Poesie (Parini)/I. Alcune poesie di Ripano Eupilino
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I
ALCUNE POESIE
di
RIPANO EUPILINO
(1752)
A’ LEGGITORI
Io parrò forse troppo arrischiato mandando al pubblico questa piccola parte delle mie rime in tempo che, essendo ogni maniera di letteratura al suo colmo venuta, ogni leggier macchia che in un libro si trovi vien da giudiziosi uomini conosciuta e ripresa. Ma chiunque vorrá por mente al fine ch’io mi son proposto e alla cautela da me usata pubblicandole, credo che non potrá di soverchia arditezza o temeritá ragionevolmente accusarmi. Perciocché né sciocca pompa di comparir tra’ saggi né vano disio di lode né verun altro mio consimil pensiere mi ha confortato a dar fuori questo picciol libretto; ma puramente una cotal mia vaghezza di saper dal pubblico, siccome io penso, giusto e sincero estimator dell’opere altrui, quale io sia per riuscir nel poetico mestiere, mi ha stimolato a far ciò. Perocché, leggendo gli amatori degli ameni studi queste poesie, e ora per l’un capo biasimandole cortesemente, e ora per l’altro graziosamente commendandole, e le lodi o i biasimi loro pervenendomi all’orecchio, io potrò, ove gli uni all’altre sopravanzino, lo incominciato cammin tralasciare, e dare alle Muse un eterno addio, e ove al contrario questi sieno soperchiati da quelle, animarmi a salir con piú vigore il sacro giogo e procacciarmi qualche fronda di lauro in Parnaso. Per tal motivo io ho voluto scèrre, da’ miei poetici lavori, vari di vario argomento e di varie spezie; acciocché, veggendoli, il pubblico mi sappia poi dire a qual maniera di comporre io debba appigliarmi, e quale intralasciare. Voi ci troverete addunque nel presente volumetto componimenti e sacri e morali e amorosi e pastorali e pescatorii e piacevoli e satirici e di molte altre guise, i quali, ove di poco valor fossero, colla loro varietá almeno sarannovi di noia minore. La qual noia medesima io mi sono studiato a mio poter di tôr via, con lo scèrre sí poco numero di componimenti, non volendo colla moltitudine de’ miei pessimi versi il secolo nostro incomodare. Senzaché io non sento poi cosí bassamente di me medesimo, che non confidi poterci essere in questo libro parecchi lavori che, qual colla limatezza, alcuno colla novitá, tale coll’evidenza, e tal altro col particolare e nuovo suo gusto, in vece di noia, diletto vi porgeranno. Il che quantunque sia per negarmisi da certi matti abbaiatori che o per astio o per altra cotal loro passione vorranno che io non ci abbia nulla di buono, spero che voi, onesti e discreti lettori, confesserete esser vero, siccome alla prova potete conoscer leggendo. Al quale effetto io, senza piú aggiugner, vi lascio. State sani.
[POESIE SERIE]
I
Voi che sparsi ascoltate in rozzi accenti
i pregi eccelsi della donna mia,
non istupite, se tra questi fia
cosa ch’avanzi ’l creder delle genti:
poiché, sebbene per laudarla i’ tenti
le penne alzar per ogni alpestre via,
quel che meglio però dir si devria,
riman coperto alle terrene menti.
Né sia chi dall’esterno mio dolore,
onde in pianti mi struggo a poco a poco,
misuri la pietá dentro al suo core:
perché, quantunque in ogni tempo e loco
far mostra i’ soglia del mio grande ardore,
assai maggior ch’i’ non dispiego, è ’l foco.
II
Candido in cielo e di be’ raggi adorno
splendeva il sole oltre l’usato stile,
e vestivas’ il colle e ’l prato umile
d’ogni fior piú leggiadro intorno intorno:
qual su’ rami d’un faggio e qual d’un orno,
ogni augel piú canoro e piú gentile
s’udia cantar, sicché ’l piú oscuro e vile
facea col canto a Filomena scorno:
per le frondi degli alberi battea
Zefiro l’ali, e ogni ruscel piú mondo
saltellando tra’ sassi al mar correa:
e con piú dolce volto e piú giocondo
ridea Cupido e l’amorosa dea,
il di che nacque la mia donna al mondo.
III
Il dí che nacque la mia donna al mondo,
dal lavoro immortai stupita sorse
la madre delle cose, e ’l guardo torse
a mirar lo spettacolo giocondo.
Indi, volgendo il grave ciglio a tondo,
fiso le luci nell’etá trascorse:
di poi, sorpresa e di sé stessa in forse,
fin del suo centro le calò nel fondo.
Poi disse: — E qual si nobile fattura
dell’antiche bellezze e delle nove
gl’illustri pregi alteramente oscura?
E di qual parte si gran donna move,
che coll’alta beltá vince natura?
Se nel ciel non è fatta, i’ non so dove. —
IV
Donna, se tu scorgessi il grande ardore
che nel mio sen per tua beltá s’apprese,
ben diresti che tal mai non accese
in cor gentil d’innamorato Amore.
Qui star vedresti quel divin signore
temperando gli strali ond’ei m’offese,
ed a’ colpi di lui senza difese
servia d’incude il mio medesmo core;
e vedresti siccome mi divora
dolcemente del petto in ogni loco
la bella fiamma che vi cresce ognora;
e tutti i miei pensieri a poco a poco,
come fanciulli timidetti ancora,
scaldars’intorno a si leggiadro foco.
V
O pellegrin che non vedesti mai
la donna mia, deh su vieni a vedella,
ch’io ti giuro che mai altra piú bella
nel tuo lungo girar vista non hai.
D’esser uomo non piú ti penserai
poiché sii giunto alla presenza d’ella,
tanto al su ’aspetto e tanto a la favella,
dolce in seno piacer ti sentirai.
Vien, che nulla varrammi aver parlato,
quando tu nel bel guardo e nel bel riso
mille cose piú grandi avrai mirato.
Vieni, e, in partir da quel benigno viso,
se mai cércati alcun dove se’ stato,
tu rispondigli tosto: — In paradiso. —
VI
Spesso mi torna il dolce tempo a mente,
quando, seduto con la donna mia,
io le narrava dolorosamente
la pena del mio core intensa e ria.
Ella, bassando gli occhi dolcemente,
il volto d’un rossor dolce copria,
e, per le labbra a consolarmi intente,
a’ dolcissimi accenti il varco apria:
e tanta gioia avea nel seno accolta,
ch’all’udir le parole alme e gioconde
l’alma sen giva pellegrina e sciolta.
Or nullo, fuorché i sassi, i tronchi e Tonde,
il mio si lungo sospirare ascolta;
e a consolarmi, oimè, chi mi risponde?
VII
Udrammi dunque Amor tristi e dogliosi
condur sempre in lamenti e giorni ed anni,
senza volger giammai gli occhi pietosi
a mirar le mie pene ed i miei danni?
Dunque in vedere da’ pensier tiranni
girsen tant’altri alfin vittoriosi,
io solo, in mezzo a disperati affanni,
invidiando andrò gli altrui riposi?
Ma stolto! a che le volontarie offese
i’ vo piangendo e quegli amati guai,
onde l’alma non mai volle disciorse?
E quante volte la Ragion cortese
per sottrarmene pur la man mi porse,
io strinsi le catene, e la scacciai?
VIII
Dunque, Manzon, scorgesti i vaghi rai
e ’l bel volto e la man bianca e gentile,
cui riveder, col suo perverso stile,
a me ’l fiero destin non lascia mai?
O te beato, se comprender sai
quanto piacere a null’altro simile
vien dal mirar donna si altera e umile,
ch’uomo può trar fuore da’piú tristi guai!
Perché allora il mio cor tu non avesti,
che piú nove bellezze in volto a lei,
colla scorta d’Amor, vedute avresti!
Anzi, perché cangiarme i’ non potei
tutto in te stesso! e quel che tu godesti
io medesimo e piú goduto avrei.
IX
E pur ten riedi giá, dolce pensiero,
dal vago aspetto del divin mio sole;
e ’l volto mi descrivi e le parole
dolci e leggiadre, ond’io pur ardo e spero.
Deh pietoso mi di’ per qual sentiero
si breve alla mia donna ognor tu vole;
ch’aneli’io vo’gir lá’ve quell’alte e sole
bellezze un giorno prigionier mi fòro.
Anzi teco verrò; né del desio
temi, che penna men veloce e snella
m’abbia punto a tardar dal volo mio;
però che Amor, coll’aurea sua facella,
d’ogni peso terren purgommi; ond’io
quale accesa mi muovo agil fiammella.
X
Ecco ’l grand’arco in alto e la saetta
dell’antico signor, che mi spaventa;
e come l’alma il suo poter ne senta
tutta stammi dubbiosa in sen ristretta.
Ahi che ’l crudo tiranno aspra vendetta
fa dell’essermi sciolto, e mi tormenta!
né sol di rilegarmi or si contenta,
ma in prigion mi rinchiude anco piú stretta:
e lontan dal bel cibo onde vivrei,
vuol, per somma fierezza e crudeltate,
ch’io finisca per fame i giorni miei.
O te felice, te cento fiate,
Tirsi, che presso alla tua donna sei,
e viver puoi delle sembianze amate!
XI
— Quando fia mai quel di che tu ti sciolga
— i’ dico all’alma — da un si basso affetto?
Oh qual viltate, ch’ad amar si volga
l’alma, cosa immortal, mortale obbietto! —
Ella risponde: — Allor fia ch’io disciolga
il bel nodo ch’è intorno a me ristretto,
quando ’l signor dell’universo accolga
niun amore in vêr me dentro al suo petto;
poiché, com’ei con immortal desio
ama me, ch’appo lui son ombra vile,
si rivolto a un bel corpo è l’amor mio.
E s’egli in me, vii creatura umile,
ama d’un dio l’immago, in quello anch’io
amo l’idea d’un’alma alta e gentile. —
XII
Qual dolce spiritello entro alle dita,
Amarilli gentil, nascoso avete,
che tanta, ognor ch’ai suon voi le monete,
gioia versa ne’ cori alma e gradita?
Certo Amor, e non altri, è che v’incita
la mano in cui tanto piacer chiudete;
ond’ella poi, senza trovar mai quiete,
cosí lieve passeggia e si spedita.
Si certo, è Amor che in un con voi pur tocca
l’ebano che col fil d’or si connette,
perché divino è ’l suon ch’indi trabocca:
e mentre avvien che l’armonia ci allette,
ei dall’avorio della man ne scocca
le invisibili sue crude saette.
XIII
Filli, qualor con un bel nastro appeso
lo strumento gentil dal sen vi pende,
e la candida man, ch’or sale or scende,
il suon tragge dal fil tremulo e teso,
d’esser mi par sovra le stelle asceso,
lo cui girar tant’armonia comprende,
o che qui, dove il vostro suon ne accende,
sia di lá qualche spirto a noi disceso.
E si cred’io; poiché, non men che ’l suono,
celeste avete anco il sembiante, in cui
quel bel fuoco riluce, ond’arso i’ sono.
Ed oh beato ben saria colui
che di vosco finire avesse in dono
a sí dolce concento i giorni sui!
XIV
Fra gl’impeti d’Amore e di Fortuna,
or da quella balzato or da quest’onda,
non ch’io mai giunga ad afferrar la sponda,
pur non veggio un chiaror di speme alcuna.
Ma irato maggiormente il ciel s’imbruna
e la tempesta sovra me piú inonda;
sicch’io non trovo parte ove m’asconda
dal gran furor che intorno a me s’aduna.
S’i’ n’esco mai, di Libertate al tempio
le rotte spoglie vo’ sacrare, e voglio
ch’elle ad ogni mortai servan d’esempio:
e s’alcuno fia poi tanto orgoglioso
che si fidi ad un mar si crudo ed empio,
deh sommergasi, o rompa in uno scoglio.
XV
Ecco Bromio, pastori, ecco Lieo
col tirso in mano e co’ fanciulli accanto:
udite il suon medesmo, udite il canto
col qual giá in Tebe il grande ingresso ei feo.
Ecco Sileno che di vin s’empieo
l’irsuta barba e ’l setoloso manto,
e percotendo va di tanto in tanto
l’asin che sol di sua vecchiezza è reo.
Tirsi, quel bel monton che t’addit’io,
presso a quell’elce, con un colpo atterra,
indi sacralo allegro al grasso dio;
e tu, Damon, che se’ robusto, afferra
Sileno e l’asinel, se non, per dio,
ne va ’l cavallo e ’l cavaliere a terra.
