Canzoniere (Busetti)
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CANZONIERE
INEDITO
DI
CRISTOFORO BUCETTI
POETA TRIDENTINO
DEL SECOLO XVI
MILANO
COI TIPI DI GIACOMO PIROLA
MDCCCXXXVI.
A SUA ECCELLENZA
CONSIGLIERE INTIMO DI S. M. I. R. A.
DOTTORE IN LEGGE
CROCE D’ARGENTO DELL’ONOR CIVILE
SOCIO DELL’ACCAD. LETTERARIA DI ROVERETO
MEMBRO CORRISPONDENTE
DELL’ATENEO DI SCIENZE LETTERE ED ARTI
DI BERGAMO
SOCIO ONORARIO
DELL’ACCADEMIA DI SCIENZE LETTERE ED ARTI
DI PADOVA
E DELL’ATENEO DI TREVISO
- Eccellenza
Ogni vero amatore delle buone lettere, e della patria, si studiò sempre di porre in luce quelle opere che, recondite da molti e molti anni, potessero, col pubblicarle, aggiungere pregio alle une, ed all’altra decoro. Quindi sappiamo fino da’ tempi più remoti essere stata questa la mira di molti uomini valorosi, i quali, non temendo nè la noja di improbe, e lunghissime indagini, nè perdonando talvolta a viaggi, ed a larghi dispendj, o rivendicarono all’Italia scrittori commendabilissimi, o ne ampliarono la letteratura dissotterrando dall’obblio volumi, che senza l’opera loro generosa sarebbero rimasti derelitti ed ignorati. E ciò appunto fece l’Eccellenza vostra, che, de’ patrj fasti vaghissino, crebbe in isplendore la nobilissima e vetusta città di Trento, col raccogliere, coll’illustrare, col diffondere cognizioni, e libri degni certamente della universale estimazione. E tanto Ella può in mezzo all’alto Ministero che sì degnamente sostiene, per modo che, senza declinare un momento da gravissimi offici, toglie delle ore al riposo per dedicarle a geniali non meno che utilissime investigazioni; onde si può dire di lei, ciò che di sè stesso diceva Tullio: le ore che mi avanzano dalle occupazioni, nelle quali mi tien la Repubblica, le dono allo studio. Impertanto io reputai di secondare la rara inclinazione sua, e darle insieme una prova di quanto io la veneri ed ammiri, col farmi in questa Lettera a riepilogare alcune notizie intorno un Poeta, certo noto a pochissimi, ma che però merita luogo distinto tra gli autori del suo secolo e onore certamente accresce alla serie dei Tridentini. Nè mi si potea poi offerire occasione più acconcia per mandare ad effetto questo mio pensiere, quanto quella delle auspicatissime nozze della prima tra le carissime sue figlie, Annetta, col sig. Barone Lodovico di Handel. Il Poeta di cui scrivo cantò versi d’amore; e amore presiede all’illustre connubio, cui di una costante felicità mallevano le virtù degli sposi, e la eccellente educazione con che l’Eccellenza Vostra, unitamente alla Dama sua consorte, seppe crescere una prole per ogni più gentile costume, e più leggiadre qualità, commendevole.
