Ragionamento di Carlo Rosmini cavaliere del S.R.I., accademico fiorentino per servire d'introduzione all'opera da lui meditata degli scrittori trentini e roveretani/Ragionamento

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RAGIONAMENTO

DI CARLO ROSMINI.


SE vi fu secolo alcuno, in cui l’Italia più feconda fosse di mezzi onde nutrir nel suo seno gli uomini grandi ed allevargli al buon gusto, egli è certo il presente, ove le scienze, l’arti, e le lettere si veggon condotte alla lor perfezione per tanta copia di libri eccellenti sì nazionali, che stranieri de’ secoli trapassati. Eppure è forza altresì confessare, che nel ruolo de’ secoli colti, o a parlar più veramente, delle colte età, questa in cui viviamo, è l’età forse, ove più rare escir si veggano l’opere originali che possan far epoca ne’ fasti della nazionale letteratura. L’ozio, l’infingardaggine, l’eccessivo amor del piacere maravigliosamente trionfano sull’italica gioventù, e ciò che è più ancor pernizioso, il disprezzo in che s’hanno le lettere, e chi le coltiva: a tal che se alcuno dalla via [p. 4 modifica]battuta dagli altri ritraggesi, e alla solitudine, e alla coltivazion dello spirito s’abbandona, è per poco mostrato a dito e deriso. Dal che nasce che assai rari sono coloro che agli studj si volgano, o vi si volgano costantemente a ben riuscire in essi, battendo quella carriera lunga e difficile, che non può per niuna maniera far lega colla moderna dissipazione. All’acquisto di quel buon gusto, tanto predicato da molti, e tanto conosciuto da pochi, che l’ottimo fa sentire, e distinguerlo dal mediocre, e dal cattivo, un lungo apparato di studj ricercasi, e un lungo svolgere e meditare di libri: quanto più poi non s’esige in chi a qualch’opera s’accinga di tessitura vasta ed artificiosa? È assai ripetuta esclamazione quella di chi si lagna, che il gusto presentemente è corrotto, che è straniero, che più non si scrive che alla foggia Inglese, Francese, o Tedesca, che le oltramontane nazioni, che ci dettan leggi nel vivere, e nel vestire, ci sono anche maestre nel gusto e nello scrivere, quando ne’ tempi andati ci furon discepole, e ogni cosa appararon da noi: verità certo incontrastabile, perciocchè nella maggior parte de’ libri, e de’ libriccini che alla giornata escono a luce, d’Italico per poco non vi si leggono che le desinenze delle parole, e tutto il resto è straniero. Eppure, per quel che a me sembra, non è già [p. 5 modifica]questo il mal maggiore ch’oggi imputar si possa all’Italia, la quale può accusarsi più ancora di non avere niun gusto, che d’avere un gusto cattivo. E in fatti, se si eccettuano, com’è pur dovere, alcune poche opere originali che posson far fede, che i sommi ingegni mai non venner qui meno, da’ libri ch’escon giornalmente de’ torchj, puossi egli formare un adeguato giudizion del gusto che or domina nella nostra nazione? No, per mio avviso. Perciocchè o sono sfibrate canzonette mestastasiane, o sonetti in aria di trattati, e compendj, che di cronologia, di dommi teologici fanno pompa, e d’ogni altra cosa fuor che d’eleganza e poetica felicità: o turgidi e vacui elogi, e liriche e fatue tragedie, e scipite commedie, e rozze istorie disordinate, e fucosi romanzi, e trattati morali di filosofici vocaboli ridondanti, ma di sana filosofica sostanza affatto privi; da’ quai libri è impossibile il giudicare qual sia il gusto ora più caro e più seguitato dagl’ingegni italiani. Perciocchè se vogliasi esaminare lo stile in che sono scritti, ove secco e saltellante il ritrovi ed epigrammatico; quando gonfio romoroso e discordante; ora d’orientali metafore, e di vocaboli esotici pieno, e il più spesso poi basso, fiacco, lezioso, negletto e disuguale, dando talvolta un libro solo l’esempio di tutti gli stili possibili, fuor che del buono, [p. 6 modifica]poichè il giro, il sapor, la vaghezza di questa nostra felicissima lingua quasi mai non incontrasi, come quasi mai non avviene, che la qualità e il color dello stile all’argomento che trattasi in qualche parte almen si conformi. Da questa maravigliosa varietà, od anzi confusione di stili (sol nello stile fermandoci per non innoltrarci più avanti) apparisce, come nelle moderne opere non v’ha un solo carattere in cui tutti gli scrittori s’accordino, e che il gusto dominante dimostri della nazione. Al contrario di ciò, che avvenne nel secolo scorso, in cui per quanto fossero i libri nell’argomento diversi, altri storici, altri filosofici, quali poetici, rettorici, e filologici, pure lo stile era in tutti nell’essenza uniforme, peccando i letterati d’allora nel soverchio amore di novità, e, nauseando il bello e perfetto, nell’andar in traccia del maraviglioso, e dell’iperbolico, e dell’affettato. Che se vorremo troppo curiosi investigar donde nasca questa universale discordanza nello stile, forse vedrem che ciò accade non per altra ragione, che perchè gli studj sono negletti, ed abbandonati, perchè l’opere originali dell’antichità sicure maestre di stile, o non son conosciute, o non sono intese, o non son che gustate così pelle, pelle, e piuttosto (e questo è il più vero) non sono apprezzate. Per la qual cosa, siccome veggiam [p. 7 modifica]negli uomini una maravigliosa diversità di visi, di costumi e d’umori, nasce così pur degli stili, che non essendo per arte formati e per lunga meditazione, prendon forma e colore dal carattere di chi scrive, e o sono sucosi, o freddi, o gonfi, o manierati, o prolissi, od oscuri, secondo che più o meno da una di queste qualità è signoreggiato l’autore; ma son sempre imperfetti: perciocchè la natura nell’uomo ognor al vizio propende, quando non sia