indicibili. Ah certo valeva la pena di passare per l’ingranaggio di quelle torture di spasimi e di spaventi, per arrivare ad un’estasi così sconfinata di consolazione.
Eccolo quel benedetto professore, proprio lui, con la sua faccia da Evangelista! Martina abbacinata dalla riconoscenza, vedeva addirittura l’aureola radiosa dei santi intorno a quella testa sudata, e mancò poco che non cadesse in ginocchioni.
Gaudenzio usciva dalla pelle; corse su per l’erta sassosa, lesto come un daino, minacciando di scavezzarsi in uno sdrucciolone; e quando ebbe fra le sue, la mano grossa, calda, fraterna, del suo liberatore, si sentì dilatare il cuore aggruppato dallo sgomento.
— Eravamo perduti chi denter! — sclamò. — Oh caro professore, che spaghett... che paura!
Il professore tornava da una delle sue solite gite da camoscio su per le montagne. Figurarsi se i Gibella gli andarono dietro! Anche in capo al mondo! tanto fa, non sentivano più nè disagio nè stanchezza, e Gaudenzio, ilare e felice, giurò che adesso si sentiva in vena di camminare anche per tutta la notte.
Il montanaro fu lasciato in libertà, ed il signor Gibella accomiatandolo, gli diede di gran cuore alcuni spiccioli, tenendo come per guadagnate le duecento lire che aveva in borsa, e l’orologio.
Per via i Gibella narrarono al professore le ansie paurose del loro viaggio, ed ebbero quasi dispiacere quando il professore, incredulo del pericolo, li assicurò che si erano tanto allarmati senza fondamento, che i loro sospetti su quell’uomo, erano errati.
— Sarà, — pensava Gaudenzio, — se l’era no un brigant, la facia l’era quella di un poc de bon!
Il professore, pratico dei valichi e dei sentieri, si trasse presto da quell’intrico di vallicine, e dopo una camminata di mezz’ora, i Gibella ebbero la soddisfazione di scorgere sopra un declivio verde una casipola, che aveva l’apparenza di essere abitata.
— È la casa della Janna, — disse il professore, — quella vecchierella che portò ieri i funghi all’oste.
— Ghe sarà de l’aqua de bev? — chiese Martina.
— Altro che! — rispose il professore, e chiamò forte: — Janna? Janna?
Dalla casipola sbucò prima un cane; era Toni, e dietro Toni, la vecchia, con un bambino in braccio.
In due minuti furono tutti sulla spianata, ed il professore sedendo con famigliarità presso l’uscio, pregò la Janna di portare una tazza d’acqua fresca, che Martina ingollò in un fiato come nettare.
Intanto la vecchia narrava i suoi guai al professore: era desolata perchè quel suo piccino aveva una febbrona da bestia. La nuora era fuori a lavorare, e lei aveva dovuto rimanere in casa per sorvegliare l’infermo; una giornata persa... e magari bastasse!
Carlino giuocherellava con Toni facendogli ustolare un tozzo di pane avanzato dalla colazione. Più in là, sull’erba arsiccia, pascolavano due capre, ed alcune galline bezzicavano e razzolavano nel terriccio.
La Janna continuava la litania delle sue miserie; l’annata era stata magra e l’inverno minacciava di richiuder presto la famigliuola con poca risorsa nella sua topaja... bisognava misurare la polenta. Ma dopo tutto, ella confidava nella Provvidenza; non le rincresceva il dover assoggettarsi a fatiche e privazioni alla sua età... che farci?. . . . . . . . .
Era la fame dei piccini che metteva la civera sulle sue spalle gravi di oltre settant’anni... pazienza dunque, se il Signore voleva così!... le forze non erano più quelle di una volta, ma la rassegnazione era sempre la stessa!. . . . . . . . . . . . . .
E nondimeno quella faccia disfatta, grinzosa, aveva dentro una placidezza di sereno tramonto; negli occhi annebbiati della vecchietta luccicava, tremolando, il raggio di quella fede incosciente che l’aveva accompagnata nella lunga carriera di miserie e di travagli, tollerati per naturale sentimento del dovere, per atavismo, per eredità di laboriosa pazienza accumulata e trasmessa per una sequela di generazioni.