E per venire al nostro Bucetti, detto volgarmente Busetti, mi ricorda aver letto un ragionamento del chiar. Cav. Carlo Rosmini, il quale è come un prodromo all’opera da lui meditata sugli scrittori Trentini, e Roveretani, in cui prende ad illustrare la memoria del Bucetti, inserendovi a modo di saggio alcuni Sonetti erotici del nostro poeta da lui altamente pregiato. Bello senza dubbio era l’intendimento del Rosmini, se tratto a riva avesse il concepimento del promesso lavoro; nè so indovinare la cagione perchè no ’l facesse, essendosi mostrato ottimo biografo, valente storico, e fervido amatore del suo paese. Mi perdoni tuttavia l’amico estinto, se alla Vita di Ovidio preferita avrei quella del Bucetti; perochè le notizie dell’uno presso a poco stavano già nella mente d’ogni uomo che avesse penetrato un po’ avanti nelle lettere latine, dove quelle dell’altro nuove affatto si presentavano. E tra i due Poeti esisteva quella gran differenza notata dall’illustre Ginguéné, il quale, parlando dei Poeti erotici antichi, scrive, che i primi solo dai sensi traevano le loro immagini, e l’armonia de’ loro canti; ed i secondi (cominciando dal Petrarca fino al Bucetti, e dopo) dall’anima, la quale è creatrice di quel bello che ideale si chiama. Ma, tornando al nostro proposito, da Rallo, luogo del Principato di Trento nella Naunia, proveniva la famiglia Bucetti, d’onde trasse l’origine Cristoforo, il quale sortito avea dalla natura un temperamento ardente e dolce nel tempo stesso: cosi ne scrivea il lodato Cavaliere Rosmini, come dalle sue poesie si rileva piene di soavità, e insiememente di fuoco. Ancor giovanetto s’innamorò di una donzella, e da questa passione appena guarito, incappò in un’altra assai più fiera, e cocente. Se non che, prima di entrare nella ricerca di questa Laura Trentina, vediamo di alcun poco discorrere degli autori del nostro Cristoforo. Egli discese da un certo Pietro, il quale pare fosse lo stipite di tutte le stirpi che ancora in Trento, in S. Zeno, ed in Rallo, sotto tale cognome si conoscono. Nacque poi il Cristoforo da Matteo Bucetti, ed ebbe un fratello nominato Michele, a cui il nostro poeta indirizza alcuni Sonetti. Si raccoglie che la sua vita fosse stata per avventura agitata e crucciosa, il che trapela dalle stesse sue Rime. Nè la mala fortuna risparmiò mai i seguáci delle Muse; e perciò il Parini sfogò la sua bile contro di esse in quel Sonetto che comincia:
Muse pitocche, andatene al bordello.
Ma di questa mala ventura dei Poeti parmi
trovar una ragione nell’intrinseco di essi
medesimi: giacchè, presi ognora dal fantastico,
poco curano del reale, senza del quale non
si può avere stabile corso di fortuna sulla
Terra. E da questa serie di calamità
poetiche penso derivi ancora quel ridicolo di
cui servonsi gli stolti per dileggiarli;
badando essi all’esteriore, non all’interna virtù
di cui sono pieni coloro che veracemente
Poeti si possono chiamare. E, tornando al
Bucetti, si sa che egli passò in Germania,
ove bene accolto da Carlo Arciduca d’Austria
fu eletto suo Consigliere, il che dichiara
un’Elegia latina di Adamo Bernero
di Slesia, al Bucetti indirizzata. L’amore non
l’abbandonò neppure in questa sua peregrinazione,
e lo segui alla Corte dell’Arciduca,
come è manifesto dai versi seguenti:
Io sol fra l’Istro e il Reno,
E fra boschi, all’usato, or piango or grido,
Chè amor mi sforza:
e desiderando, ed implorando sempre il
ritorno alla patria, esclama:
E se del ritornar la speme sola
Non nutrisse quest’alma afflitta e mesta,
L’incomparabil duol m’avria già spento.
Versi pieni di efficacia, e traboccanti da un
cuore gonfio di tormenti e di speranze. E il
rivedere la patria gli fu concesso finalmente
dopo un’assenza di quattro anni nove mesi
ed un giorno:
Dopo quattro anni nove mesi e un giorno.
Eccellenza mia, se questo verso non servisse
alla storia biografica, vorremmo certamente
condannarlo coi più cattivi del Parnaso
Italiano, e porlo a riscontro con quell’altro
dell’arcadico:
Sono dieci anni che non vado a messa;
e se qualcheduno ai dì nostri ne coniasse
un altro di simile fattura, non che bandirgli
addosso la croce, gli porrebbero la mitera.