corretta e modellata dall’arte, e quest’arte nel nostro proposito altro non è che lo studio. Ma questo studio al presente più non si riguarda qual mezzo onde alla Patria esser utile, e onde procacciar a se stesso un nome immortale: i quai due fini, quando esercitino tutta la forza loro in un animo nobile e generoso, sono atti a fargli affrontare qualunque più ostinata fatica, e a trar a se tutto l’uomo: ma sol come uno strumento considerasi ad acquistar danaro onde al lusso soddisfar e alle proprie passioni, o come un ornamento che ne rendan più accetti alle donne, le quali par che più si mostrin gentili a coloro, che in letteratura han qualche fama, che non agli altri, per una ragione ad indovinarsi non ardua. Ma in quanto agli studj, che ci proccuran danaro, ben chiaramente si scorge, che non son quelli che più onorar possano un uomo, e farlo [p. 8 modifica]vivere nella memoria de’ posteri, o quand’anche questo si voglia, è palese, che chi una volta s’è posto ad affaticar per guadagno, piuttosto si cura di far molto e presto, che di far poco e bene. E quindi nasce che i primi elementi trascuransi dell’arti e delle scienze, dall’assidua e perfetta cultura de’ quali tutto il progresso dipende che può far l’uomo in esse. Chi appena sa adoperar la matita che indocile mal risponde alla mano, e tutta ignora la maravigliosa tessitura dell’uman corpo, già a colorire s’accinge, e a far tavole, e oggi mai gli par d’essere un Rafaello, e un Tiziano. Lo stesso si dica pur degli Storici stipendiati, de’ Poeti, e Leggisti, che studiosi son pel danaro, e di danaro. Dove poi per piacere alle donne altri attenda allo studio, io so dire che ad assai stretti limiti ei confina il suo saper nelle lettere, il qual l’orbita non dovrà passar d’ordinario o d’alquante leziose novelle, o d’una raccolta di canzonette, e di sonetti galanti, i quali tanto più saran fortunati, quanto più s’allontaneran dallo stile dei Petrarca, de’ Casa, dei Bembo, e degli altri campioni più famosi d’amore. Nè io già ciò dico a disprezzo della parte più amabile del nostro mondo, ch’io amo ed ammiro quant’altri mai. Hanno le donne tant’altri pregi ond’essere onorate, e riverite dagli uomini, senza [p. 9 modifica]pretender quello d’esser giudici dell’opere letterarie, dal qual ufficio le allontanna e il loro istituto, e l’educazion loro: da questo numero però eccettuandosi quelle, che alla loro amabilità e alle loro conquiste alcun poco detraggono, per attender seriamente alle lettere. Ora se conceduto ci venga quest’universale languor negli studj, e quest’anarchia di stili, che l’esclusione d’un gusto dominante già ci manifestano, potrem francamente asserire, doversi assai più compiangere per rispetto alle lettere il secolo in cui viviamo, che non lo trascorso, come che a ragione da tante penne infamato. E lasciam pure che in quanto alle scienze il XVII. fu il secolo forse più glorioso di tutti all’Italia, essendo fioriti in esso i Galilei, i Torricelli, i Borelli, i Cassini, i Viviani, e molt’altri; anche per ciò che s’aspetta alle lettere, comparvero in esso prestantissimi ingegni, che scrissero opere esimie, e che non si lasciaron vincer cogli altri al torrente della corruzione, perciocchè alla poesia sola restringendoci, la qual pare che fosse maltrattata in allora, si distinsero pure, anzi s’immortalarono in essa i Chiabrera, i Tassoni, i Filicaia, i Alessandro Guidi, i Redi, i Testi, i Marchetti, a’ quali se perdonar si vogliano alcune piccole macchie, formano ancor la delizia, e l’ammirazione de’ più sobrj e sensati. Ma de’ corrotti e guasti scrittori [p. 10 modifica]parlando ancora, fra quali per singolar modo si distinse il Marino, essi non peccarono già, come la più parte oggi peccano de’ moderni, o per ignoranza, o per poco zelo de’ buoni studj, o per dissipazione, o per niun desiderio di gloria, ma sibbene, come più sopra toccai, per eccessivo amore di novità, e per una smodata ambizion di distinguersi e di divenire originali, non sapendo come superare, tracciando l’istessa carriera, i Petrarchi, gli Ariosti, e i Tassi, e isdegnando d’altra parte d’esser confusi fra i numerosi loro e colti seguaci. Un solo è il buon gusto, e una sola via vi conduce: chi una novella strada si vuole aprire, è forza che il perda di vista, e perda se stesso. E in fatti di vista il perderono la maggior parte de’ Secentisti: ma non pertanto a fatica non perdonavano, e non a studio indefesso, come apparisce pur anche dalle guaste loro opere, piene d’arte e di lumi d’ogni maniera. Sebbene in parte mal coltivati, erano però gli studj in fervor nel secento e in onore. Perchè avvenne, che in alcuni, i quali lungo tempo perdettero in compor libri dell’universal pece intinti, si riscossero finalmente, conobbero i loro errori, e divennero i riformatori più zelanti dell’ottimo gusto, che agli altri dieron l’esempio; come sappiamo aver fatto il Maggi, il Manfredi, e il nostro Girolamo Tartarotti, per [p. 11 modifica]tacer d’altri molti. Ma siccome costoro erano ingegni grandissimi, sempre in mezzo agli studj fervorosamente allevati e nutriti, se sepper distinguersi nel gusto cattivo, sepper anche levar fama nel buono, perchè il sepper conoscere, e tal dottrina aveano e tai lumi onde conoscerlo. Ma dove al contrario gli studj sono negletti generalmente, sono poco apprezzati, o si coltivano solo quanto posson mercarne guadagno, o servire alla galanteria, è chiaro che non si può sperare riforma, ma si dee anzi temer la barbarie, che distrugga affatto in noi e ne’ posteri nostri ogni sentimento del buono e del bello, e questa è l’epoca pur troppo funesta che per mille indizj par ci minacci.

