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colorita, pomposa, tuffava le braccia rosee e vigorose nell’acqua cristallina, risciacquando un cesto di verdura.

Sor Gaudenzio avrebbe mangiato volontieri quell’insalatina fresca e lucente; la sgambettata sulla montagna gli aveva mandato la colazione fino ai garretti.

Attraversarono Centonara, e sbucarono di nuovo all’aperto, fra praterie a scodelle, e guanciali di verde smalto trapuntati qua e là di zuccaje che stendevano a gambe di ragno i branchii fronzuti sull’erba.

Ma quel sole arrostiva dappertutto: anche Martina si sentiva nella schiena una filtrazione di caldura scottante. E quel suo cappellino che fastidio Dio buono!

Finalmente in capo alla strada, ecco un gruppo di case addossate, nere e viscide come fungaja.

— Se quello non è Artò — sclamò Gaudenzio, — giuri che turni indrè!

Peccato! questa volta ci erano proprio arrivati.

Inoltrarono nella strada stretta, tortuosa e scura del paesello alpestre, e Gaudenzio trascinandosi sui ciottoloni lubrici del selciato, mulinava fra sè: — Eh