XVI
— Questo biondo covon di bica or tolto,
penda innanzi al tu’ altar, santa Vacuna:
poiché felicemente oggi raccolto
dal campo abbiam le spighe ad una ad una.
Ecco che noi giacciam col sen disciolto,
or che s’alza la notte umida e bruna:
tu ’l sudore ne tergi, e intorno al volto
colla dolce quiete i sogni aduna. —
Tai cose i mietitor, da le fatiche
del di tornati, poiché ’l sol cadea,
dicevano sdraiati in su le biche:
e intanto il bue, che ’l di trainato avea,
in disparte pascevasi di spiche,
e lo stanco drappel non v’attendea.
XVII
Poiché ciascun vendemmiator si sente,
mentre toglie alla vite i pondi suoi,
tra gli scherzi e le risa, inni altamente
cantare al domator de’ liti eoi,
togli, Graspin, la cesta ed il tagliente
picciolo ferro adunco, e andiam pur noi
tra le viti colá; ma tieni a mente
di non tanto mangiar, se ber tu vuoi.
Vedi come quel tralcio il palo fasci?
Quivi con Filli a sgrappolar ti metti,
dove l’uva mi par legata a fasci.
Ma non far poi che si colei t’alletti
co’ cenni e col gracchiar, che tu ne lasci
sotto l’avare frasche i grappoletti.
XVIII
Ahi quante, ahi quante di pietate ignudi
fan prede i lupi de le fresche ugnelle;
si che non vai che a vigilar su quelle
il povero pastor fatichi e sudi!
Questa felice è ben che i denti crudi
de le belve non teme ingorde e felle;
poi che dal branco de le pecorelle,
almo pastor, la togli, e la rinchiudi.
Qui non la guasteran fascini o incanti;
ma vedrai come bella e senza scabbia
di piú candide lane ognor s’ammanti:
e fía che il lupo indarno giri, ed abbia
in fine a starsi all’ovil chiuso innanti,
alto ululando per disdegno e rabbia.
XIX
Si vaga pianta e si gentile avea
con mie lunghe fatiche a tal ridutta,
che le sue fronde invidiar parea
ogni arboscello della selva tutta;
né piú di borea o d’aquilon temea
contra i be’ rami suoi l’orrida lutta;
ma lieto a la sua dolce ombra sedea,
pur cogliendone alfin le prime frutta:
quando Giove improvviso ecco disserra
fulmine, che col colpo i rami adorni
in uno e me con lo spavento atterra.
Or giace il parto di si lunghi giorni;
ed io stonimi guardando in su la terra
ch’alcun germoglio a pullular ritorni.
XX
Quella pianta gentil, ch’avea battuta
con le folgori Giove in sul terreno,
cosí rapidamente era cresciuta
ch’i’n’avea colmo di dolcezza il seno.
Ma ’l mio compagno agricoltor veduta
non prima l’ebbe, che, d’invidia pieno,
senti pugnersi il cor d’aspra feruta,
sol volendo indiviso arbor si ameno.
Con ascosa pertanto ignobil arte
i be’ frutti m’invola, e pien di duolo
me il tronco ad adorar lascia in disparte.
Torna, o Giove, a cacciar l’arbore al suolo;
ché chi niun vuol de’ suoi piaceri a parte
ben non merta costui di goder solo.
XXI
Pendi, mia cetra umil, da questo salce
senza man che ti svegli e senza corde;
poiché a calmar le cure inique e sorde
il tuo tenero suon punto non valce.
Giá presso è Morte coll’orribil falce,
e ’l veglio che le cose atterra e morde;
né avvien, bench’i’col mio gridar gii assorde,
ch’ognun di loro non mi segua e incalce.
Miser, n’andrò fra gli amorosi mirti,
e risonar farovvi ogni pendice,
mescendo il pianto mio con gli altri spirti.
E tu ti rimarrai, se tanto lice,
tra’ pastor d’este selve incolti ed irti,
d’una piccioi conforto ombra infelice.
XXII
Accendi il foco, Elpin, mentr’io mi bendo
de le candide fasce il crine e ’l petto;
e non temer del mio cangiato aspetto,
or che ’l magico nume in sen comprendo.
Ecco la mano a la sacr’ara i’ stendo,
e ’l vergili zolfo in su la fiamma getto,
e tre grani d’incenso indi vi metto,
il suono alzando de’ miei versi orrendo.
Giá da l’acceso aitar par che si sciolga
il fumo inverso il ciel salendo, e parmi
che ’l ciel commosso le mie preci accolga.
Or quella fiera, che non vuol mirarmi
per continuo pregare, a me si volga
almen per forza de’ possenti carmi.
XXIII
I’ muoio alfine, alfine, o cruda Eumolpi,
su quest’umide reti entro a la barca
giacer mi vedi, e te non fia ch’io incolpi,
che d’un freddo sospir mi se’ ancor parca.
Non temer piú del mio tridente i colpi,
squamoso gregge; alfin colui sen varca
ad altro lito, che di tenie e polpi
ogni nassa traea dall’onde carca.
Toglietevi, o compagni, or le mie canne
(ah mille volte le Ior cime a voi
veder curve sia dato!) e le mie reti.
Questo legnetto sol meco verranne,
per varcare, atra Stige, i gorghi tuoi,
quando Caronte a un si infelice il vieti.
XXIV
Lungo ’l Sagrin, mentre i pastor le gote
gonfiando van su le ineguali canne,
amico, i’ so ch’assai piú dolce andranne
lor suon congiunto a le tue dolci note.
E intanto che ’l commosso aere percote
l’opposte rupi, da le sue capanne
ogni ninfa silvestre a udir verranne
tuo canto, che le fère addolcir puote.
O te felice, al quale il destro fato
tant’ozio dona, e a rustical concento
dentro al paterno suol vivi beato!
Ahi! me non giá, infin ch’a forza intento
a sé mi tenga il dubitoso piato
che nel fòro usar suol garrulo e lento.
XXV
Da questo cerchio, che sul lito io segno
colla verga tremenda, e in cui ti metto,
non partirti, o Damone, e denti in petto
le sillabe possenti ch’io t’insegno.
Ecco son giá presenti, a un picciol segno
della mia man, Tesifone ed Aletto,
e d’Ecate triforme il vario aspetto,
e gli altri numi de lo stigio regno.
Ecco io gl’invoco: — O degli oscuri e bui
fiumi d’Averno abitatrice schiera,
Damone ascolta, o me in vece di lui.
Fa, per la forza della mia preghiera,
che la donna, ch’un tempo amò costui,
a poco a poco si distrugga e péra.
XXVI
Tirsi, non tei diss’io ch’all’aere fosco
noi faremmo trovata? Or vedi come
l’infame strega con le sciolte chiome
va dell’erbe cogliendo intorno al bosco.
Tirsi, certo ella è dessa; i’ la conosco:
mi vuo’ tu udire a chiamar lei per nome?
Vedi, vedi, com’ella si dischiome,
e qual spiri dagli occhi acceso tosco!
Ahi ch’ella udimmi! ahi giá n’ha scorti! Or senti
ch’all’orrende bestemmie ha sciolto il freno.
Ah noi meschini, ahi sventurati armenti!
Deh, tre volte sputianci, o Tirsi, in seno;
che se ’l gregge da lei ci viene or spento,
ah, Tirsi, ah noi possiam salvarci almeno!
XXVII
Sciogli, Fillide, il crine e tutta t’ungi
d’esto liquor, che nelle man ti spargo;
poi quest’osso piú stretto a quel piú largo,
che d’uomo son, con le verbene aggiungi.
Indi accendi l’altar dal rio non lungi
che lento va tra l’uno e l’altro margo:
e mentre io d’acqua il sacro aitar cospargo,
a questa cerea iinmago il cor tu pungi.
Ecco, l’ombre d’Averno a questo loco
vengon seotendo l’atre faci; e ’l sole
per lo fumo si oscura a poco a poco.
Tu non temer; ma di’ queste parole:
— La pace che tra loro han l’acqua e ’l foco
abbian gli amanti ancor Licida e Iole. —
XXVIII
Giá s’odon per lo cielo alti rimbombi
dei fulmini sonanti, e vanno preste
l’oscure nubi a radunar tempeste.
Volgete, amiche, pur, volgete i rombi.
Tu dispogliati, o Nisa, infino ai lombi,
siccome i’ faccio ancor, d’ogni tua veste:
e mentre i’ parlo alle ner’ombre e meste,
volgete, amiche, pur, volgete i rombi.
Ecco, cercan ricovro che gli scampi
greggi e pastor sotto le querce antiche,
e paventan le ninfe i tuoni e i lampi.
L’uve di Tirsi e di Damon le spiche
son peste e tronche per le vigne e i campi.
Fermate pur, fermate i rombi, amiche.
XXIX
[I]
Colei, Damon, colei che piú d’un angue
intorno al crine scapigliato intesse,
e con note ora chiare ed or sommesse
può trar fuor de la tomba un corpo esangue;
colei ch’unge di caldo e vivo sangue
l’uova di rospo ancor fumanti e spesse,
e la penna funèbre aggiunge ad esse
de la strige che ancor palpita e langue;
colei l’erbe che in Coleo ed in Campagna
Circe opráro e Medea, coll’ossa incende
di bocca tolte a la digiuna cagna,
e con queste il mio gregge infermo rende,
si ch’errando sen va per la campagna,
né d’erba né di rio vaghezza prende.
XXX
[2]
Né d’erba né di rio vaghezza prende
il mio gregge svenuto, e si rimbosca;
e par che ’l suo pastor piú non conosca,
perché né i cenni né le grida intende.
Or su le balze perigliose ascende,
or entra in tana insidiosa e fosca;
e giurerei che piú non riconosca
qual dell’erbette giove e quale offende.
Lasso! ben il diss’io quel di, che alzarse
vidi l’infame strega alto una spanna
da terra con le chiome orride e sparse,
ch’ella mandò fuor della sozza canna
terribil voce; e allor la luna sparse
raggio di sangue in vèr la mia capanna.
XXXI
[Imitato da Mosco]
Deposta un giorno l’orrida facella
e quell’arco crudel che i petti schiaccia,
prese Amore in ispalla una bisaccia
e un pugnitoio in cambio di quadrella:
e posta sotto il giogo una vitella,
o un giovenco che fosse, o due, li caccia
per lo incolto terren con una faccia
d’un villan che si stizza ed arrovella.
Quasi ’l bellico a’ numi si sconficca
d’Amor ridendo, che l’aratro muove
e la semenza per le zolle ficca;
quand’e’, rivolto al ciel, grida: — Ser Giove,
o fa di messe questa terra ricca,
o ch’io di nuovo ti converto in bove. —
XXXII
[Imitato da Anacreonte, ode XV]
Io di Lidia il gran re non mi rammento,
ina, spregiator di ricche gemme e d’ori,
della mia sorte umil vivo contento,
e non invidio a’ re gli ampi tesori.
Sol concesso a me sia la guancia e ’l mento
cosparger d’odoriferi liquori,
ed allo specchio d’un bel fonte intento,
cingere il crin di porporini fiori.
L’oggi m’importa, e l’avvenir non curo:
perciò questi miei di labili, o tu
Bacco, sien tuoi; ch’a te bevendo il giuro,
prima ch’un qualche mal mi dica: — Orsú,
Anacreonte, andiamo al regno scuro;
getta’l bicchier; non s’ha a bever piú. —
XXXIII
[Imitato da Anacreonte, ode XXIII]
S’io mi credessi che con or la Morte
si potesse tener lontan da noi,
vorrei ben, dall’occaso a’ liti eoi,
ir cercandomi ognor piú amica sorte;
e quand’ella picchiasse alle mie porte,
le direi: — Piglia, e va pe’fatti tuoi! —
Ma, se fuggir non posso i colpi suoi,
a che piangendo far l’ore piú corte?
Dunque, poiché cosí fatai destino
io non posso evitar, mia cura sia
conversar cogli amici, e ber del vino;
o su le piume, colla donna mia,
passar scherzando i di felici, infino
che la Parca ne sciolga ingorda e ria.
XXXIV
[Imitato da Anacreonte, ode XXVI]
Se di Bacco il liquor nel mio cervello
coll’ammirabil suo poter penètra,
ogni cura sen va noiosa e tetra;
giá mi par d’esser ricco e d’esser bello:
e vo cantando or questo carme or quello,
or sedendo su l’erba or s’una pietra,
e col pensier calco la terra e l’etra,
dominando il destin secondo e ’l fello.