Veduto come il languore e la poca estimazion degli studj, sono la principale cagione del luttuoso stato in che giaccion presentemente le lettere; potrebbe ora cercarsi, se ciò dalla negletta educazione derivi, e dai mezzi spenti che più eran acconci a condurla, se dalla mancanza de’ mecenati che sostengan i poveri ingegni, e spargan l’emulazione fra loro: ma lo scioglimento di questi problemi, che collegar si potrebbono con altri molti, oltre che sarebbe estraneo allo scopo propostomi, sarebbe inutile affatto, mancando ad un individuo, che scrive, e l’autorità onde dar peso ed efficacia alle sue parole, e il potere.

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Opera men perduta sarebbe piuttosto quella d’investigare un qualche mezzo, che a risvegliar fosse acconcio gl’ingegni impigriti, e a metterli in azione. Uno de’ maggiori stimoli e più atti a far superare i più grandi ostacoli e le più ardue fatiche ad un cuor generoso, è, come ho sopra accennato, il desiderio e la speranza dell’immortalità del nome. L’amor della gloria produsse le azioni più belle che tanto stupir ci fanno de’ Greci, e de’ Romani. Non sarebbe però la gloria un sì forte incentivo se solo fra i contemporanei questa durasse, o allabile tradizione fosse raccomandata: le cose che passar debbono per tante bocche, o si alteran facilmente, o dall’invidia e dai partiti si sopprimono affatto. Imperò furono inventate le storie, le quali oltre al perpetuar la memoria de’ fatti, e pura e sincera tramandarla ai posteri, sono anche d’invitamento ai successori, i quai nelle azioni degli altri, leggono come in uno specchio quel tanto ch’essi far debbono per ottener un’egual gloria o maggiore. Quanti, tutt’altro forse volgendo per mente, dopo lette e meditate le storie, divennero eccellenti ministri, infaticabili capitani, celebri conquistatori! Quanti alla lettura d’un Polibio, d’un Cesare, d’un Plutarco, e dirò ancor d’un Omero, l’immortalità debbono del nome loro? Pedanteria sarebbe, o [p. 13 modifica]almeno ovvia erudizione il quì recarne gli esempli. Quanto però della civile e politica detto abbiamo, all’istoria letteraria altresì debbe estendersi. Egli è ben vero che i letterati non così abbisognano degli Storici, come gli altri uomini grandi, perciocchè i libri loro, che non muoion con essi, fanno perpetua testimonianza della loro virtù e del loro sapere. Ma è vero altresì che non tutti i proprj pregi può un autore trasfondere ne’ libri suoi, i quali neppur tutti ponno esser letti e intesi da ognuno, e con rettitudine giudicati, onde il Biografo dotto, dopo aver dato una distinta idea della vita e delle azioni d’un autore, passa a dar una chiara notizia anche dell’opere sue, e un imparziale giudizio, e così viene a porlo agli occhi de’ posteri nel vero suo lume. Onde l’istoria letteraria dovrà riguardarsi mai sempre come gloriosa ed utile anche ai più celebri autori. L’utilità sua maggiore quì però non consiste, ma in ciò, com’è detto, ch’ella serve d’incitamento e d’esempio ai lettori. Noi per verità non manchiamo della storia letteraria della nostra nazione: quella del celebre Cav. Tiraboschi, per comune consentimento, è l’opera più perfetta e compiuta che desiderar si possa in tal genere. E in fatti gli stranieri hanno di che invidiarci su questo particolare. Pure trattandosi di scuotere dal letargo e dall’infigar[p. 14 modifica]daggine in cui si giace immersa l’Italia tutta, l’istoria letteraria universale di lei par non soddisfaccia bastantemente al bisogno. Il biografo d’una nazione un argomento trattando, che tante discipline e tanti secoli abbraccia, per compierlo a dovere, far parola non debbe estesamente che di quegli uomini sommi, che con opere esimie si segnalarono. Ma di quegli ingegni mediocri, che scrissero con buon gusto e cultura, ma o piccole cose, o non iscrissero cose originali, egli o non parla, o ne parla rapidamente, il lettor rimettendo alle storie particolari, quando ve n’abbia, che diffusamente ne trattano. L’istoria dunque letteraria d’una nazione non potrà servir di stimolo che a coloro che meno ne abbisognano. Ma quegli al contrario i quai ben conoscono di poter fuggire gli errori, ma non giugnere per avventura a quell’unione di pregi che l’eccellenza costituiscon dell’opere, disperando di poter vivere in un libro che all’obblivione gl’involi, si giaceranno disanimati, e si abbandoneranno a quella turpe inerzia, di tutti i vizi sorgente, e distruggitrice d’ogni virtù. Per questo numero d’uomini, che a petto a grandi ingegni è senza comparazione il maggiore, i quali ben coltivati, spargono il buon gusto e la coltura in tutta una nazione, lo stimolo, fecondo che a me pare, il più efficace, sono le storie letterarie particolari [p. 15 modifica]delle Città, ove non solo i primi luminari, che in quelle fiorirono, ricordansi, ma gl’ingegni altresì subalterni, che con qualche non però frivolo attestato o manoscritto, od a stampa dierono prove de’ loro geniali studj. E anche quì non possiamo a buona ragione dolerci che questa verità nun sia stata in parte almen conosciuta. Poche sono le Città d’Italia, che la loro storia letteraria non vantino. Ma pure nell’esecuzione di queste storie parmi sia corso un abuso grandissimo, colpa del quale, ciò che dovrebbe essere per se medesimo pieno d’utilità, o inutil diventa, o per avventura anche nocevole. L’abuso di cui parlo si è il costume introdotto di far menzione in esse non solo de’ buoni scrittori, che buoni esser possono anche i mediocri, non solo degli scrittori corrotti, che anche in mezzo alla lor corruzione dati aver possono saggi di molto ingegno, e avere scritte cose utilissime; ma d’ogni scrittore qualunque ei si fosse, ed autore d’ogni piccola cosa, e per fin d’un sonetto, d’un madrigale, e d’un epigramma, e anche questi cattivi: il qual metodo per mio avviso e disanima i buoni, e dà ansa agl’insulsi ed ignoranti scrittori. Quelli perchè confusi si veggono e al parallelo messi d’ogni facitore di scorbi, questi perchè per ogni cosa cattiva e frettolosa che faccian sicuri già sono d’essere registrati ne’ fasti della Civica letteratura.