A scusa però del nostro valoroso Cristoforo, di simile conio se ne possono, citare parecchi caduti dalla penna anche agli archimandriti della poesia. Se poco della sua vita possiamo qui dire, e anco della sua morte, non potendosi ritrovare memorie intorno l’anno del suo trapasso, ne resta a parlare in quanta fama egli fosse salito, e quanto lo reputassero i colti uomini del suo secolo: ma più ancora dell’oggetto de’ suoi sospiri, e del colore drammatico che ebbero le sue amorose vicende. Nè certamente dal vero ci allontaniamo, asserendo che era tenuto in istima dal Cardinale Lodovico Madrucci, Vescovo e Principe di Trento, e perchè i Bucetti di Rallo furono sotto di lui fatti cittadini della mentovata città1, e perchè lo stesso Porporato amava la poesia2, e quindi per una celebrità letteraria che Cristoforo avevasi acquistato; onde ne rimane un Sonetto, che comincia:
Liete felici avventurose squadre,
nel quale esalta sommamente il suo Principe. Forse questo Sonetto è allusivo alla guerra che i Protestanti minacciavano alla Chiesa Cattolica, e può arguirsi dall’altro verso del Sonetto medesimo:
E che la spada cinse, e l’armi prese
Per Cristo solo
Più che a nessun altro all’Eccellenza Vostra sono famigliari i nomi di Nicolò Iniamo, del Veronese Paolo Roccio, del Segala, del Tabarelli, e di molti altri egregi di quei tempi, i quali del Bucetti furono amicissimi, e ne lodarono l’ingegno, chiamandolo lume del suo secolo, ed onore della patria. E l’amicizia di coloro che sono riputati sapienti ridonda sempre a decoro di chi seppe meritarla; tanto più che rara è l’amicizia dei letterati, essendo essi alcun poco per lo più schifiltosi e difficili. Sebbene parmi meglio rivolgersi all’obbietto più importante, e cercare qual fosse la donna onesta e bella, tanto dal Poeta amata e celebrata. E il tacere che egli fa della sua prima fiamma ne dimostra che il susseguente amore fosse dell’altro assai più cortese, alto, e lodevole. Il perchè innamorò di Dorotea figlia di Cristoforo, Signore del Castello di Arsio nella Valle Naunia, ognora ferace, come l’Eccellenza Vostra sa, d’ingegni svegliati e peregrini: del che fanno fede anche ai dì nostri alcuni rinomati scrittori viventi. Questa donna, oltre i pregi esteriori delle forme, era di rarissime doti intellettuali adorna, colle quali forse più che coll’avvenenza sottomise il cuore del famoso poeta Trentino. Che essa ne ammirasse l’estro e lo stile, ne pare manifesto; e forse non era in Lei straniero certo orgogliuzzo, o vogliam dir vanità, nell’udirsi celebrata con versi in un secolo in cui i Poeti generalmente camminavano sull’orme di Francesco Petrarca, e dipingevano nelle amanze le prerogative di Laura. E la Dorotea d’Arsio può chiamarsi ragionevolmente la Laura Trentina. Era naturale che la distanza del grado, l’educazione e la soggezione paterna fortificassero nella vaga donzella quel riserbo imperato dalla virtù, e renduto più imponente dalle circostanze in cui essa si ritrovava. Quindi non è a stupire se indarno ne sospirasse, e se ne accorasse il nostro Poeta, che, salito tanto alto co’ suoi pensieri, vedea vieppiù dilungarsi la meta cui aspirava; ed a ciò aggiungevasi l’anima fiera e superba del Conte Cristoforo