Stia fra l’arme a pugnar pure il guerriere,
ch’io sol questo desio nel cor mi porto,
di contender tra ’l fiasco e tra ’l bicchiere.
Dammi la tazza pur, fanciullo accorto;
poiché, involto in un dolce almo piacere,
meglio è certo giacere ebbro che morto.
XXXV
[Imitato da Anacreonte, ode XII]
Rondinella garruletta,
se non taci, un giorno affé
io vo’ far sopra di te
un’asprissima vendetta.
Vo’ pigliarti stretta stretta,
e legarti per un piè;
poi far quel che Teseo fe’
con codesta tua linguetta.
L’alba in ciel non anco appare,
che con querula favella
tu ne vieni a risvegliare.
Or che dorme la mia bella,
guarda ben, non la destare,
garruletta rondinella.
XXXVI
[Imitato da Catullo, carme CI]
Per molte genti e molti mar condotto,
o mio germano, finalmente io sono
a quest’esequie miserande addotto,
per far l’ultimo a te funebre dono.
E poiché te medesmo a me non buono
destino ahi! tolse, e ’l tuo bel stame ha rotto
indegnamente, oimè! vo’dir qui prono
su la tacita polve un vano motto.
Questi doni però tu accogli intanto
che ne’ funèbri sagrifici offrio
de’ maggiori il costume antico e santo.
Questi accogli pur tu; ch’assai del mio
sono grondanti ancor fraterno pianto;
e addio per sempre, o mio germano, addio.
XXXVII
[Imitato da Orazio, odi III, XIII]
O del vetro piú chiaro ameno fonte,
degno di dolce vin, cinto di fiori,
domane avrai un caprettin, cui fuori
spuntan le prime corna in su la fronte.
Indarno ei mostra le sue voglie pronte
or a l’aspre tenzoni or agli amori,
poiché avverrá che i gelidi liquori
del suo sangue vermiglio esso t’impronte.
Te l’ore atroci dell’ardente cane
non san toccar; tu doni a’ tauri, lassi
d’arare, amabil fresco e al vago armento.
Però tra l’altre andrai chiare fontane;
ch’io l’elce canterò ch’ombreggia i sassi
cavi, onde scorre il tuo loquace argento.
XXXVIII
Lá dove Pindo al del tanto s’innalza,
che le due corna infra le nubi asconde,
e giú per quello van di balza in balza
con dolce mormorio le placid’onde,
i’ fui, Manzoni, e le fiorite sponde
osai calcar, dove succinta e scalza
erra la schiera ognor de le gioconde
figlie di Giove, carolando, e balza.
E visto appena, elle mi furo accanto
di te chiedendo; e di quell’onda lieve
una bell’aureo vaso attinse intanto;
indi: — Questo a lui porgi, e d’ogni greve
morbo il sollevi e lo risvegli al canto. —
Disse, e mel porse colla man di neve.
XXXXIX
Manzon, s’io vedrò mai l’aspro flagello
dell’irata fortuna un di posarse,
e il ciel che sinor nubilo apparse,
tornar sopra di me sereno e bello,
udraimi, acceso di furor novello,
versi cantar, e al canto mio placarse
ogni fera crudele, e cheti starse
i fiumi, e a me condurse ogni arboscello.
Ridi? Non sai quanto Anfion poteo
su le pietre tebane e quanto impero
nelle selve di Tracia usava Orfeo?
Ah, cosí s’ammollisca il destin fiero;
ché quanto il trace e quel teban giá feo,
di far tanto, e piú ancora, i’ non dispero.
XL
Per l’aspro calle ond’a Parnaso uom giunge,
io mossi ’l piede insin da’ piú verd’anni,
e giá contando i miei si lunghi affanni
fra me diceva: — Or non puot’esser lunge. —
Ma, Fortunata, ahi che ’l tuo voi raggiunge
il lento passo mio co’ presti vanni;
e lungi ancor da que’ beati scanni
lo tuo sommo valor m’insulta e punge!
Or vanne lieta pur, che ’n su la via
attendon le sorelle alme e divine
la tua venuta assai più che la mia.
Quivi non aspettar ch’io giunga al fine
del mio cammin si ratto; assai mi fia
quando neve mi copra il fosco crine.
XLI
O Sonno placido che, con liev’orme,
vai per le tenebre movendo l’ali,
e intorno ai miseri lassi mortali
giri coll’agili tue varie forme;
lá dove Fillide secura dorme
stesa su candidi molli guanciali
vanne, e un’imagine carca di mali
in mente pignile trista e deforme.
Tanto a me simili quell’ombre inventa
e al color pallido che in me si spande,
ch’ella, destandosi, pietá ne senta.
Se tu concedimi favor si grande,
con man vo’ porgerti tacita e lenta
due di papaveri fresche ghirlande.
XLII
Endecasillabi, cui porgerete
col vostro tenero suono conforto?
Al mio certissimo Manzon, che smorto
mirate e languido gir presso a Lete.
Su, richiamatelo; su, lo scuotete,
prima che l’abbiano le cure assorto!
Questi è quel giovine saggio ed accorto,
che delle lettere giunge alle mete.
Alla sua cetera vid’io sovente
tendere i satiri l’orecchie acute
e le selvatiche vergini attente.
Endecasillabi, dunque le argute
corde svegliategli, se di repente
cose udir piacevi dal ciel venute.
XLIII
Oimè che turbine rivoltuoso
di cure asprissime mi turba il sen!
Porgimi, o Eillide, di via spumoso
un orcio o un ciotolo, ma che sia pien.
Quest’è’1 dolcissimo caro e gioioso
al cor dei miseri contravelen:
per questo a ridere torna giocoso
l’imbriachissimo vecchio Silen.
Chi fu che ’l barbaro fiero dolor
frenò dell’esule vergine a Xasso,
se non quest’unico dolce liquor?
Chi fia che reggaci sul fianco lasso,
fugando il gelido senile orror,
presso a quell’ultimo dolente passo?
XLIV
Col guardo i’ vo su per l’aereo calle
fra le nubi cercando e tra i pianeti:
e veggio, d’ogni stella entro a’ secreti
lati, Dio ch’ora quiete or moto dálie.
Scendo di poi su le nevose spalle
de’ monti, ed essi quasi freschi arieti
veggio esultar di lui superbi e lieti,
ch’abita ogn’antro loro, ogni lor valle.
Cerco la terra tutta, e l’onda, e fuore
caccio lo sguardo ancor, ch’appena il regga,
e veggio come, in quell’immenso orrore,
solo non giá ma con se stesso ei segga.
Torno coll’occhio alfin dentro al mio core;
e solo nel mio cor par che noi vegga.
XLV
Carca di merci preziose e rare
coll’aure amiche intorno, agile e presta
girsen vid’io, senza curar tempesta,
una nave superba in mezzo al mare.
E per Tonde vicine al lito chiare,
col remo, il qual di faticar non resta,
di due tavole appena insiem contesta,
un’umile barchetta i’ vidi andare.
Sorse vento improvviso, e l’una tosto
alla ripa vicina in braccio corse,
e ’l legno altier cadde tra Tonde assorto.
Cosi’l miser, diss’io, ch’ai basso è posto,
presto si salva; e chi piú in alto sorse
miraeoi è se può ritrarsi al porto.
XLVI
Su queste pallid’ossa, e giá da cento
anni sepolte in quest’oscuro avello,
qual giá lusse color vermiglio e bello,
ch’or sciolto in polve se ne porta il vento?
Qui, superbe fanciulle, il guardo intento
físate, a rimirar l’aspro flagello
che fa ’l Tempo e la Parca intorno a quello
splendor, cui tanto commendar vi sento.
Ecco i candidi avori, ecco le rose
che si pregiano in voi gli stolti amanti,
misero avanzo di beltá famose.
Anzi quaggiii voi vi specchiate innanti,
folli, cui ’l vero un cieco amor nascose,
quel che riman di tanti pregi e tanti.
XLVII
Poiché, dal braccio del Signor guidate,
fuor dell’Egitto uscir Pebraiche genti,
fuggi timido il mare, e le frementi
onde mosse il Giordan lá ’v’eran nate.
E qual, veggendo le caprette amate,
fanno i capri lascivi ed insolenti,
saltáro i monti e i colli soggiacenti,
come i saturi agnei per l’erbe usate.
Perché fuggisti, o mare, e tu, Giordano,
perché indietro tornasti? O colli, o monti,
qual vi mosse a saltar impeto strano?
E monti e colli e flutti, umili e pronti
chinarsi a lui, che col poter sovrano
fa, di selci e di rupi, e stagni e fonti.
XLVIII
Filli, questo splendor che con tant’arte
fregi e nodrisci, leggier fumo ed ombra
è certamente, cui morte disgombra,
o van gli anni struggendo a parte a parte.
Volgi le greche e le latine carte,
ove di gran beltá donna le ingombra,
e scorgerai come la terra sgombra
ne fu ben tosto e l’arse membra sparte.
Ov’è l’egizia che cotanto piacque
al roman duce? Ov’è colei che mosse
Argo tutta a seguirla in mezzo all’acque?
Anzi, chi ’l corpo sol, chi le nud’osse,
chi la tomba n’addita ov’ella giacque,
poiché ’l filo di lei breve troncosse?
XLIX
Gira l’alta donzella, e in mille modi
tesse i teneri balli, e, piú che ai vasti
musici cori, attende alle sue lodi,
onde avvien che ad ogn’altra ella sovrasti.
E in tanto il re, preso ai soavi modi
cui non è si gran core il qual contrasti,
dice: — Chiedi a me quel di che piú godi,
benché mezzo il mio regno anco non basti. —
Ella: — Se tanto di tua grazia abbondo,
dammi, — disse, — Giovanni. — E tosto un riso
fe’ sul volto apparir vago e giocondo.
Giá non rise il signor, dal duol conquiso;
pur: — Si faccia, — rispose. Ahi mondo, ahi mondo,
quanta legge t’impone un dolce viso!
L
— Chi è costui, che neH’umil suo letto
steso, passa dal mondo e par che rida? —
— Egli è quell’uom si giusto e a Dio diletto,
del divino fígliuol custodia e guida. —
— Chi son que’ duo, cui con si dolce affetto
par che’l guardo languente ancor divida? —
— L’uno è lo Dio, cui fu per padre eletto,
e l’altra è la sua sposa onesta e fida. —
— E come mai fra cosí dolci aspetti
osa Morte por piò franca ed ardita,
ond’uom si grande al suo poter soggetti? —
— Stolto, che pensi? Di niun strai fornita
non è la Parca, onde costui saetti;
ma un’estasi d’amor lo trae di vita. —
LI
Che vai ch’entro a’ gemmati aurei palagi,
per le splendide sale uomo s’inoltre,
e, coperto di bisso e d’aurea coltre,
su le morbide piume il corpo adagi;
che vai, ch’ognor fuggendo i rei disagi,
viva contento a regia mensa, ed oltre
ad umano dover non mai si spoltre
dalla gola e dal sonno, empi e malvagi;
se morte al fin nel piú bel corso arresta
ogni dolce piacer, volgendo i passi
l’alma verso Acheronte ignuda e mesta,
ed ivi a pochi giorni in cener vassi
il cadaver superbo, e non ci resta
che l’onor vano degli scritti sassi?
LII
Egli è pur vero, Eipin, ch’altra donzella
vie piú vaga di Nice Iddio far puote:
dunque perché in lei posi, ed altre ignote
beltá non cerchi assai miglior di quella?
E poiché vista o nell’idea tua snella
donna pinto hai di piú vermiglie gote,
di piú begli occhi e piú soavi note,
vuo’ tu dir che costei sia la piú bella?
No certamente; ché la man di Dio
non s’abbrevia giammai; e in infinito
meta tu troveresti al tuo disio.
Dunque, s’esser non puote un bel compito,
di cui l’alma gentil solo ha desio,
in Dio lo cerca, ove ogni bel sta unito.
LII
Qual fu, qual fu la scellerata mano
che le sacre di Pindo alme parole
ardi di violare, e ’l dritto e sano
pensier volgere in torte insulse fole?
Chi fu colui che ’l calamo profano
osò condurre in su l’elette e sole
pure voci del bel fiume toscano,
d’onde tanto piacer scorrer ne suole?
O Muse, voi che le sorelle audaci
cangiaste in piche, a che stavate intente,
quando costui venne a turbar vostr’acque?
E tu, Febo, il gran telo ove si giacque,
che le zanne confisse un di mordaci
al figliol della Terra empio serpente?
LIV
Io son nato in Parnaso, e Palme suore
tutte furon presenti al nascer mio;
e mi lavaro in quel famoso rio,
mercé solo del quale altri non muore.