Il professore guardava con un sorriso intelligente e commosso quella vecchiaia stanca, cadente, e tuttavia fiduciosa e serena, e pensava:
Pensava che queste molecole animate dal sentimento del dovere, costituiscono l’immane blocco dell’edifizio sociale, nella stessa guisa che le goccioline stillanti dal secreto delle roccie, portano il loro ignorato e potente contributo agli oceani sterminati.
Pensava che senza queste anime buone disseminate a milioni e milioni nel pattume del mondo, i tristi, gli infingardi, gli egoisti scalzerebbero in meno di un secolo tutte le conquiste e le istituzioni della civiltà.
Pensava a Edgardo Quinet, che nella luminosa sintesi filosofica dello Spirito Nuovo, ha così efficacemente rivelato l’incosciente organizzazione di queste cellule del bene; militanti a falangi sotto la stessa bandiera, collegate da un polo all’altro da uno stesso programma di fede, e dal dogma eterno del bene; dogma promulgato senza formole legislative, sprizzato come la luce, come il calore dalla legge suprema che governa ogni cosa nella natura.
Pensava il professore che mentre gli accorti benestanti si pappano gli agi della vita, questi umili accumulatori di forza e di prosperità, attraversano una vita tribolata di fatiche e di sacrifizi, e quando la loro giornata volge al tramonto, si adagiano sulla terra fecondata dai loro sudori, e muoiono, legando alla loro posterità un più largo censo di abnegazione e di pazienza, per la letizia dei beniamini della fortuna.
I quali non paghi di godersi in una giornata oziosa il lavoro di cento braccia, si assolvono da per loro di quell’usurpazione, vaneggiando nella boria altezzosa delle loro prerogative di grado!
Il buon professore si attristava in cotali pensieri; ma in quel momento la vecchia Janna aveva un sorriso di pace negli occhi, ed egli concluse benedicendo la santa Provvidenza che largisce tanta serenità di animo, tanta virtù di pazienza, ai diseredati della fortuna!
I Gibella guardavano con affettuosa pietà la vecchierella col suo bambino sulle braccia, e sor Gaudenzio, contro la sua abitudine, si sprofondò anch’egli in meditazioni filosofiche sulla miseria dei poverelli.
Carlino scorrazzava sulla spianata, vispo e fresco come uscisse allora dal riposo, e Toni gli galoppava dietro scodinzolando, per guadagnarsi quel sospirato tozzo di pane bianco. Le galline scappavano starnazzando spaurite giù per il pendio, e le capre, pascolavano tranquille e indifferenti nell’erba.
A proposito del Toni, c’era una sua prodezza della giornata. Una faina ladra molestava il pollaio della Janna e degli altri casolari del dintorno. Ogni giorno quella bestiaccia rapinava una gallina, e figurarsi il danno di quella povera gente che allevava i polli per cambiarli in polenta.
Toni si puntigliò di farla finita con quei rubarizii, ed ecco che nella notte, era riuscito nell’impresa. Chi sa come! sclamava la vecchia, fatto sta, che stamane Toni entrò in casa con la faina morta fra i denti. Gran mercè! ed ecco che quel povero cane aveva fatto un gran benefizio alla sua casa, ed ai vicini.
Carlino fece tanti rallegramenti a Toni, gli diede subito il pane, e la povera bestiola riconoscente si sciolse in lazzi ed in latrati di allegrezza, e per dimostrare il suo valore, fece due salti sul muro da cui pendeva la faina morta, cercando di addentarla ancora una volta.
Il sole tramontava rapidamente: l’enorme suo disco fiammeggiante gravitava come a spezzarsi sull’orizzonte irto di culmini rocciosi. Il cielo laggiù co’ suoi colossali aggruppamenti di nuvoloni purpurei, riproduceva in una grandiosità cosmica, i fantasiosi carri trionfali di Guido Reni. Tutto intorno, sorrisi di luce, di trasparenze, e pennellate di carminio; e giù nelle valli si accumulavano, si condensavano e salivano insidiose le brume grigie della sera.