[p. 16 modifica] Fra le città italiane però, che per non so qual avverso destino le particolari storie lor letterarie mostrar non possono, sono Trento e Rovereto. Città certo feconde d’ottimi e vivaci ingegni quanto alcun altra, e che produssero nelle scienze e nelle lettere d’ogni maniera valorosi scrittori. Non è questo il luogo di ricercare da che mai nascesse in passato tanta indolenza, ma è ben questo il tempo di scuotere tanta vergogna e di mostrare più che con le parole, con autentici documenti, che se queste Città furon prive d’uno scrittore della loro letteratura, non però meritavano d’esserne. Mio intendimento dunque è di supplire, o a meglio dir di tentare quel ch’altri non fece, e di tessere le notizie degli scrittori del Principato di Trento, e della Valle Lagarina, di cui Rovereto è capo. Per le ragioni dette di sopra mi partirò dal metodo universalmente tenuto in tali opere, e non farò menzione che di quegli autori che meritano d’essere ricordati, o per l’utilità e novità dell’argomento trattato, o per il buon gusto, e l’ingegno con cui fu trattato. La mole maggiore o minore de’ libri, non saranno qualità da me punto considerate, ma sibbene il valor d’essi. Onde avverrà qualche volta che un autore di grossi volumi impressi non sarà da me ricordato, o se ricordato, sol di passaggio; dove al [p. 17 modifica]contrario mi diffonderò lungamente intorno ad un autor d’un opuscolo, o stampato o ancor manoscritto. I miei scrittori saranno scelti, niente del numero loro curandomi, ma del merito. Saranno esclusi dall’opera mia gli autori scipiti e sciocchi, i raccoglitori di poesie, quand’altro fatto non abbian mai che raccogliere, e i poeti d’un sonetto, d’un madrigale, e d’una canzone: perciocchè non v’è alcuno che sappia leggere, e ch’abbia orecchi, che in istato non sia di far quanti versi rimati a lui piaccia: assioma antichissimo essendo, fin da’ tempi di Flacco, che il riuscir mediocre o cattivo poeta, ella è cosa piuttosto di disonor che di lode. Degli scrittori medesimi che saran nell’opera mia registrati, non m’ostinerò a lodare ogni cosa; ma dove gli crederò degni di giusta ed onesta censura, sì il farò liberamente in quel modo che per me si potrà, con più rigore trattando i più celebri, appunto perchè l’esempio degli uomini grandi può essere agl’inesperti più contagioso, che non quel de’ mediocri. Una storia letteraria vuota di esame e di critica, è un’opera di poca utilità e di poco pregio, e meritamente può andar confusa cogl’indici.