Però mi scalda si divin furore,
sebben giovine d’anni ancor son io,
che d’Icaro non temo il caso rio,
mentre compro co’ versi eterno onore.
So che turba di sciocchi invida e bieca
ognor mi guarda, e con grida e lamenti
si bel valore a troppo ardir mi reca;
ma non perciò mio corso avvien ch’allenti,
né l’etá verde alcun timor m’arreca;
ch’anco Alcide fanciul vinse i serpenti.
POESIE PIACEVOLI
LV
Stava a l’ombra gentil di un gran cotale
col suo germano un badial. . . . . . .;
costui contra ’l dover, contra ragione
pigliò briga con uno, e gli andò male.
Per ciò rivolto al suo fratei carnale,
con gran rispetto e grande sommessione:
— Frate — disse, — se m’hai compassione,
mi vendica d’un uom cosí bestiale. —
Allor l’altro. . . . . . ., mosso a pietate
del fratei che moria, scese in arena,
invitando il nemico a pugnalate.
Ma il poverin, che aveva poca lena,
rimase vinto dalle gran stoccate,
che gli passavan fino per la stiena.
La miserabil scena
vide il cotal dei due. . . . . . e disse:
— Ecco che ognun di voi mori qual visse. —
Indi s’un marmo scrisse:
— O sciocchi, perché entrare in tai quistioni,
sapendo ch’eravate due. . . . . .? —
LVI
Colui die fece di «grembiul» «grembiale»,
e di «candide» ancor «sacrate» ha fatto,
io mi vo’ tórre, quand’e’ voglia, a patto
di mostrargli ch’egli è un animale,
un animai che tutto intende male,
anzi che intende quanto intende un matto,
e di lingua non sa niente affatto,
bendi’e’ faccia il saccente e ’l sercotale.
Giá sparso è giá per Elicona il caso,
e le Muse sdegnate in modo strano
voglion mostrargli dov’e’ metta il naso:
e gli scrittori del parlar toscano
l’aspettan sulla strada di Parnaso;
ciascun di loro colla frusta in mano;
e, acciò non prenda invano
persone ad emendar di lui piú pratiche,
voglion dargli un cavallo in su le natiche.
LVII
Su, signor correttore, in sul nasaccio
mettetevi l’occhiai del Gallileo,
e guardate un po’ qui questo libraccio,
s’e’ vi par ch’e’ sia buono o che sia reo.
L’avete visto questo scartafaccio?
Egli è, se noi sapete, il galateo,
che può giovare al vostro cervellaccio,
quanto ad uno ammalato un buon cristeo.
Su via studiate ed imparate a mente!
studiatelo, vi dico, alla malora
se voi bramate d’imparar niente.
Orsú, avete imparato? Oh ditemi ora,
se un asino d’Arcadia onnipotente
può giudicar di voce alta e canora.
E poi mi dite ancora,
se un correttor pedante come vui
è incivile, ignorante o ambidui.
LVIII
Portate in una madia la civaia
al nostro miccio, che ha ragliato bene,
e dappoi gli montate in sulle stiene
voi altre mona Berta e mona Baia.
Fatelo correr su e giú per l’aia,
frugandolo ben ben dietro alle rene:
crescetegli dell’acqua e delle vene;
e viva il nostro ciuco e la ciucaia.
Guata, com’egli al suon di que’ frugoni
che gli passano in fin drento al midollo,
sgambetta bene e drizza gli orecchioni.
Or su, fra tutte vel recate in collo,
e a suon di ribecacce e pifferoni
conducetelo innanzi a mastro Apollo,
che gli vuol bene, e vuoilo,
poi ch’egli è dotto e cosí ben corregge,
addottorar nell’una e l’altra legge.
LIX
Perché sono un fanciullo, un garzoncello
volete dir ch’io sono un ignorante?
Oh! guata conseguenza da pedante,
che sopra la berretta abbia ’l cervello.
Dove avete studiato? in un tinello,
in una galeazza di levante,
voi che fate di Pindo l’almostante,
e non ne siete pur fante o bidello?
Voi misurate a canna le persone.
Se la barba per voi forma il sapiente,
chi sará piú sapiente d’un caprone?
Io vi concedo che non so niente;
ma benché siate cosí gran barbone,
voi non siete, alla fé, troppo valente.
E benché poi la gente
vi stimi un bacalar di gran scienza,
tra l’essere e’l parer c’è differenza.
Direte: — Conoscenza
non hai di me. — Ma piano, andate adagio,
ch’aneli’io so bene a quanti di è san Biagio.
Ma poi ch’io non ho agio,
non vo’ stare a dir cosa che v’annoi;
ché quel prete il fe’ giá ne’ versi suoi.
O Nanni, io l’ho con voi;
che non credeste che ’l mio gran furore
fosse tutto rivolto al correttore.
Voi siete il protettore,
ch’avete tolto senza alcun motivo
a difendere un bufol vero e vivo.
Or non abbiate a schivo
ch’io v’abbia detto quel che vi si deve.
Qual asin dá in parete, tal riceve.
LX
Che si scortica l’asino alla prova,
dice un proverbio, messer Nanni mio.
P’inor credei che in sen madonna Clio
e l’altre Muse vi covasser l’uova;
ma or m’avete dato una gran prova
che voi siete un. . . . . . . come son io;
e si vi giuro, per lo vero Iddio,
che ben poco cervello in voi si trova,
poiché, contra ogni legge, ogni ragione,
pensier voi fate di patrocinare
questo vostro solenne animalone.
Io vi consiglio a non ischiccherare
piú il vostro scartabel per tal cagione,
se non volete farvi cuculiare.
Vi par da sopportare
ch’altri su’ versi miei faccia del dotto,
senza farmene pure un picciol motto?
E io dovrò star chiotto,
vedendo con maniera da pedante
lacerar le mie cose un ignorante?
Questo, di tante e tante
rime che ho fatto per servir quel tristo,
io dico, questo guiderdone acquisto?
O cieli, o santi, o C..
e dove mai si ritrovar tai leggi?
E tu, cielo, il difendi, e tu ’l proteggi?
O dottor storcileggi...
Ma voi, ser Nanni, fate quel ch’io dico;
non v’impacciate piú del vostro amico
il qual non vale un fico,
né vi movete piú a nostro danno,
se non volete aver qualche malanno:
imperocché quest’anno,
a dirla chiaramente qui tra noi,
è un anno climaterico per voi.
LXI
Nencia, ti mando questo mio sonetto,
per narrarti uno strano pensieraccio
che m’è venuto d’impiccarmi a un laccio,
per amor dell’amore maladetto.
Io te lo dico*spiattellato e schietto:
se non mi togli fuor di quest’impaccio,
dentro un calappio la mia testa caccio,
e ti fo quel bel giuoco netto netto.
Gnaffe tei dico, ve’, Nencia, e tu ’l sai:
mentre son vivo, non vuoi farmi lieto,
e dopo morto tu mi cercherai.
Ma s’io tiro a la fin l’ultimo peto,
non varratti il picchiare, oppur potrai
picchiarmi allora all’usciolin di dreto.
LXII
Nencia, te l’ho pur detto cento volte;
noi vo’ veder quel gaveggin di Beco:
gnen’ho pur date delle busse molte,
eppur voi far del cascamorto teco.
Che si, che s’io mi stizzo un giorno seco,
alle guagnel che gli fo dar le volte
con quel buon bacchio che di notte reco:
e di’ che gli sien poi dal papa tolte.
Sai pur che, s’io mi ficco un capricciaccio,
non mi va fuora della testa piue:
l’ha’tu ben visto il di di Berlingaccio,
quand’io fei tanto piato con quel bue
in casa tuo cugino Menicaccio.
Di’, allor chi corse meglio di noi due?
LXIII
Io, Nencia, sono stat’ieri a Fiorenza,
e t’ho comprato un bel gammurrin bianco;
e, se tu arai un po’ di pazienza,
un gonnellino i’ vo’ comprartel’anco.
Ornai di crazie son rimasto senza,
perciocch’io compro e pago come un banco;
ma ho nascostp uno staio di semenza,
e quattro lire chiapperolle almanco.
Per san Giovanni adunque il gonnellino
tu l’averai indosso senza fallo,
che tu proprio parrai un angiolino;
ma ricordati, ve’, di conservano
per la memoria del tuo gaveggino,
che ti vuol bene, al corpo di cristallo!
LXIV
Ah, Tofan, quella Gora, quella Gora,
tu non la vuo’ lasciare, sguaiataccio!
Che si, che s’io l’affilo un coltellaccio,
quell’animaccia te la cavo fuora!
Oh che tu poss’andare alla malora!
che diancin ha’ tu seco, impiccatacelo?
S’io ti sbarro uno schioppo nel mostaccio,
che si che le starai lontano allora?
Io vo’ che tu la lasci pe’ suo’ fatti;
se no, le voglion essere percosse:
e sarén sempre come cani e gatti.
Fa ch’io ti vegga, che ti rompo Posse
con un baston ch’a le spalle s’addatti;
eli’ io non posso piú star saldo alle mosse.
E ben che il duca fosse,
quando mi salta, ve’, il moscherino,
lo vorrei sbusecchiar per un quattrino.
LXV
O anima bizzarra del Burchiello,
che componesti tante belle cose,
sicché s’odono ancora in versi e in prose
l’eccelse lodi del tuo gran cervello,
deh! volgi da quel seggio aurato e bello,
ove siedi coll’altre alme famose,
volgi, dico, le due luci amorose
a questo nostro poeta novello.
Guatalo bene; e quando che la zanna
della morte il rapisca al vulgo ignaro,
gli darai la man ritta in sulla scranna.
O per mostrare a certe genti strambe
quanto lo stimi e quanto l’abbi caro,
ti stará bene in mezzo delle gambe.
LXVI
Se costui fosse nato allor che i vati
si stavan spidocchiando al sollione,
aremmo visto tutte le persone
a fargli degli onori sterminati:
e visto arebbon certi sciagurati
che finor lo stimarono un babbione,
a mezzo giorno ed a settentrione
andar la fama de’ suoi versi ornati.
Il meno onore che gli avesson fatto
sarebbe stato il metterlo a cavallo
d’un liofante grosso tanto fatto:
e, giunto in Campidoglio, coronallo,
gridando il popolazzo allegro e matto:
— Ecco il novo poeta Baraballo. —
LXVII
Ho visto i geroglifici d’Egitto
e la sfinge e l’arsmagna ed il caosse,
che tutt’infuriati in un conflitto
si davan delle sudice percosse.
Chi sosteneva che ’l presente scritto
contien drento i giudizi di Minosse,
e chi diceva che propio descritto
il lapis filosofico ci fosse.
Facevano un rornore, un chiasso, un frullo,
battendosi gli scudi e le loriche,
ch’egli era proprio a vedergli un trastullo.
A soccorrere ognun le parti amiche
son corsi i libri di Raimondo Lullo
e le iscrizioni e le medaglie antiche,
colle sciocche e mendiche
carte di tai che l’antiquario fanno,
e interpretan le cose che non sanno.
E armate ancor vi vanno
tutte unite le mummie in un museo
e la romana guglia e ’l culiseo,
con dietro un gran corteo
di tumoli, obelischi, archi e colonne
e simulacri d’uomini e di donne
coll’armi e colle gonne.
Ma poiché disputato ebbono un pezzo,
non trovando a capir né via né mezzo,
conchiusono al da sezzo
ch’è d’uopo, per capire opra si bella,
che cavinsi all’autore le cervella.
LXVIII
Ti sono schiavo, ti son servitore,
Cecco, che se’ ’l mio bene solo solo.
Deh lasciai ir quel ragazzo d’Amore,
ch’egli è una forca, ch’egli è un mariuolo.
I’ te lo dico, ve’, proprio col core:
tu vai pel bucolin dell’acquaiuolo;
e, alle guagnele, ch’i’ho gran timore
che tu non tiri al fine anche l’aiuolo.
Uh tristo me, se steso in sul cassone,
bell’e tirate, ahi poverini le cuoia,
avessi un di a veder il mio Ceccone;
e scritto sopra per maggior mia noia:
«Qui giace un tale che mori poltrone,
come i gatti per fregola o per foia».
LXIX
Ch’io possa diventare una ghiandaia
o vero un barbajanni o un alocco,
s’io sono un’altra volta si balocco
da star tanto menando il can per l’aia!
La prima occasion che buona paia,
dimmi un furbo, ser Cecco, e uno scrocco,
s’io non carico l’arco e non iscocco
e non do dentro alla pietra focaia.