d’Arsio, che, agguerrito dalla vetustà del casato, e da’ suoi feudi, avrebbe di leggeri sdegnato a genero qualunque uomo che suo pari non fosse. Ed in fatti i Conti d’Arsio fino da remotissime età furono ricchi di pingui Signorie e di splendidi privilegi: onde, come l’Eccellenza Vostra osserva, fino a dì nostri possedettero beni feudali nel contado di Arsio col castello di Vasio, loro provenuti in parte dal Conte del Tirolo, ed in parte dal Vescovo Principe di Trento. E ciò provasi eziandio con un documento del 9 Luglio 1185, pel quale Alberto I Vescovo di Trento alla presenza di Warimberto de Arso crea feudatario Olderico Conte De Castro Arze. Laonde i Conti d’Arsio non solo furono nel medio Evo giusdicenti, ma vennero poi inscritti nella matricola del Tirolo, e rimasero Camerieri ereditarj del principato Trentino. E poichè l’Eccellenza Vostra di preziose notizie ha voluto essermi cortese, noterò eziandio un antico diploma inedito del 1190, dettato in Trento nel palazzo Episcopale; e citerò la data latina, ed il testo del diploma. Indictione octava, decimo quarto Kalend: Augusti: Expeditionis designatio facta a Conrado Episcopo Tridenti eorum qui zvn Henricum Romanorum regem Romam proP- ciscentem comitari deberent: ove tra gli altri Pari della Curia trentina, Guglielmo conte di Flayon, Federico ed Odorico d' Arco, Gumpone di Mandruzzos è nominato Varimberto d' Arsio. Inoltre nel t 3/8, quando s'era Tren» to rivoltato contro Carlo di Lussemburgo> ¹cold d'Arsio vi si trovava Luogotenente dell' Imperatore, ed ivi fu ucciso dai partigiani del Marchese dl Brandeburgo. Altri guerrieri segnalarono il casato d' Arsio s e il Guicciardini nella Storia d' Italia favella di Luigi d' Arsio Capitano agli stipendj di Francia. Ma se splendida fu nel sesso più' forte questa famiglia, lo fu ancora nel più gentile, del quale rimangono degne memorie. E si pud nominare una Principessa Maria Brigida, che unitamente alla Contessa di Spaur corteggiava la Regina Cristina di Svezia, come narra il Conte Galeazzo Gualdo nella Vita di quella Regina. Cid tutto che abbiamo detto intorno alla Casa di Arsio ben si comprende che dovea essere insormontabile scoglio al nostro Poeta, onde egli se ne lamenta nelle sue'Rime, anzi un tristo esempio gli occorse, e tale da scoraggiarlo del tutto> poichè un suo terrazzano avendo dosvln
mandato la mano della Dorotea, n' ebbe, pei riguardi che abbiamo accennato, un ri6uto pronto e cosi disperato da aceorciarsi pel dolore e per la vergona la vita; e tutto questo si ricava dai versi del Sucetti medesimo, Ma la costanza in amore, come in ogni altra impresa, alla fiu 6ne debbe pur vincerei e la Donna che vedesi circondata da omaggi immortali, come creduti allora erano gli omaggi poetici, dovea 6nalmente Bali' amor proprio essere debellata. Nè voglio qui assicurare che P amor proprio vincesse la Contessa d'Arsio, chè l' ingegno, i modi cortesi e la fama dell'amante poteano aver tal forza da resister loi®,' ma non da superarli. Il perchè, scemando a poco a poco d' alterezza, le s' introdussero nel cuore -sensi più miti e pietosi, talchè forse incautamente nella paterna casa lo ammise all' insaputa del genitore. Dal Canzoniere si vede chiaramente come il Poeta fosse