Io ho sin quì molti materiali raccolti per la mia fabbrica, ma è ben lungi ch’io sia ancora in istato d’accingermi a questo lungo e difficil lavoro. Alle notizie da me con [p. 18 modifica]molta fatica unite singolarmente, de’ più remoti tempi, manca quell’autenticità, senza la quale non sia mai ch’io m’accinga a questa impresa. I libri che ho potuto consultar non sono molti, e alssai pochi i documenti, che ho potuto vedere e registrare: e gli archivi, e le biblioteche private, tranne assai poche, non so per quali arcane ragioni, furono infino ad ora per me inaccessibili. Nientedimeno voglio sperare, che avendo io fatto palese al pubblico il mio disegno [che a tale effetto appunto mi sono risolto di pubblicar questo Scritto] mi verran porti dalle persone letterate e cortesi que’ necessarj soccorsi, senza i quali, potrei io ben desiderare, ma non mai compiere quest’edificio.

Ma quì già parmi di sentirmi fare un acerbo rimprovero ad alcuni de’ miei concittadini, perch’io abbia osato asserire, che i letterati di Trento, e di Rovereto mancano ancora del loro biografo, quando fin dall’anno 1733. uscì da’ Torchj di Pierantonio Berno Librajo in Rovereto, un opuscolo che ha questo titolo: Saggio della Biblioteca Tirolese, ossia notizie istoriche degli Scrittori della Provincia del Tirolo, nel quale (è necessario dirlo perchè s’intenda) si registra pur qualche scrittore di Trento e di Rovereto. Autore di tal libriccino, è Jacopo Tartarotti, fratello del famoso nostro Girolamo. S’io [p. 19 modifica]l’avessi potuto far senza biasimo presso certe persone

Che con la vista non passan gli occhiali,

avrei di buon cuor taciuto di questo libretto per togliere ad un mio concittadino, che non d’ogni letteratura, e d’ogni buon gusto fu privo, la taccia d’un peccato massiccio appena degno di scusa in persona rozza ed idiota. Fra gli Scrittori dunque Tedeschi di Bozen, di Brixen, di Meran, di Mariaperch, d’Inspruch, e di Schvvaz, paesi del Tirolo, egli annovera, con non so qual induzione geografica, alcuni autori di Trento, e di Rovereto, e così viene a fare un mescuglio insoffribile di letteratura italiana e tedesca, le quali quanto sieno d’indole e di genio diverse, il sa ciascun che per poco versato sia negli studj patrj e stranieri. Io ho meco stesso lungamente pensato qual origine aver potesse un abbaglio, anzi error grossolano cotanto, nel Tartarotti, e non ho potuto trovarne altra che questa, che in tal particolare l’abbassa col volgo il più vile, la qual è d’aver egli confuso l’originaria situazione de’ paesi coll’eventuale dominio. Ma a guarir d’un tale zotico pregiudicio, potea bastare una scorsa ch’ei dato avesse ai più celebrati geografi, cominciando da Tolomeo, da’ quali imparato avrebbe, che Trento, sin da’ tempi antichissimi dell’etrusca sua fondazione, e in tutte le [p. 20 modifica]divisioni fatte quindi in Italia, fra le città italiane fu compresa sempre e registrata1. Egli però non diede che un piccol Saggio, e di dieci soli tra Trentini e Roveretani parlò: ma quanto ei fece è anche assai, a dar idea di quello ch’ei far volea, e che far non potè, perchè da immatura morte interrotto. L’esempio di lui fu seguito da un altro di minor fama e di minore coltura; e si fu questo l’Abate Todeschini di Pergine, il quale fece ristampare in Vinegia il Saggio Tartarottiano nuotante in un feccioso golfo d’annotazioni intemperanti e ìndigeste, le quali non ci lascian punto dolere ch’ei colorito non abbia, com’era suo intendimento, il disegno del Tartarotti. Io potea dunque tacer di costoro, senza che giusto biasimo me ne venisse, perciocchè il metodo ch’io son per tenere, sia in tutto opposto a quel [p. 21 modifica]ch’essi tennero, come ciascuno vedrà se il ciel darammi tanto di vita, e se i mezzi non mi mancheranno onde compiere il mio lavoro.

Intanto per dar una piccolissima idea di ciò ch’io sarò quindi per fare, e per animar vie maggiormente i colti miei compatriotti a meco concorrere nell’illustrar la memoria di tanti concittadini già spenti, voglio far conoscere al pubblico un valoroso Trentin Poeta, vivuto nell’aureo secolo XVI., e ciò che parrà forse più strano, ignoto a tutti ch’io sappia, e al Mariani, e ai Tartarotti non solo e al Todeschini, ma al P. Bonelli altresì e al Mazzucchelli, e a quant’altri nell’opere loro parlarono de’ Letterati Trentini. Il rimprovero che si fa d’ordinario a Trento di non aver prodotto niun Poeta di qualche valore, m’invoglia ognor più di farlo conoscere, almeno in quella parte ch’io posso. Dico in quella parte ch’io posso, perciocchè per quante ricerche io abbia fatte, e fatto fare anche ad altri per avere qualche particolar notizia di costui, tutte andarono le mie fatiche, e le mie speranze deluse. Si fu questi dunque Girolamo Bucetti, o come volgarmente si dice, Busetti, di Rallo, nella Valle Anaunia; e quel poco ch’io sarò quindi per dirne sarà tratto da un Canzonier MSS. di lui, di ragione di quella Civica Libreria, e il merito d’avermelo fatto conoscere è [p. 22 modifica]dovuto al Nob. Sig. Francesco Saibante, Cavaliere di molta e varia erudizione, e delle antichità patrie amantissimo.