Non v’ha a esser piú ragion nessuna;
ch’i’ non vo’ sentir altro brulichio
che mi frughi pel ventre in su e in giue.
L’occasion è come la fortuna.
Se nolla chiappi in men che noi dich’io,
tu puoi ben correr, nolla grappi piue.
LXX
Voi avete a saper, buone persone,
come il nostro ser Cecco è innamorato,
io dico il nostro ser Cecco Ceccone;
doh pover’uomo! ch’egli è un peccato.
Egli è venuto magherò e spolpato,
che gli traluce il fegato e ’l polmone,
e se gli vede andar per ogni lato
tututto il budellame a processione.
E caccia fuor quegli occhi, e fa una cera
ch’e’ par ch’egli abbia visto Satanasso
e l’orco e la beffana e la versiera;
e va gridando in istrada: — Oimè lasso! —
come fece il Petrarca in quella sera
o mattina, ch’e’ fu tratto in conquasso:
però che, giunto al passo
u’ quel furbo d’Amor tendeva il laccio,
fu preso come un merlo, il cristianaccio!
Io dico: — Avaccio avaccio
noi vedremo ser Cecco ad ammalare
e non poter né bere né mangiare,
e le calze tirare;
però che Amor gli ha fatto una ferita
ch’è larga almeno quattro o cinque dita;
onde d’aver piú vita
non ci sperare piú, ser Cecco mio,
se non per un miracolo di Dio. —
LXXI
In man d’essecutori e di notai,
che vuol dir di guidoni e di furfanti,
io son ridotto a tale stato omai
ch’io non confido piú né in Dio né in santi.
Non so di qual religion sien mai,
se turchi, ebrei, gentili o protestanti;
ma mi fo a creder che questi cotai
sien’affatto ateisti tutti quanti.
Oh che bestie, oh che bestie son, per Dio!
E’ voglion pur del sangue mio cibarsi,
e dicon ch’egli è lor quello ch’è mio.
Voi principi, cui dato a governarsi
fu’l mondo da messer Domeneddio,
son questi, questi i ladri da impiccarsi.
LXXII
Da un tal che pare una mummia d’Egitto
ma piú fiero dei draghi e i cocodrilli,
che va via per istrada ritto ritto
si che pare appuntato cogli spilli,
deh! guardatevi, o genti, che’l suo vitto
è di quel dei legati e de’ pupilli:
e non va poi neli’operar si dritto,
ma è pien d’invenzioni e di cavilli.
Ei non istima coscienza un’acca,
e pur ch’egli arricchisca la sua schiatta,
cerca render l’altrui povera e fiacca.
Ei mi s’appicca come una mignatta,
e dal mio sangue mai non si distacca,
s’io v’adropassi bugne d’una gatta.
Per me la cosa è fatta.
Se mai non viene un diavol che Io grappe
dirittamente in mezzo delle chiappe,
sicch’egli non iscappe,
e dar gli faccia un maladetto crollo,
finché si rompa un di l’osso del collo.
LXXIII
O Fortuna, Fortuna crudelaccia,
che se’ fatta per mia disperazione;
Fortuna non piú no, ma Fortunaccia,
ha a durare un pezzo sta canzone?
Vogliam finirla, e volger quella faccia
un poco ancora alle buone persone?
Che si che mi daresti roba a braccia,
s’io t’avessi la ciera d’un briccone?
S’io fossi, verbigrazia, una puttana
o un castrato o una cantatrice
o un bel marmocchio ovvero una ruffiana?
Allora si diventerei felice.
Ma perché osservo la legge cristiana,
ognun mi scaccia, ognun mi maladice,
e son sempre infelice.
Ma vivrò, sguaiataccia, al tuo dispetto;
e se ti grappo un di per quel ciuffetto,
te lo strappo di netto:
sicché i ragazzi, a vederti si bella,
t’abbian a gridar dietro: — Velia, velia!
LXXIV
Molti somari ho scritto in una lista,
che pretendon saper di poesia,
e ne san tanto quanto un ateista
ne può sapere di teologia.
Se t’incontran talotta per la via,
tosto di non vederti fanno vista;
e pur, se chiedi lor Dante chi sia,
dicon che Dante gli era un secentista.
Ti citano il rimario del Ruscelli,
come farebbe un turco l’Alcorano,
e ne san quanto i gufi e i falimbelli.
E, se ti leggon un sonetto strano,
si van ringalluzzando, e si fan belli,
e dicon ch’è di stile alto e sovrano.
Or questa lista in mano
io dòtti, o nume che in Parnaso imperi,
acciocché gli conoscili questi seri
fuor dei poeti veri;
e tu, Pegaso, se ti montan suso,
rompi pur loro con un calcio il muso.
LXXV
M’ha invitato a ballar ieri ser Nanni
in cima a quattro scale sott’un tetto.
Dall’altra banda era appoggiato un letto,
e dall’altra un armadio con tre scanni.
Da un’altra parte v’erano de’ panni
sur un appiccatoio, e a dirimpetto
il focolar, la pentola, il soffietto,
le stoviglie e uno spiedo che ti scanni.
In un cantuccio v’erano de’ piatti
posti s’un acquaiuol mezzo distrutto,
uno sgabello e due cenci disfatti.
Del resto v’era luogo dappertutto
di saltare in un mucchio come i gatti,
v’era ’l bisogno, vi mancava tutto.
I sonatori a lutto
suonavan una razza di strumenti
che ti metteva i brividi ne’ denti.
Ambidue gli occhi spenti
aveva l’uno, e l’altro era storpiato,
e un, che come un ladro era stracciato,
ci vedea sol da un lato.
Le sonate ch’avean in mente fitte,
eran di quelle che facea Davitte.
Stavano ritte ritte
in sulle panche che parean steccate,
certe brutte fanciulle indiavolate.
Eran tutte malate:
chi aveva ’l cacasangue e chi la tosse,
chi non cacava e chi avea le mosse;
e la meno che fosse
avea la rogna, aveva il mal franzese,
e ’l benefizio non avea del mese.
Un scopator di chiese,
un beccamorto, un zaffo, un ciabattino,
un gabelliere, un lanzo ed un facchino
ed anche un chierichino
di que’ che in chiesa servono alle monache,
un oste, un cuoco e, per finir le cronache,
due frati senza tonache,
con certi visi di bertucce o monne
facean conversazion con quelle donne,
a cui putian le gonne
d’un odor d’ogni sorta di malanni.
Oh i begli inviti che mi fa ser Nanni!
LXXVI
Nanni s’ha messo un mantellaccio in dosso
che, s’ tu ’l vedessi, ti parrebbe un matto;
credo che sei facesse il re Minosse
quando giudice ad inferos fu fatto.
Egli è cencioso, rattoppato e grosso,
ne cola il brodo e l’unto liquefatto:
era giá nero, ed or diventa rosso
per la vergogna d’esser cosí fatto.
Fa Nanni in somma si trista figura
con quello straccio in sulle spalle storto,
ch’io ne disgrado la mala ventura.
Il primo di che in tal foggia l’ho scorto,
io ebbi a spiritar della paura,
temendo ch’e’ non fosse il beccamorto.
LXXVII
Nanni mi sbircia prima e quindi arrappa
ogni via per fuggirmi, o manca o destra,
e s’imbavaglia dentro della cappa
quel musin da colpir colla balestra.
Che si, che un giorno tanto si rattrappa
e s’imbacucca ch’egli s’incapestra!
Deh corri, Farfanicchio, e poi lo grappa,
e lo disvogli con maniera destra.
E col puntel de’ cozzi un buon sommesso
gli rileva dal suol quel pa’d’occhiacci,
e fa ch’e’ guardi ben s’io son quel desso.
Poi diragli pian pian, senza minacci:
se lo noia vedermi cosí spesso,
che tu coll’ugne lo terrai d’impacci.
LXXVIII
Se scorto pria t’avessi, o d’una gogna
degno, dell’altrui opre usurpatore,
io t’are’ fatto tanto disonore,
che ne saresti morto di vergogna.
Oh! va, cacciati adesso entro una fogna,
se tu non vuoi provar di che tenore
sia la mia penna, quand’ell’è in furore,
bue, piluccone, asinaccio, carogna.
Io non so chi mi tien, corpo di . . . . . .,
ch’io non ti sforzi or ora a dispogliarti
di tutto quanto ha’ tu del fatto mio;
e ch’io non pongami a perseguitarti,
con verseggiar si attossicato e rio,
che di tua man tu vadi ad impiccarti.
LXXIX
Signori cari, fate di star sani
almeno almen finché non vi malate,
e per amor del cielo vi guardate
di non ire a ingrassare i petronciani.
E voi, piovano, quelle vostre mani
non le tenete mica scioperate;
ma a scriver belle cose le adoprate
in versi ora latini ora toscani.
Cosí, coll’arte ch’ogni orgoglio placa,
non temerete quella vecchia piue
che tira colpi da matta imbriaca.
E chiaro il vostro nome ognora piue
n’andrá per sino in India Pastinaca,
lá dove Tacque corron all’ingiue.
LXXX
Ser Cecco mio, voi siete spiritato
si, per santa Nafissa, a dir ch’io muoio,
per che son d’una donna imbertonato
piú che d’una carogna un avvoltoio.
Voi mi fate un supposto sghangherato
a dire che per ciò mi spolpo e scuoio;
ch’io non son mica come voi bruciato,
tenero di calcagna, cascatolo.
Cancher vi mangi: il vo’ pur dir; gli è vero,
si, ch’egli è ver ch’io son proprio disfatto
d’una ragazza che vale un impero,
e vo’ giuocar che se ’l vedeste un tratto
quel visin che m’ha fatto prigioniero,
voi n’andereste in frega come un gatto.
Ma pur non m’han mai tratto
in si sciocco pensier due luci belle
di voler per amor tornii la pelle.
E non stimo covelle
il mal d’amore, s’io ne son guerito
solamente con polli e pambollito.
LXXXI
Voi me ne avete fatti tanti e tanti
di questi vostri attacci arcipoltroni,
che, se tornate a rompermi i..
vi tratterò da birbe e da furfanti.
Voi siete una tormaccia di pedanti,
che non volete intender le ragioni;
e perché fate i saggi e i dottoroni
stimate gli altri goffi ed ignoranti.
Che c’è egli drento in que’ vostri libracci
a non volere che sien letti mai,
quando voi noi volete, ignorantacci?
Il diavol credo che vi salti omai
su que’ vostri muffati granellacci,
e vi faccia gridare: — Ahi ahi ahi ahi! —
LXXXII
Andate a la malora, andate, andate,
e non mi state a rompere i. . . . . .,
Io non vo’ piú sentir queste sonate.
Che vestizioni, che professioni?
Doh maledette usanze indiavolate!
Possibil che dottor non s’incoroni,
non si faccia una monaca o un frate,
senza i sonetti, senza le canzoni?
Che debb’io dire? che costei le spalle
ardita volge ai tre nemici armati,
ch’alia cella sen va per dritto calle!
Ch’amor disperasi e gl’innamorati?...
E dálie e dálie e dálie e dálie e dálie,
con questi cavolacci riscaldati!
LXXXIII
O monachine mie, questa fanciulla
è una fanciulla tutta bella e buona;
bella e diritta della sua persona,
che, come a donna, non le manca nulla.
Ella poppava quand’ell’era in culla;
poi, per forza di Cerere e Pomona,
è venuta una bella pollastrona
che finor dette al mondo erba trastulla.
Ella ha poi un cervel non dal suo sesso,
ché mai non fece una minchioneria,
se a sorte mai non la facesse adesso.
Ella è inoltre si devota e pia
ch’ella, sera e mattina, dice spesso
il paternostro e l’avemmaria.
In fine ella saria,
se Iddio daralle grazia ch’ella viva,
propio il caso per la contemplativa,
e per la vita attiva;
poiché a far berrieuocoli e ciambelle
non c’è un paio di man come son quelle.
Ei bisogna vedelle;
ch’io vi so dir che non varria danaio
appetto a lei il miglior ciambellaio
o berricuocolaio:
e s’ella vale un mezzo mondo a falle,
ne vai piú di millanta a manucalle.
LXXXIV
Son le furie d’Averno, a quel ch’io sento,
tre: Megera, Tesifone ed Aletto;
ma al mondo se ne contan per portento
infíno a sei sotto un medesmo tetto.
Son sei sorelle tutte d’un aspetto:
il ciel ne guardi s’eile fusson cento!
Cacolle la natura per dispetto
un di ch’ella si messe un argomento.