consolato da questa prima accoglienza : ma ben tosto una terribile burrasca V avrebbe assalito, mentre era al colmo delle sue speranze. Poichè nella Dorotea crescendo l' inclinazione verso il suo Cantore, e dall' un lato stimando dover ottenere il consentimento del padre, onde venire alle nozze, pose essa in opera P ingegno, e tutte le donnesche arti~ onde piegare al suo desiderio Panimo del genitore. Ma ogni cosa sarebbe stata indarno se un caso novello non succedeva, che valse a scuotere quel duro Castellano. Venne egli a conoscere alcuni versi che a lui parvero troppo caldi e liberi, i quali forse eccedevano i confini prefissi al decoro di una donzella: e di qui trasse il sospettoso Signore che la figlia sua con soverchia dimestichezza si abbandonasse al Bu cetti. Ma come i versi di cui parliamo furono al Signor d'Arsio presentati non si sa bene da chi, cosi cade dubbio che Pamante stesso forse a bella posta glieli facesse capitar nelle mani, pcrchè il Padre, intollerante e sdegnato che di bocca in bocca corressero a disonor della figlia s venisse al subitano proposito di fargliela violentemente sposare. Il che veramente occorse, e forse vieppiù facilmente, per chè frattanto (con- diploma del dt z8 Ottobre >567) la famiglia Bucetti era da iWassimiliano II nobilitata. Imperocchè il Conte d'Arsia prevalendosi del suo grado, e pià della pre- potenzadelP età suas con istrano divisamento mandd di repente la Dorotea in casa di Cristoforo Maaincordi~ seguita dai testimonjs e intimo al Bucetti ches se non avesse senza condirione alcuna sposata la Contessa, V a« vrebbe fatto bruciar vivo nella sua casa. Ma il Bucetti che, oltr'essere poeta, era anche giureconsulto, non sapea patire che il maritaggio avvenisse senza la dote : pure lusingandosi che il tempo avrebbe mitigato V ira del Castellano, e riscuoterebbe la dotes si decise al contratto del matrimonio, che avvenne nel t56g. Qui 6nirono le vicende del nostro Poeta e quantunque le nozze fossero amareggiate dalV avarizia del Conte s nullameno questa non iscemb V amore di lui verso una moglie afFettuosa e fedele. È da dire ancora che, iu mezzo alle agitazioni- che aveano preceduto ed accompagnato al talamo il Bucetti, egli, come uomo probo e saggios spargesse col mezzo della religione un balsamo sulla sua ferita, e chiedesse conforto alla Diviniti che non cessava di parlare nell' intimo del cuor suo. Quindi anche nella sua carica di Consigliere ottenne plauso grandissimos ed alla famiglia Bucetti ne venne altro novello decoro. Infatti in un diploma di Carlo Arciduca d'Austria, dato in Gratz il di a Giugno i5pz, si legge che Giacomo de' Busetti coi due 6gli Pietro e Cristoforo Xxf
prestarono utili servigi alp Augusta Casa d'Austria, massimamente alp Imperatore Massixxtiliano I nelle guerre coi Francesi, Ueneti e Svizzeri: che poscia nella guerra rustica Cristoforo e Matteo Bucetti albi importanti ne resero alPImperator Ferdinandol e che 6- nalmente Cristoforo Bucetti Dottore di legge, Sglio di Matteo, cioè il nostro (che viene ivi pregiato per uomo dotto anche - come Consigliere Aulico) Singulareox gratiaox inivit, onde quel Principe ai Bucetti concesse gucultatesa eostruexxdi arces et castra, et se ab xisdeox denonxinandi.