La famiglia Bucetti fu nobilitata da Rodolfo II., che nell’anno 1576. succedette all’impero. Il primo Bucetti, di cui nelle carte di questa famiglia si faccia memoria, è un certo Pietro, il quale fu come lo stipite di tutte le linee che ora fioriscono in Trento, Rallo, e S. Zeno. Questo Pietro morì l’anno 1592., onde parrebbe che il nostro Cristoforo o fratel fosse di lui, o per lo meno figliuolo. Ma di niun Cristoforo non si parla, fra i figliuoli di Pietro. Ben d’un Cristoforo si fa menzione, fiorito verso la fine dello scorso secolo XVII., e Consigliere di Salisburgo e di Trento (come si rileva altresì da’ monumenti che esistono nella Chiesa di S. Marco degli Agostiniani di Trento); ma questi per modo alcuno non può essere il nostro, come per mille indizj chiaramente vedremo. Il Conte Mazzucchelli ne’ suoi Scrittori d’Italia, all’articolo Busetti, parla d’un Girolamo Trentino, che, com’egli dice, ha Poesie dietro all’Orazione funebre in morte del Card. Lodovico Madrucci, composta da Nicolò Inamio, e stampata in Trento l’anno 1600. Queste Poesie però consistono in un epigramma di soli sei versi latini, sull’argomento medesimo dell’Orazione. La data de’ tempi [p. 23 modifica]sospettar fammi non questo Girolamo fosse fratel di Cristoforo, tanto più che alcuni sonetti si leggon del nostro Poeta diretti ad un fratel suo, che di poesia par fosse amatore: ad ogni modo non si può asserir cosa alcuna con fondamento.

Nacque Cristoforo Bucetti in Rallo, ma non sappiamo in qual anno. Egli però fioriva ai tempi del Card. Lodovico Madruzzo Vescovo e Principe di Trento, nato l’anno 1532., e di Pio V., morto l’anno 1572., come appar da un Sonetto che porremo quì sotto, con gli altri del piccol Saggio che siam per darne, e che comincia:

Liete felici avventurose squadre.

E basti questo aver detto intorno al tempo in che egli viveva. Sortì dalla natura un temperamento fervido e dolce nel tempo stesso, come dalle sue poesie si rileva, piene di soavità, e insiememente di fuoco. Ancor giovinetto d’una donzella s’innamorò, vaga ed onesta, dalla qual poi allontanatosi per cinque anni, guarito della prima passione, incappò in altra assai più fiera e cocente. La seconda donna ch’egli prese ad amare eccedeva di gran lunga la prima (com’egli medesimo in una annotazione s’esprime) sì di bellezza, come di nobiltà, ricchezze, virtù, ingegno, e sapere. Questa continuò egli ad amare focosamente per anni [p. 24 modifica]quindeci, fin che morendo, lasciò pieno di scontentezza e dolore, come da questi versi apparisce:


Non ebbe così tosto il loco scorto
     L’occhio di veder vago il suo dolore
     Ove un tempo felice mi fè amore,
     Che fui poco lontano a restar morto.
Che il foco, che cinqu’anni e diece porto
     Chiuso nel petto, avvampò in guisa il core
     A rimembrar chi fu dell’altre onore ec.
Morte ebbe invidia al mio felice stato,
     Per se la volse, e me lasciò quì in terra ec.
Le belle membra un freddo sasso serra,
     L’alma è nel Ciel del gran Motore a lato,
     Io quì dolente ne l’antica guerra.


Ma chi ella fu poi questa Donna che tanto ebbe potere in sull’animo del nostro Poeta? Ecco lo scopo delle nostre ricerche, che altronde non possiam fare, che nel volume delle rime di lui. Questa era certo d’illustre lignaggio, e superiore di molto alla condizion di Cristoforo, perciocchè egli co’ proprj occhi si lagna, che dal destino e dall’amore costretti abbian mirato sì alto:


Occhi miei lassi che a mirar tant’alto:
     Amor v’indusse, e il fier vostro destino.


ed essa poi in sulle prime, com’egli nelle annotazioni significa, non degnava non che ascoltarlo, ma non pure ammetterlo fra suoi servitori. Ma finalmente calmossi in lei [p. 25 modifica]quella durezza che non mai sono le donne senza pietà) e più gentile ed affabil divenne coll’innamorato nostro Poeta, come che assai di rado però il ricevesse per molti riguardi alla sua conversazione. L’abitazion della Donna era un Castello fabbricato sovra d’un colle, in ripa al fiume Novella:

A piè d’un colle, ov’è un Castello forte,
    Punto da quei pensieri acuti e duri
    Che fanno i giorni miei torbidi e oscuri,
    Amor mi guida, e la mia cruda sorte ec.
Vist’ho più volte crescer la Novella
    Per le lagrime amare che ho già sparse ec.

e altrove:

Una candida Cerva vidi un giorno
    Fra l’erbe lieta andar polita e bella,
    Cogliendo i fior in ripa di Novella,
    Di color bigio, e d’or il capo adorno.