C’è ancor chi dice ch’elle usciron fuora
prima di tutti quanti gli altri mali
dal maladetto vaso di Pandora.
Chi volesse fondar cento spedali
o lazzeretti, lo farebbe ognora
ch’egli potesse aver queste cotali
veraci e naturali
immagini del morbo e della peste,
fatte senza livello e senza seste
dalle veloci e preste
mani della natura esterrefatta
da quella materiaccia contraffatta,
la qual par proprio fatta
per far le tentazioni a sant’Antonio
in forma di fantasma o di demonio.
LXXXV
Muse pitocche, andatene al bordello,
poiché da questo vostro mestieraccio,
mentre per soddisfare a ognun m’avaccio,
io non ne cavo un marcio quattrinello.
M’ho io dunque a beccar sempre il cervello
sopra qualche sguaiato soggettacelo,
che, innanzi che l’onor ch’io gli procaccio,
merteria di remar sopra un vascello?
Eccoti, Apollo mio, la tua ghirlanda!
Io te ne incaco ch’ella sia immortale,
poiché frutto nessun non mi tramanda.
Almen ci fosse ancor qualche cotale
de’ prischi eroi! Ma qual ragion comanda
d’ingrandir co’ miei versi uno animale,
un sciocco, uno stivale
che s’acconventi? ovvero una.
che per colpa de’ padri il mondo lascia,
e d’un velo si fascia,
e, giunta in munister, po’ po’ in quel fondo
fa forse peggio che non fece al mondo?
Ah, l’uno e l’altro pondo
mi sia strappato via con le tanaglie,
piuttosto che lodar queste canaglie!
Un asino che raglie
sia ben degno cantor di quella gente
che a chi canta per lor non dan mai niente.
LXXXVI
Si vivi pur cosí, . . . . . . vecchia,
con questi tuoi . . . . . . sciocchi.
Si, nelle scelleraggini, si, invecchia,
ove tu fai cotenna e ti balocchi.
Mi poss’esser tagliato via un’orecchia,
e cavati di testa ambedue gli occhi,
se gelosia mi punge o mi morsecchia
o mi trapassa il cor con degli stocchi.
Mi vergogno del ben che t’ho voluto,
e, s’io ne sento una favilla in petto,
poss’io essere un gran . . . . . . . . . . . .
S’ tu mai pigli marito, io gli prometto
che in men d’un mese, sia pur egli astuto,
a portare il cimier sará costretto.
E finalmente aspetto
di vederti venir fuor del bordello
in mezzo alla sbirraglia ed al bargello
con al collo il cartello
e la initera in capo in sur un miccio,
e ’l boia dreto a dartene un carpicelo.
LXXXVII
Masin, cotesto tuo calonacaccio
che ruba i versi e l’opere stampate,
poi dice ch’egli stesso le ha inventate,
bench’ei di poetar non ne sa straccio;
Oh! va, digli ch’egli è un bell’asinaccio,
vestito delle pelli che ha rubate;
ma che tu lo conosci alle ragliate:
oh! va, digliene pure in sul mostaccio!
Digli ch’e’ vada tra la gente sciocca
a fare il dotto, e colla cera brusca
nomi ed aggiunti, satire gli scocca!
Ma no, ch’ogn’altro pregio un solo offusca
dagli soltanto il titol che gli tocca.
Sa’ tu quel che vuol dire in lingua etrusca?
Va, leggila la Crusca,
e troverai che, in buona locuzione,
calonaco vuol dir proprio.
CAPITOLI
LXXXVIII
[i]
Oh Poffare! Ser Cecco, i’son rimasto
propio come s’io fossi senza un corno:
non mi sa buono né dormir, né pasto.
Io vo pur dietro a sbirciare d’intorno,
5per vederti una volta, vezzo mio;
ma in van io guato e di notte e di giorno,
tu se’ scappato senza dirmi addio;
e starai lieto, e farai buona ciera,
mentr’io ti cerco a oriente, a bacio,
10Doh! che gli venga un orco, una versiera,
e se lo portiti via quel can, quel tristo,
cagion che tu ne desti buona sera.
Giuro sul berrettin dell’Anticristo
ch’i’vorre’propio colle man sbranallo
15se ’l conoscessi, se l’avessi visto.
Al corpo, al sangue, ch’i’ vorre’ cacciallo
dentro’n un cesso, dentro’n una fogna,
a far co’ vermi, e colle bòtte un ballo.
Non ti par egli degno d’una gogna,
20d’un cartoccio turchin, d’un asinelio
e d’una frusta, e d’una gran vergogna?
Ma ritorniamo a te, ser Cecco bello:
come va la faccenda? E la signora
ti fruga nel pensier, ti dá martello?
25Vatt’ella consumando ad ora ad ora,
povero meschinello, poveraccio,
oppure ti dá sosta una qualch’ora?
Ti senti tu del caldo, oppur del ghiaccio?
Se’ vivo, sano, verde come un aglio?
30Oppure se’ ravvolto in uno straccio?
I’ ho tanta paura che mi quaglio
allor ch’io penso a cotesto tuo stato,
e mi pare d’avere addosso un maglio.
Ma spero che rimedio arai trovato
35a questo rodimento maladetto,
e quel gran ruzzo te l’avrai cavato.
Se no, cerca di trarre alcun diletto
da qualche foresozza ben tarchiata,
ch’elle sono, per Dio, di core schietto.
40Falle col chittarin la serenata,
ch’e’ non c’è ristio di pigliar l’acceggia:
dálie la ben venuta e ben trovata.
E quando che la zappa o la marreggia,
va a ritrovarla, e presso le ti metti,
45e li ciarla e sghignazza e cuccuveggia.
Dálie de’ nastri, dálie de’ merletti,
e qualche stringa, e qualche coreggiuolo,
e de’ bigheri ancor, degli spilletti.
E cosí passeratti il tempo a volo,
50senza pensare alle ribalderie,
senz’alcun dispiacere, senza duolo.
Legger potrále delle poesie
nuove, bizzarre, chiare ed allegrocce,
come sarebbe, a un mo’ di dir, le mie;
55e poi farle le dolci carezzocce,
e qualche baciolino anche appiccarle
in su quelle gotuzze vermigliocce.
Ma sta’! dove vo io con queste ciarle?
Son’elle cose da dirle al Ceccone
60che saprá ben da sé stesso cercarle?
Eh via! ché gli è propio un dottorone
in questo mestieraccio cosí fatto,
e la sa tutte meglio che un Nasone.
E io son pur si scimunito e matto?
65Gli è come portar cavolo a Legnaia
a insegnare a ser Cecco in questo fatto.
Desso è una fonte, desso è una ceppaia
di be’ trovati, e voler dirne a lui
gli è giusto come metter stoppia in aia.
70Ma queste cose le non fan per nui:
lasciatile andar, e discorriamo adesso
d’altri affari che fanno per noi dui.
Deh! fatt’in qua, deh! fatt’un po’piú presso,
e senti due parole nell’orecchio
75intorno a quel passato tuo successo.
Quel messer lo calonaco, quel vecchio
il qual vuol farti una pedina, il quale
vuol fartela vedere in uno specchio;
quello sguaiato tristo facimale,
80quel disgraziato, quel sciaguratello
che gli venga un gavocciolo, un cassale,
s’è tolto quel pensiere del cervello?
oppur v’è ancora dentro incaponito?
Chiamalo in giostra, chiamalo in duello.
85E s’egli accetta cosí fatto invito
statti lieto, Ceccon, ché ’l tuo gran guaio
in una mezz’oretta gli è fornito.
Io getto anch’io ’n un canto questo saio,
e armato tutto come un paladino
90tra te e me ne farem giusto un paio.
E li colpi da Orlando e da Zerbino
gli menerem sul capo e sulle braccia,
fin che disteso l’abbiamo supino.
Oh ve’ che spaventosa figuraccia
95faremo noi con quegli stocchi in mano!
Affé ch’alle persone il cor s’addiaccia.
Tu parrai un bargello, uno scherano;
perché quel tuo visin gli è propio buono
da spiritare un povero cristiano,
100Oh via lasciamo, perch’io stanco sono,
di scriver giú di queste tantafere
che farebbon scoppiar di verno il tuono.
E voi intanto, il mio buon messere,
state allegro, e aspettatevi che presto
105io conto di venirvi a rivedere.
E se mai quella birba, quel capresto
d’Amor mi dona un becco d’un contento,
non mi vedrete piú doglioso e mesto;
ma dentro nelle risa infino al mento,
110negli spassi, ne’gusti, ne’piaceri
vo’ sempre che ci stiam ficcati drento.
E lasciamo gracchiare a questi seri
che gl’impacci si prendono del Rosso,
a questi sciocchi veri, veri, veri,
115che’l canchero gli roda infin sull’osso.
Poscritta. Ser Finocchio ha ricevuto
le lettere, al barbier da voi lasciate,
ed ancor egli vi fa un bel saluto,
cogli altri amici dalle passeggiate.
LXXXIX
[2]
Signor curato, mi sono pure accorto,
e l’ho sentito del sicuro a dire,
che, s’io non fossi vivo, sare’morto;
e che, se noi abbiamo da spedire
5qualche nostro affaruzzo di presente,
bisogna farlo prima di morire;
perché m’ha detto ancor di molta gente,
che quando un uomo ha tirato le calze,
e’ non c’è modo di far piú niente,
10Però conviene ch’io mi sbracci e scalze,
e ch’io venga con quattro miei versacci
a trovarvi costi fra queste balze,
e intanto ch’io son vivo e fuor d’impacci,
meni le mani come i berrettai,
15e ch’io faccia ben presto e ch’io mi spacci,
prima che tornin piú fitti che mai,
e mi vengano sopra difilato,
e m’empiano d’un fregolo di guai.
Perché, se voi lo sapeste il mio stato,
20parria ch’io vi contassi delle baie,
e vi direi il ver, signor curato.
Ma queste ciarle sieno le sezzaie:
ne parleremo poi, quando non ci abbia
dell’altre cose piú gioconde e gaie.
25E perch’io paio un gufo in una gabbia,
o in su la gruccia a far rider gli uccelli,
mi rincresce scoprirmi, e monto in rabbia.
Intanto io vi ringrazio di que’ belli
saluti, che di spesso voi mi fate,
30or per bocca di questi ed or di quelli.
Ma certo, signor caro, v’ingannate
a tenermi per un virtuosaccio,
a darmi quelle lodi sperticate;
ch’io veramente sono un suggettaccio
35che studio solamente il Pecorone,
e in altre cose non vaglio uno straccio.
Io sono, verbigrazia, un compagnone
che mi piace di ridere e gracchiare
co’ miei amici in conversazione.
40Io non mi curo molto di studiare,
perché mi dicon che chi studia troppo
va a ristio di morire o d’impazzare.
Io, che vi corro, come di galoppo;
verso la casa di monna Pazzia,
45per Dio che vi cadrei senz’altro intoppo.
E poi perché volete ch’io mi dia
allo studiar, ch’or non si stima un’acca,
e sol si stima la poltroneria?
E dappoi che la nuca ti si stracca
50in sur i libri, infine a capo d’anno
tu fai l’avanzo che facea ’l Cibacca.
Togliamoci, signor, da questo inganno
di volere studiar fino alla morte,
e mandiamogli i libri al lor malanno.
55Oggi co’ libri non si fa piú sorte;
non è piú ’l tempo che Berta filava;
e le genti dabbene sono morte.
Non è piú ’l tempo che si regalava
di scudacci lampanti e di fiorini
60un sonettuzzo che finisse in «ava».
Adesso se ne van sbrici e meschini
involti dentro a un piccolo tabarro
i poeti ch’un tempo eran divini:
e forz’è che uno spirito bizzarro
65si pasca sol di fumo, e invano aspetti
di pigliare la lepre con il carro.
Oh sieno delle volte benedetti
piú di millanta color ch’hanno il mondo
dentro a’ loro preteriti perfetti!
70E fra questi voi siete, il mio giocondo
signor curato, il quale non avete
adesso d’altri un bisognino al mondo;
e vi godete la vostra quiete,
e mangiate, e beete, e poi dormite,
75quando 11’avete voglia, e che potete.
Voi ne farete pur delle stampite
in su quel chittarrone alto e sonoro
che potrebbe trar l’anime da Dite.
E sempre intorno il leggiadretto coro
80avrete delle Muse, che lontane
se ne stan dagli strepiti del fòro:
e scriverete con ambe le mane
in prosa e in versi roba si squisita,
da mangiarsela tutta senza pane,
85e leccarsene ancor l’ugne e le dita.