In quattro parti si divide il Canzoniere Bu' cettiano: nella prima celebra il suo amore e le virtxx della sua Donna l nella seconda canta la lontananza- dall' oggetto delle sue pene l nella terza leggonsi le poesie' scritte dopo il ritorno dalla Germania; ndla quarta eontengonsi gli argomenti trattati dopo la morte della Dorotea, che ignoriasno eol Rosmini in quale anno accadesse. Intorno poi al merito del Canzoniere, riferiremo il parere del Cavaliere Rosmini che sensatissimo nè semhrè, Dice egli : e Nelle sue poesie si mosba studioso x ed imitatore del Petrarca; il suo itile è dolcex facile ed elegante; se zxu
non che talvolta nelp accavallare immagini sopra immagini, nel ripetere gli stessi concetti, sebbeu con diverse parole~ nello stemperare certe idee, pare che egli abbia avuto piu in mira d' imitare il vivace e versatile Ovidiov che il saggio e modesto Petrarca. In genere il Sucetti mostra ingegno pronto> vena spon-
tanca, e facondissima. Lui felice, se di que-
sti doni, come fecer molti altri, non avesse
abusato> anzi convertiti non gli avesse in suo-
danno. Perciocchè per quanto sia grande lo studio che ci mostra aver fatto sugli origi-
nali poeti, pur non si scorge ch'ei gli abbia sempre perfettamente imitàti,nella correzione dello stile, e in quell'arte tanto più dilficilev quanto più occulta, che con ordine meravi-
glioso couduce il filo sottilissimo di un componimento, nel che a mio parere fu inimitabile il Casae. E, se mi è lecito, permetta, Eccellenza, che io soggiunga discordar dal Rosmini intorno a ciè: chè assai più che da Ovidio, ne sembra il Sucetti assumere, oltre alle forme, anche molti concetti dal Petrarca, come solevano allora presso che tutti i poeti. E che P imi-
tazione costante e servile del Cantore di
Laura abbia nociuto all'incremento delle Lettere italiche, non occorre porlo .a disamina i Ixlss ae non che è vero altresì che quei sospiri, o Snti fossero o rea'~ contribuirono peraltro ad elevare la mente dei Poeti al dissopra delle basse passioni, e far loro gustar nella vita alcuni momenti dk estasi> e di astrazione fehcissima. Rispetto poi a ciò che il Rosmini nota del Casa> e si può notare ancora d'altri assai, Varti6zio che si manifesta in que' loro Sonetti non mi pare lodevole> perchè di R appunto si argomenta che non sentissero molto i martiri e le pene che ne'loro versi cercarono di esprimere. E~ dove non e passione di rado è poesia: onde da questo lato è per avventura molto commendevole il nostro Trentino'> cui si può benissimo applicare P ingenua confessione di Properzio:
Ingeniutn noèis ipso paella faci'.
Tutte queste cose che io sono venuto scrivendole, Uostra Eccellenza le sa, anzi questa Lettera è in quakhe modo non meno sua che miai perocchè in parte è dettata sulle notizie 'che da, lei mi furono somministrate. Servirà nullameuo a vieppiù diinostrarle il buon volere che io nutro di contribuire, in quanto possono le mie deboli forze~ ad una impresa già tentata dal Cavaliere Rosmini„ed a celebrare le piesenti di Lei contentezze. Prosegua Vostra Eccellenza a rendere pubbliche testimonianze della sua dottrina col dar lustro alla sua patriai e cose nobile esempio possa risvegliare anche in altre citta quegl' ingegni che fra preziose patrie suppellettili giacciono nuHa meno inoperosi. Quanto vantaggio, e quanta gloria non si potrebbe derivare a parecchie città delp.Italia, se gli scrittori interrogassero i documenti municipali, e si venissero mano mano pubblicando. Ma io mi accorgo di essere già stato troppo lungo, e Vostra Eccellenza non ha uopo delle altrui riflessioni in simili argomenti; quindi ~ pregandola a continuarmi ponore della sua benevolenza~ con profondo rispetto me le proferisco
Di - Vostra Eccellenza
Milano, 3 Aprile t836
Unaksskno Devo&sinao Sen idore
PARTE PRIMA
DELLE RIME
COMPOSTE DALL’AUTORE
IN PRESENZA
DELLA SUA DONNA
SONETTO I
Vorrei saper da voi come sia fatta
Questa rete d'Amor, che tanti ha presi
E come può girar tanti paesi
Che 'l tempo alquanto ormai non l'abbi sfatta?