Ora dalle precedenti osservazioni rilevasi, che il Castello, ove abitava la Donna dal Poeta amata, altro non era che il Castel d’Arso, o Arsio, e ch’essa era certamente una Gentildonna di quella famiglia. Infatti il Castel d’Arso è fabbricato sopra d’un colle, e il più contiguo di tutti al fiume Novella. E che ciò sia, senza più a lungo lambiccarci il cervello con conghietture, il Poeta medesimo quasi non volendo cel dice; veggasi da questi versi:

Trenta volte a l’Occaso, ed altre trenta

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    In Oriente il Sol è corco, e apparso,
    Dal dì che nel Castel restò di....
    L’afflitto cor che ognor trema e paventa.

Quì si scorge che il Poeta tacque forse per riguardi e per rispetto il nome del Castello, ma la rima cel fa indovinar facilmente, e la misura del verso, comechè non multo facile:

Dal dì che nel Castel restò di Arso:

ma io sfido chiunque a trovarmi un altro Castello in tutta la Valle Anaunia, che possa rimar con apparso:

Questa Dama dunque della Casa d’Arso, chiamavasi Dorotea, come da diversi Acrostici appare, che non porta il pregio il quì addurre, tanto più ch’egli stesso ne fa memoria:

           Forse in questo alcun erra
Pensando di saper chi sia costei,
Che nominata ho pur ne’ versi miei.

Non ebbero però buon esito gli amori del nostro Bucetti, perciocchè quantunque la Donna mitigasse un tantino della sua prima alterezza, vi fu un certo invidioso, o imprudentemente zelante che seminò cose ingiuriose all’onore di lei, e di lui, a tal che quest’ultimo, per ovviare a’ disordini possibili a nascere, fu costretto alfin di partirsi dalla Patria, e dall’oggetto da lui tanto amato. Ciò chiaramente apparisce in un lungo ed ardente capitolo fatto sul congedarsi, ove dopo aver [p. 27 modifica]assicurato la Donna d’un’eterna fedeltà con quegli scongiuri, e con quelle promesse che gli amanti più facilmente fanno che non mantengono, passa a regalare il suo detrattore d’una lunga serie di villanìe e di funesti augurj, non male imitando il famoso Poemetto d’Ovidio contra Ibi.

Ma piaccia a Dio, che sempre in pene, e in guai
    Viva colui che fu prima cagione
    Di tanto nostro mal come tu sai.
Possa in odio venir alle persone
    Quella malvagia lingua scelerata,
    E in disgrazia di Giove e di Plutone

e in altro luogo:

Oh quanto m’era duro il lasciar voi!
    Ma più duro pareami che ’l mio onore,
    Restando, in dubbio fosse, onde il furore
    Scacciò da se tutti i contrarj suoi.

Partitosi passò in Germania, ove per avventura fu in quest’occasione che bene accolto da Carlo Arciduca d’Austria, fu fatto suo Consigliere, come si raccoglie da una Elegia latina d’Adamo Bernero di Slesia, con questo titolo parasito:

Generoso atque Excellentissimo Viro Dño Christophoro Bucetto J. U. D. peritissimo, nec non potentissimi Princip. Caroli Archid. Austriae Consiliar. Stud. faut. Inclitm̃o Dño ac patrono suo gratios. Adamus Bernerius Silesiae, artium liberalium studiosus.

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Anche lontano continuò ad amar la sua Donna:

Io sol fra l’Istro e il Reno,
    E fra Boschi a l’usato or piango or grido
    Che amor mi sforza;

e i suoi sospiri e i suoi voti erano del ritorno;

E se del ritornar la speme sola
    Non nutrisse quest’alma afflitta e mesta,
    L’incomparabil duol m’avria già spento.

Sola sua consolazione era in lontananza, una treccia di capelli che la sua Donna gli avea regalato, e che portava al manco braccio annodati:

Donna gli aurati crin che al manco braccio
    Porto per vostro amor ec.

Finalmente dopo anni quattro, nove mesi, ed un giorno, ch’egli era lontano, ottenutone il permesso dal Principe suo Padrone, fece ritorno alla patria.

Dopo quattr’anni, nove mesi, e un giorno,
    Ne i quali il pianger sol mi fu concesso,
    Mercè del mio Signor, feci ritorno,
    Là dave piansi, e sospirai sì spesso.

Vi giunse in un dì tenebroso, e mentre dal cielo cadea folta neve, il che prese egli come funesto presagio:

Il Ciel presago di mia acerba sorte
    Mandava a più poter la neve in terra,
    Quel dì ch’io giunsi ove si chiude e serra
    Calei che mi tien vivo e mi dà morte.

E in fatti non più trovò la sua Donna nella [p. 29 modifica]disposizione medesima in cui l’avea lasciata, ma disdegnosa e crudele, e ciò, o perchè, com’egli mostra di sospettare, la lontananza avesse a lui nociuto, e avesse favorito qualch’altro più fortunato amatore, come suole accadere, o piuttosto perchè la Bella divenuta più saggia, non più volesse dar retta a vaneggiamenti amorosi. Che che si fosse, egli non fece altro mai più che dolersi, e folleggiando desiderarsi la morte, la qual pur troppo, come dissi, venne a cadere nella parte a lui più cara, cioè nella Donna, in sul più bel fiorire degli anni: il che diè a lui motivo di far molte patetiche riflessioni morali sulla vanità delle cose del mondo.