Oimè che versi, oimè che dolci prose,
oimè che roba, corpo di mia vita!
Quand’io ci vo pensando a queste cose,
mi sdilinquisce dentro al petto il core,
90come s’io fossi in mezzo a un pa’ di spose,
e ch’ambedue mi amassono d’amore,
e facesson tra loro a chi piú bene
mi vuole, e ’l dimostrassono di fuore.
La paritá qui non ci calza bene:
95ma io l’ho detta per un verbigrazia,
per una cosa che in bocca mi viene,
che non credeste, giá per mia disgrazia,
ch’io me le andassi cosí nominando,
perché le donne mi fossero in grazia:
100ch’io vi giuro per la spada d’Orlando,
e per lo ’ncanto di madonna Tessa
ch’io le vorre’vedere tutte in bando.
Ma sta quistion lasciamola soppressa,
acciò, col dire, scorger non mi faccia;
105perché tal burla che poi si confessa.
Io vo scrivendo giú questa cosaccia,
senza considerar quel ch’io mi faccio,
e ci do drento a forza delle braccia.
E voi direte: — Guata cervellaccio,
io che non sa né men e’ quel che si dica,
che vuol far del saccente, ed è un babaccio. —
E forse monterete in sulla bica
ch’io v’assordi con questi noncovelle,
e direte: — Oh che ’l ciel ti maladica! —
115Ma, poter della luna e delle stelle!
chi cercherebbe di tenere a segno
un cervel ch’abbia in capo le girelle?
Orsú, frenate un micolin lo sdegno,
e lasciate ch’io empia questo vano
120ch’io non v’aggiungo, semi dessi un regno.
Se vedeste il signor prete . . . . . .
il quale sta a. . . . . . ed è mio zio,
fategli da mia parte un baciamano.
E ditegli ch’io son vivo ancor io,
125e ch’e’ farebbe il meglio a ricordarsi
alcuna volta un po’ del fatto mio;
e ch’ei farebbe bene a dimostrarsi
che non sol di parole ei m’è parente:
ma e’ dirá che i tempi sono scarsi,
130E intanto che mi cade nella mente,
vi raccomando ancor quel vanerello
dell’Antognin che si fará valente.
Egli è un ragazzo virtuoso e bello;
ma s’ho a dirla propio spiattellata,
135egli è un po’ leggerino di cervello.
Bisogna fargli una buona lavata;
ch’io vi prometto da quell’uom che sono
che non gli sará mica una sassata.
Egli ha portato giú dal cielo in dono
140un grande ingegno, e se ’l coltiverá,
certo ch’ei si fará molto piú buono.
Convien dirgli che s’e’ non studierá
la logica, sportel d’ogni scienza,
ch’egli non saprá mai quel che dirá:
145e s’e’ non pianterá buona semenza,
che delle frutta ne ricorrá poche,
come gl’insegnerá la sperienza.
Ma sento che gridate: — Oh quid est hoche.
Saprò ben dir, senza che tu m’insegni:
Hanno a menar i paperi a ber l’oche? —
Per questo io pianto qui d’Èrcole i segni,
e dico: — Non plus ultra, o Musa mia,
ché gli uditori ne son pregni pregni: —
e sono stiavo di Vossignoria.
XC
[3]
Manzon, s’i’te l’ho detto, tu lo sai,
e s’i’ non te l’ho detto, tei vo’dire:
quand’i’te l’arò detto, il superai.
Son risoluto di voler morire,
e non ci voglio metter tempo in mezzo:
guarda capricci che soglion venire!
I’ mi volea morire sino ha un pezzo:
ma non ci ho mai potuto trovar modo,
ch’a questa cosa non ci sono avvezzo.
Ho attaccato un bel capresto a un chiodo,
e delle volte diece sono stato
per cacciare la testa drento al nodo:
ma prima, di far questo, ci ho pensato
ch’egli è una morte da furbo, da baro,
cioè a dir quel morire impiccato.
Ché giá ch’ho a fare questo passo amaro,
i’ non vorre’ po’ poi che le persone
m’avessono a stimare un bel somaro,
perch’i’ non abbia fatto elezione
di qualche morte almen da galantuomo,
non mica da furfante e da briccone.
Se ci fusse stampato qualche tomo
il qual mostrasse tutte le maniere
di far tirar le calze a un pover’uomo,
25io men vorre’ di fatto provvedere,
e ci vorre’ poi tanto studiar suso,
ch’io ne trovassi alcuna a mio piacere.
Quel povero Bertoldo i’ non l’accuso,
che non trovò mai pianta da impiccarsi:
30gli ebbe ragione di restar confuso.
Perocché, quando si tratta di farsi
del male, dicon que’che provat’hanno,
ch’egli è molto diffidi contentarsi.
E’ non è giá che rechi loro affanno
35quella paura del morire: a quella
i disperati non vi baderanno.
Ciò che ti fa beccar ben le cervella
gli è quel cercarla bella; che di morti
se ne stenta a trovare alcuna bella.
40E benché ce ne sieno di piú sorti,
le sono però certe porcherie,
da fare disonore a tutti i morti.
E questo è il caso che, di tante vie
che ci ha d’andare a veder ballar l’orso,
45in bilico tu stai tra ’l no e ’l sie,
ove, al contradio, senza far discorso,
s’ella fusse una morte che piacesse,
te la beresti, come bere un sorso.
Ma, verbi grazia, se qualcun ti desse
50nel petto d’un pugnale, o nelle stiene,
o con un ciotto il capo ti rompesse,
ti par egli una cosa che stia bene,
sporcarti la camicia e ’l giubberello
del sangue che vien fuora delle vene?
55E’ m’è venuto ancora entro al cervello
ch’i’ mi potre’ andare ad annegare;
e questo mi parrebbe un modo bello:
ma quel doversi poi tutto bagnare
que’ pochi panni che tu hai indosso
60non mi finisce ben di contentare.
Mi si potrebbe risponder ch’io posso,
se pure ho di morir pensier veruno,
innanzi tratto trarmeli di dosso:
ma cotesto non m’entra in conto alcuno;
65perch’i’ sono un cotale innocentino
che non vorre’ scandolezzar nessuno.
Ci sarebbe un segreto pellegrino;
cioè ch’i’ mi cacciassi un palo dreto;
ma questo è un morir da saracino:
70oltrecché mi parrebbe un po’ indiscreto
quel non poter mai piú per quella via
trarre un sospir che somigliasse a un peto.
Un altro bel secreto ci saria
che mi potrebbe tórre d’ogn’impaccio;
75e l’abbruciarmi credo che ciò sia:
s’e’ non fosse che qualche ignorantaccio
sarebbe, che direbbe che quel foco
fusse in pena di qualche peccataccio.
Ma questa cosa monterebbe poco,
80ché. se di fummo ci fusse un po’ meno,
non ti so dir se sarebbe un bel giuoco.
E quantunque alcun dica che ’l veleno
sia la piú bella morte che si faccia,
né anche questa mi contenta appieno.
85E la ragion, perch’ella mi dispiaccia,
è che par che tu sii morto perduto;
tanto diforme ti rende la faccia.
Perché ’l vederti nero divenuto,
e gonfio, agli occhi reca tanta noia
90che si vorrebbe piuttosto esser muto.
Or tu, che se’ staggito giá per boia,
Manzoni, vorre’ mo’ che mi dicessi
qualche bel modo di tirar le cuoia,
ma qualche modo che non mi spiacessi;
95e se fusse possibil cosa ancora
che a chi l’adopra mal non gli facessi.
Sovvienimi ch’allor quando la signora
non ti volea veder vivo né morto,
che tu n’andavi in cerca molto allora.
100A quanto però io mi sono accorto,
non potesti far pago il tuo disio,
dappoi ch’i’ vedo che non se’ ancor morto.
Ora, Manzoni, che debb’io fare io,
posciaché dopo tanto affaticarmi
105io non trovo una morte a modo mio?
Sa’ tu quel ch’i’ vo’ far? voglio chetarmi
e soprastare pazientemente,
finché la morte vengh’ella a trovarmi.
Chi sa che, s’ella la mia brama sente,
110non provvegga da sezzo a’ fatti miei,
meglio ch’i’ non fare’ forse al presente?
D’arte si fatta ella ne sa per sei:
in queste cose tiene il principato.
Vo’ far cosí; voglio aspettarla lei,
115In tanto, per mostrar che ti son grato,
quel bel capresto te lo clono a tene;
i’ dico quel ch’avevo apparecchiato;
o ad alcun altro che mi voglia bene.
XCI
PISTOLA
Oh oh vedete s’i’ son pronto a scrivere
a’ cari amici miei, signor Fantastico?
Quattro corsi di luna ancor non compiono
dacché voi ne lasciaste inconsolabile,
5ch’io son tosto da voi con una pistola.
— O buon! — direte: — che maniera nobile
di scusarti gli è questa, Astratto amabile? —
Ma pian, barbier; ché, se vorrete intendere
quel ch’i’ vo’ dir, son certo scuseretemi.
10In primis, quel cotal che preso avevasi
lo ’mpegno di cercar quel prete eccetera,
è andato tutto giorno abbindolandomi
e di oggi in doman sempre traendola,
ch’i’ n’era quasi divenuto sazio.
15Pure alla fine spiattellato dissemi
che ’l prete era impegnato, ed altre chiacchiere,
da far morir di stizza un uom che supplica.
Onde pensar potrete quanti cancheri,
quanti malanni e quante pesti e fistoli
20i’ gli augurassi in sulla testa subito.
Allor m’accorsi io ben di quel proverbio
che dice che costor che troppo abbaiano,
solo di vento il corpo si riempiono.
Quest’è una vera escusazion legittima,
25che vai per quante mai potessi addurvene.
Ma perché voi siete un ser tal difficile
a credere alle prime cacabaldole,
ce ne vorrebbe al meno un’altra simile:
ma, diancin, dove mai la debb’io prendere?
30Eh via! che risoluto son di dirvela.
Dunque sappiate che monna Pigrizia
mi s’è fatta si amica ed amorevole,
che lontano da quella io mai non trovomi;
ed è cosí vezzosa e carezzevole,
35che mi fa tutto imbietolir e struggere.
Oh se voi la vedeste quando giacesi
in letto meco, come stretto pigliami,
e al collo mi s’attacca ed aggavignasi,
eli’ e’ non c’è modo ch’i’ mi possa movere
40Talor mi grappa stanco in s’una seggiola,
e cosí forte per le braccia stringemi,
si che mi scappa di studiar la voglia.
Di mezzo giorno sur un letto sdraiomi
a gambe aperte col civile all’aria,
45ed ella pronta al lato mio si corica,
e mi fa certe carezzoccie amabili
ch’i’ sento andarmi tutto il core in succhio
In sulla sera poi ella dilettasi
di venirsene meco a pigliar aria
50verso la porta che conduce a Bergomo:
onde n’andiamo adagio adagio, dandole
io ’l braccio, e lietamente discorrendola.
E vi so dir ch’eli’è una bella giovane,
ben tarchiata, ritonda c si vermiglia
55che la pare una mela propio propio.
Oh se vedeste come gnene pèrdono
dietro gli occhi coloro che la guatano!
principalmente que’ che sempre stannosi
il giorno intero a scriver negli studii,
60e tutti gli artigian che s’affaticano
nelle botteghe a far lor opre varie!
Né solo i ricchi mercatanti e gli orafi,
ma i facchini, i mugnai, i pizzicagnoli
e tutte queste razze la vorrebbono.
65Or s’io n’ho la ragion, consideratelo,
e se con una compagnia si nobile
poss’io trovar una buon’otta a scrivere.
Or ch’io son certo che perdoneretemi,
non occor ch’io mi fermi in altre chiacchiere,
ché giá fatta ho un’agliata arcigrandissima.
Ma gnaffe, messer no, tacer non voglio,
e, intanto che la Musa in testa frugami,
vo’ cicalar finché mi pare e piacemi,
poiché alla fine tanto se ne sa
a mangiarne uno spicchio quanto un aglio.
Or dite, signor mio, come passatela?
Si va a spasso, si gode, o pur si studia?
Sopra i libri ci vien suso la polvere,
o si rompon leggendoli o si stracciano?
Ho inteso dire che l’Avvento prossimo
ha a toccare a voi a far le prediche.
Bravo bravo, studiate, affaticatevi,
e ’l sapere ch’avete in quel cocuzzolo
mettetelo in palese, dimostratelo,
e sgridate i villani, e convertiteli.
Ma l’ora è tarda, e ’l nostro messer Bagolo
m’aspetta presto a casa colla lettera.