— È tempo d’incamminarsi — disse il professore alzandosi; — addio, Janna!
Martina, questa volta di sua spontaneità, suggerì al marito di dare qualche cosa alla vecchia, cosa che Gaudenzio era già sulla strada di fare, con vero piacere.
La vecchia salutò commossa, e stette a guardare dalla spianata la comitiva che scendeva giù per il declivio.
Toni, per far meglio gli onori di casa, si spinse innanzi a far da battistrada, abbaiando e giocherellando con Carlino suo grande amico.
Per buon tratto tenne la scorta, poi incominciò a rallentare, e finalmente rimase indietro a malincuore, pensando forse di essersi troppo dilungato.
Stette là piantato in mezzo al sentiero, guardando il suo amico che era già molto lontano.
Quando si trattò di scantonare, Carlino si rivolse salutando fanciullescamente la povera bestia che lo teneva d’occhio.
— Ciao Toni... a rivederci!
Toni scodinzolò ancora una volta, e quando la strada fu deserta, lentamente, quasi malinconico, si avviò verso la sua casupola, prendendo la scorciatoia su per l’erta.
La giornata precipitava; squallivano intorno i folgori erubescenti del tramonto, le montagne e le valli s’immergevano nel ceruleo bigio; gli alberi e i casolari posti sulle alture, si profilavano nereggiando sul cielo crepuscolare, e già il grave silenzio della notte incombeva sulla valle.
Da un’altura soprastante alla stradicciuola, scendeva una comitiva di signori chiaccherando e ridendo clamorosamente. Era la compagnia del procuratore Begozzi; l’avvocatone allegro, i giovinotti e le signore, avevano merendato allegramente all’Alpe, ed ora scendevano giocondi e chiassosi verso Oira, per tornare a casa nella stessa sera.
L’avvocatone aveva fatto sganasciare la compagnia con le sue barzellette, e le signorine non istavano più nel busto, un po’ per il gran ridere, ed un poco anche per l’esuberante merenda divorata lassù in faccia al sole, nel refrigerio dell’aria montanina.
Avevano asciugato tutte le provvigioni di intingoli e bottiglie, mandate espressamente sopra luogo, e poi sempre ridere, ballare, turbinare pazzamente.
Quel risancione di avvocato faceva da orchestra zuffolando, canticchiando, imitando tutti gli istrumenti, ed ora si erano messi tutti insieme a berteggiarlo, per quella sua carabina che si era portato dietro senza prendere neanche un passerino.
E l’avvocato, stronfiando e sudando, ruzzolava giù con quel suo pancione sbardellato, scommettendo che nessuno avrebbe potuto tenergli dietro. E poi, fingendo di suonare la cornetta, metteva alla bocca il suo boraccino del Cognac, e beveva sorsate che gli facevano raggrumare nello stomaco la merenda inaffiata di latte, e di barbera vecchio.
Ad un tratto l’avvocato sostò, e volgendosi con gran mistero agli altri, impose silenzio con un fragoroso tss... che tappò tutte le bocche.
— Signorine belle, — disse sottovoce, — ho giurato di serbare i colpi della mia carabina per le bestie feroci... non è vero? — Ecco la belva.
Ed additò il povero Toni, che dall’altra parte della valletta si arrampicava per tornare a casa.
— È un cane! — mormorarono le madamigelle.
— Canzonano! un cane? — sclamò l’avvocato con un sogghigno da brillo: — è un lupo cerviero della più bella specie!
Puntò il fucile; le signorine dapprima non volevano, ma poi tutti si misero in attenzione, con la certezza che l’avvocato non era più in caso di prendere la mira giusta, ed aspettando il fiasco per dargli la baja.
Partì il colpo rintronando in tutti i meandri della valle, e subito dopo, l’avvocato proruppe in un urlo selvaggio: l’aveva imberciata!
Il povero Toni, fulminato sull’erta, mandò un guaito, e rotolò gemendo giù sulla strada.