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dell'impero romano cap. xxxvi. | 469 |
avrebbe potuto riflettere, che se la resistenza della sua moglie era stata sincera, la sua castità era tuttavia inviolata, e che questa non si sarebbe mai reintegrata, se essa avea consentito al voler dell’adultero, ed un buon cittadino avrebbe molto esitato prima di gettar se stesso, e la patria in quelle inevitabili calamità, che dovetter seguire l’estinzione della real famiglia di Teodosio. L’imprudente Massimo trascurò queste salutari considerazioni; secondò la propria collera ed ambizione; vide il cadavere sanguinoso di Valentiniano a’ suoi piedi; e si udì salutare Imperatore dall’unanime voce del Senato e del Popolo. Ma il giorno del suo inalzamento fu l’ultimo della sua felicità. Esso fu imprigionato (tal è la viva espressione di Sidonio) nel palazzo; e dopo aver passato una notte senza dormire, sospirava per esser giunto al colmo de’ suoi desiderj, e non aspirava, che a scendere da quella pericolosa elevazione. Oppresso dal peso del diadema, comunicava i suoi ansiosi pensieri al Questore Fulgenzio, suo amico; e quando guardava indietro con inutile pentimento i suoi piaceri della vita passata, l’Imperatore esclamava: „o fortunato Damocle1, il tuo regno principiò e finì nel medesimo pranzo!„ Allusione ben nota, che Fulgenzio poi ripeteva, come un’istruttiva lezione pei Principi, e pei sudditi.
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Districtus, ensis, cui super impia
Cervice pendet, non Siculae dapes
Dulcem elaborabunt saporem:
Non avium citharaequae cantus
Somnum reducent..... Horat. Carm. III. 1.Sidonio termina la sua lettera coll’istoria di Damocle, in modo sì inimitabile raccontata da Cicerone (Tusculan. V. 20, 21).