E sè cieco è l'Amor, come s'adatta
A trar da sè medesmo i dardi accesi,
E quanti egli ne spende, e quanti ha spesi
Vorrei saper da voi, dove gli accatta?
E s'è ver ciò che fingono i Poeti
Ch'una man tien gli strali, una la face,
Come puote adoprar l'arco e le reti?
Ma dica pur ognun quel che gli piace:
L'arco, i dardi, la face e le sue reti
Sono il bel volto ond'io più non ho pace.
SONETTO II.
Or da l'uno or da l'altro risospinto.
E dal peggior al fin pur resta vinto,
Ond'io non ho giammai tregua, né pace.
Domina il senso alla ragion verace,
E tiemmi il fiero strattamente avvinto,
Che non val calcitrar. Oh come finto
È questo mondo e perfido e fallace!
Veggio, miser, piu tosto, che 'n diamante
Potrò scolpire, ed indurire al fuoco
La cera, ed agghiacciar la neve al Sole,
Che impetrar mai che un dì le luci sante
Volga verso di me pietose un poco;
Né valmi lagrimar, né val parole:
E 'l mio destin pur vuole
Che Voi sol ami, e giunga amando a morte.
Ah donna ingrata! ah, cieca e dura sorte!
SONETTO IV.
Donna, se mai d’alcun pietà vi prese,
O se l’aurato stral vi punse il cuore,
Deh! vengavi pietà del mio dolore,
De’ miei martiri, e di mie fiamme accese.
Il vostro ragionar dolce e cortese,
E gli occhi vaghi ove s’annida amore,
Le bionde trecce mi legaro il core,
Che non puote, nè, volle far difese.
Ond’ei si cruccia, si lamenta, e duole,
Che la più bella e più leggiadra Dama
Che cinga intorno il Mare, o scaldi il Sole,
Non si degni d’amar chi lei solo ama,
In vita, e dopo morte amar la vuole,
Se col corpo non muor l’ardente brama.
SONETTO I.
Va innanzi il corpo, e 'ndietro torna il core,
Anzi restò, che me 'l trasse del petto
Madonna allor che ne disgiunse Amore,
E gli diè di sua man dolce ricetto.
Ma 'l tenace pensier che dentro e fuore
Mi rode e lima, e fa crudele effetto,
Sempre mi segue, e causa un tal dolore,
Che 'n lagrime e sospir' sol ho diletto.
M’ assale anco talor un dubbio strana,
Com' un solo pensier distrugger vaglia
Queste membra ad un tempo, e’l cor lontano.
Ma sento chi mi dice: non ti caglia;
Ben ciò impossibil fora a un corpo umano,
Ma Nume è Amare, ed ei tal apre intaglia.
III.
Voi pur, quasi fanciul, l’ardisco dire,
Appena atto a portar e spada e lancia,
Audace e senza tema di morire,
Nel fatto d’arme entraste, e non è ciancia;
E quanta forza aveste, e quanto ardire
Si vide nel mostrar e petto e pancia:
Però senz’altro dir mi basta questo,
Che già per tutto il Mondo è noto il resto.
IV.
Tal forza, tal valor, tal gagliardía,
Si comprese dich'io, Signore, in voi,
Che meritate aver la Compagnia
Nella spedizïon fatta da poi;
Tal che per questo e per la cortesía
Che vi parte dal core, o fior d’Eroi,
Dall'O al P dall'M all'S rimbomba
Del Tabarello la sonora tromba.
V.
E se le Parche inique invidïose
Non troncan anzi tempo il crin fatale,
Spero per l’opre sue miracolose
Vederlo lieto al Ciel salir senz’ale.
Offrir l’insegne celebri e famose
Al gran tempio di Marte, ed immortale
Farsi fra’ Dei, sì come è fatto in Terra,
Pe'l senno e pe’l valor mostrato in guerra.