Ecco le scarse ed imperfette notizie che di Cristoforo Bucetti m’è venuto fatto di raccogliere dal suo Canzoniere mancandomi ogn’altro mezzo onde attignerne di migliori e più importanti. Quando ei morisse, anche questo emmi ignoto. Nell’anno 1571, egli viveva ancora, come apparisce da un sonetto di lui che al fine trovasi delle sue rime, composto sopra gli apparecchiamenti di guerra che il Turco faceva, la qual guerra non sapevasi a queste parti in chi dovesse cadere [come da un’annotazion si rileva di man del Poeta] e nella quale poi si distinsero tanto i Cristiani, e i Veneti singolarmente, colla piena sconfitta de’ Munsulmani. [p. 30 modifica]

Fra gli amici ch’egli ebbe degni sono di particolar ricordanza Nicolò Inamio, egregio Oratore e Poeta a’ que’ tempi, il quale scrisse al nostro Cristoforo ammalato un’affettuosa e dolce latina elegia: Paolo Roccio Veronese, uomo erudito, e pubblico Maestro di Scuola in Rovereto, come appare dal libro de’ Consiglj di questa Città dell’anno 1553, e del qual leggonsi più Sonetti indirizzati al Bucetti: Vincenzo Segala, uomo celebrato in allora, per la cui morte compose Cristoforo alcuni versi latini, ornamento chiamandolo in essi del suo secolo: un certo Tabarelli valorosissimo, ch’egli encomia a cielo per un fatto d’arme, in cui si comportò con lode infinita, e sarà stato questi quel famoso Girolamo Tabarelli figliuol di Tommaso, che tanto si distinse in un celebre Torneo tenuto in Vienna avanzi la Maestà di Ferdinando Imperatore, come si può vedere nel Libro dei Tornei dal loro principio stampato in Francoforte al Meno, l’anno 1566.2. Di questi ed altri ch’io taccío, ci avverrà di far parola altra volta diffusamente. Ora diciam qualche cosa per ultimo delle poesie del Bucetti.

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Il Canzoniero di lui in quattro parti è diviso. Nella prima egli celebra il suo innamoramento, e i pregi della sua Donna: nella seconda quelle Poesie contengonsi ch’ei fece da lei lontano: nella terza quelle che dopo il suo ritorno compose, nella quarta finalmente ciò che scrisse dopo la morte di lei, e per diversi altri argomenti3. Nelle sue Poesie ei si mostra studioso e imitator del Petrarca. Il suo stile è dolce, facile, ed elegante, se non che talvolta nell’accavallar immagini sopra immagini, nel ripeter gli stessi concetti, sebben con diverse parole, nello stemperar, dirò così, certe idee, pare ch’egli abbia più avuto in mira d’imitare il vivace e versatile Ovidio, che il saggio e modesto Petrarca. Anche alcune ottave si leggono, che al tornio sembrano fatte dell’Ariosto. In genere il Bucetti mostra ingegno pronto, vena spontanea e fecondissima. Lui felice, se di questi doni, come fecer [p. 32 modifica]molt’altri non avesse abusato, anzi convertiti non gli avesse in suo danno! Perciocchè per quanto sia grande lo studio ch’ei mostra aver fatto sugli originali Poeti, pur non si scorge ch’ei sempre gli abbia imitati nella correzione dello stile, e in quell’arte tanto più difficile quanto più occulta, che con ordin maraviglioso conduce il filo sottilissimo d’un componimento: nel che a mio parere fu inimitabile il Casa. Sdegnoso il Buccetti di lima, alla sua fantasia abbandonavasi e alla feconda sua vena, non mostrando aver per delitto la ripetizion degli stessi vocaboli, e persino i barbarismi, che deturpano certi componimenti che altronde e per invenzione, e per disposizione sarebbon bellissimi. Ad onta di tutto ciò dal piccol saggio ch’io son per darne, potrà giudicarne il lettore, che questo Poeta non meritavasi l’oltraggiosa obblivione in cui giacque per quasi tre secoli, e i Letterati Trentini non vorranno accusarmi perchè io sia stato il primo a far rivivere almeno in parte un non dispregevole loro concittadino.

Note

  1. Quegli però che fu primo ad abbracciar questo error popolesco, e che diè forse le mosse a Jacopo Tartarotti, fu Antonio Chiusole nel suo Mondo antico moderno e novissimo. Gran vergogna per certo de’ terrazzani, che del proprio paese o ignorino, o scambin quello, che ottimamente ne sanno, e scrivono i forastieri. Quinci le maraviglie del Muratori in una lettera a Girolamo Tartarotti da me letta di propria man dell’autore, come il fratel suo registrato avesse fra le Città del Tirolo, Trento, e Rovereto.
  2. Vedi il Bonelli Vol. III. pag. 391. delle sue Notizie Istorico-Critiche, della Chiesa di Trento.
  3. Alcuni sonetti della prima parte, corredati sono d’annotazioni per la più parte tendenti ad illustrar e spiegar meglio l’argomento delle poesie, tutte di man dell’autore; ma queste annotazioni in seguito vengono meno, con danno della storia letteraria di que’ tempi, e di quella pur del Poeta.