Iddievidielbondie, signor Fantastico;
vi fo una sberrettata profondissima,
e vi bacio la mano dottorevole.
XCII
EGLOGA PESCATORIA
Licone
Dunque, ninfa crudel, dunque a’ miei versi
non vuoi porgere orecchio, e vuoi ch’io péra
con tanto pianto onde il mio volto aspersi?
Ben di natura si maligna e fiera
5son pesci in mar fra i ceti e le balene,
che allor senton piacer quand’uom dispera.
Ben cantali piú gioconde le sirene,
mentre s’avveggon che l’incauto pino
allettato dal canto a lor sen viene.
10E va tanto correndo il bue marino
sopra ’l veloce notator, che ’l vede
provar nell’acque l’ultimo destino.
Ma come tanta crudeltá risiede,
ninfa, in te che non sei di squame cinta,
15e non hai fesso in doppia coda il piede?
Al inen t’avesse il tuo furor sospinta
a saziarti un di del sangue mio
e a lasciar questa vita un giorno estinta.
Ma, lasso, il core hai si crudele e rio,
20che, piú spietata dei marini mostri,
conceder non mi vuoi quel che desio.
Alfine andrò negl’infernali chiostri,
quando sii sazia dei tormenti miei,
e fia ch’a dito allora ognun ti mostri.
25— Costei, — diranno i pescator, — costei
fece morire il misero Licone;
punitela dal cielo, o sommi dèi. —
Vedi Mopso, Dameta e Celadone
ch’amati essendo dalle ninfe loro,
30cantan pe’ liti ognor dolci canzone.
Son io forse men bello di costoro?
Ho pur le luci del color dell’onde,
ho pur le chiome del color dell’oro.
E se nel volto mio non si diffonde
35quel bel vermiglio che la guancia tinge,
per la tua crudeltate egli s’asconde.
Pur nessuno di loro i flutti cinge,
coni’ io, con tante e si diverse reti;
né contra i pesci tanti ferri stringe.
40E sai ben tu se ’l padre mio mi vieti
d’andar col pesce alla cittá sovente;
onde i giorni trarrei felici e lieti,
poich’io compro ora un fiasco, ora un tridente;
e se ’l denaro il genitor mi chiede,
45tosto cento e piú scuse io volgo in mente;
e gli vo raccontando, ed ei se ’l crede,
o che ’l perdei, nel ritornar, per via,
o che mancante il comprator mel diede.
E se non fosse cosí cruda e ria,
50qual meco è sempre, la mia pescatrice,
spesso qualche bel dono anch’ella avria.
Ma come mai, come sperar ciò lice,
se quella fèra impietosir non ponno
tanti sospiri che ’l mio petto elice?
55Quando fia mai quel di che in lieto sonno
riposar mi sia dato, e in me si posi
colui ch’è del mio cor signore e donno?
Ahi! che prima vedrò gl’impetuosi
carabi pace aver colla murena,
60e l’anzie andar co’ labraci spinosi,
pria di state vedrò bianca la mena,
ch’io possa dire un di: — Quest’è quel giorno,
quest’è l’ora ch’io debbo uscir di pena. —
Ben diece volte ha rinnovato il corno
Cinzia dal cominciar de’ miei lamenti;
eppur mai sempre a querelarmi io torno;
o se co’ remi faticosi e lenti
guidando vo la piccioletta barca,
o se distendo la mia rete ai venti;
e non è ninfa cosí al pianger parca
che, nell’udirmi sospirar, non abbia
di lagrime la guancia umida e carca.
Talor mi getto in sulla nuda sabbia,
e vo la nuda terra e i duri sassi
per lo dolor mordendo e per la rabbia.
Né vai che un qualche pescator che passi
pietoso mi sollevi e dia conforto,
perché accrescendo il mio dolor piú vassi,
L’altrier, pensando al mal che in seno io porto,
ahi disperato! fui per affogarmi,
s’un mio compagno non si fosse accorto,
che, veggendomi al Tonde avvicinarmi
in viso smorto e nel guardar travolto,
non so dove lontan venne a menarmi.
E di certo, o crudel, non andrá molto
che in fondo all’acqua estinto mi vedrai,
comunque io siami o disperato o stolto.
E forse allor qualche pietate avrai
del mio misero caso, alfin bagnando
di qualche lagrimetta i tuoi be’ rai.
Ma v’è nel Nilo un fier dragon che, quando
ha divorato l’uomo, al fin sen giace
sopra Tossa spolpate lagrimando.
Né piange, no, la belva aspra e rapace
per pietá; ma perché piú non ritrova
ond’empiere la bocca aspra e vorace.
Tal, s’avverrá che a te dagli occhi piova
stilla di pianto sul mio caso amaro,
ciò non fia per pietá che ’l cor ti mova;
100ma perché del mio strazio a te si caro
non potrai saziar quel fiero petto,
in crudeltá si mostruoso e raro.
Sotto qual clima e sotto quale aspetto
di fiera stella il primo di vedesti,
105e qual tana ti diè la culla e ’l tetto?
Certo in mezzo del mare, empia, nascesti
fra l’orche e le balene e le pistrici,
e dalle poppe loro il latte avesti;
e fra i pesci dell’uomo i piú nemici
110conversasti mai sempre, e l’ariete,
la tuli e lo scorpion ti furo amici.
Ma poss’io perder la piú bella rete,
se non ti penti un di di tanta asprezza,
poiché andate saran l’ore piú liete,
115Allor maledirai la tua fierezza,
e ti dorrai di non avere il frutto
goduto a tempo della tua bellezza.
Empia, ma che farai, poiché distrutto
fia lo splendor che subito si strugge,
120fuori die consumarti in rabbia e’n lutto?
Siccome acciuga al foco, si distrugge
vostra frale beltá, donne superbe,
e com’onda del mar sen passa e fugge.
Abbi dunque pietá delle mi’ acerbe
125pene, o leggiadra pescatrice e bella,
e vieni meco a riposar sull’erbe.
Cosí non ti dirò piú cruda e fella,
né delle fiere o dei marini pesci
piú dura, piú spietata e piú rubella.
130Prendi l’esca e la canna, o bella, ed esci
qui dove io giaccio in su la mia barchetta,
e in quest’acqua i tuo’ rai confondi e mesci.
Qui l’onda pura, cristallina e schietta
a far preda di lucci e di carpioni
135le pescatrici e i pescatori alletta.
Vieni: ho serbato un cestellin d’agoni
ch’in una tratta ho presi sta mattina,
e vo’ che sien, se qui verrai, tuoi doni.
Ma lasso! a che pregar? Costei s’ostina
140tanto contra ili me, quant’io mi doglio;
e sono i preghi miei l’onda marina
che in van batte e ribatte in uno scoglio.
XCIII
EGLOGA PESCATORIA
Sebeto
Or che giá la stagion fiorita e bella
fa tutte intorno rallegrar le cose,
e i pesci e i pescatori allegri e pronti
correndo vanno in questa parte e in quella,
5%%e le lor ninfe di ligustri e rose
sulla riva del mar cingon le fronti;
Ora ch’ogni animai lieto s’abbraccia
col suo compagno in sulle verdi erbette,
e la tenera vite al Tomo appresso
10stretto lo tien con amorose braccia,
%%e di soavi e belle lagrimette
per lo dolce piacere il bagna spesso;
sol io, lontan da’ conosciuti liti,
mesto, dolente, abbandonato e solo,
15la mia perdita piango e la mia ninfa.
Qual’altro pescator fia che s’additi
%%che tante abbia cagion d’amaro duolo,
sia pur di questa o di remota linfa?
Son io Sebeto, il pescator si vivo,
20che in su la spiaggia de la gran sirena
cosí lieto garzon fui giá creduto?
quel che, col suono e col cantar giulivo,
fuori dell’onda in su la secca arena
i piú timidi pesci avria tenuto?
25Son io colui che in pescatóri giochi
sovr’ogn’altro compagno il pregio ottenni
e cli’a ingannar coll’esca e colla rete
i semplicetti pesci avea si pochi
uguali in sulla riva ond’io qua venni?
30O canne, o reti mie, non piú vedrete
il vostro pescatore, e, se ’l vedeste,
non credereste mai che desso i’ sia!
Or vengan pur le grasse tinche a riva
coi lascivetti lucci, e colle preste
35occhiate i persici, ora che la mia
fiocina giace irruginita e priva
d’una man che la spinga, e ’l mio tridente,
fitto laggiú nell’arenoso fondo,
d’alga e di musco si ricopre intorno.
40Ahi misero Sebeto, e chi ti sente
alleviar colla voce il grave pondo
di quel mal che ti preme e notte e giorno?
Questo lito, quest’onda e queste piante
non t’odon giá; ché se potesse udirti
45una cosa insensata, udresti ancora
le scabre selci alla tua voce infrante,
e Tonde algenti, e quest’incolti ed irti
alber’aspri ululati mandar fuora
accompagnando i tuoi tristi lamenti.
50Ma voi, veloci pesci e leggiadretti,
che per quest’acque ognor scherzando andate,
se mai vi face andar piú tardi e lenti
Amor che incende ancora i vostri petti,
abbiate voi del mio dolor pietate.
55Quell’io ch’uri tempo mi credei felice
sovr’ogni pescator che ’n onda peschi,
or sono a tal, colpa d’Amor, ch’io stimo
uom non esser in riva od in pendice,
cui peggio Amor colla sua pania inveschi
60dal principio del core infmo all’imo.
Ove son iti que’ felici giorni,
quando soletto nella mia barchetta
le reti a’ pesci in sul mattin tendea,
senza ch’un labbro o due begli occhi adorni
65mi ferissero il cor d’aspra saetta?
Ben sciolto allora a mio piacer godea
lieto cantando in su le rive amene,
e dolci balli colle ninfe bionde
e co’ leggiadri pescator tessendo
70al suon di corde e d’incerate avene.
Ma poiché Amore il suo velen m’infonde
fin dentro al seno, i’ vo sempre piangendo;
sicch’io non spero di trovar riposo
perfin ch’i pesci di quest’onde fuori
75uscir non veggia, e gir volando intorno.
Poiché i begli occhi e ’l bel viso amoroso
piú non ri veggio, onde n’uscian splendori
che rendean da per tutto un chiaro giorno.
Ben ebbe un cor di fiera tigre o d’orso
80colei ch’ai mondo quel bel lume tolse
che nel mio cor si dolce strai confisse.
Deh perché non correste in suo soccorso,
belle ninfe del mar? Perché non volse
Nettuno il ferro, e l’uccisor trafisse?
85Ma lasso! indarno il mio dolor mortale
vo disfogando ai duri sassi e all’onda
i quai né senso né pietá non hanno:
e ’l mio nemico Amor vieppiú m’assale,
e con vista piú lieta e piú gioconda
90par che si rida del crudel mio danno.
Io starò qui su quest’ignota piaggia
sol fra me rammentando il rio destino,
finché l’aspra mia vita il duol mi tolga:
e se fia mai ch’un di qui a giugner aggia
95qualche buon pescator d’altro confino
fra poche pietre il cener mio raccolga.
Cosí non fia che in riva d’Acheronte
andar mi faccia il rigido nocchiere,
vagando ancor nel sempiterno orrore;
100e ’l mio cadaver sottoposto all’onte
qui non rimanga dell’ingorde fiere,
miserando spettacolo d’amore.
XCIV
EGLOGA PESCATORIA
Nilalga, Alceo, Telgone
meco ti spinge a far tenzon col canto,
con quella voce che gli orecchi spezza?
Alceo. O sublime cantore, e perché tanto
5or t’abbassi a venir meco in contesa,
tu che riporti sovr’ogni altro il vanto?
Nilalga. Il ver tu di’, e s’a te sol vien resa
da’ rozzi pescator la palma, è solo
perch’or l’insania per virtute è presa.
Alceo. 10Il ver tu di’; poiché se in questo suolo
è chi è ranocchio, ed usignuol si stima,
tu se’, per veritá, di quello stuolo.
Nilalga. Or non se’ tu che d’uno scoglio in cima
l’altr’ier cantasti cosí dolcemente
15che mi parevi una stridente lima?
Ben mi sovvien che, sendovi presente
una schiera di rane, sbigottite
saltar tutte nell’acqua prestamente.
Alceo. Or non se’ tu che, le tue voci udite,
20ogni canoro augel presto si tacque,
sendo le piche a cantar teco uscite?
Ben mi sovvien che ’l dolce canto piacque
tanto alle dive che nell’onde stanno,
che crepavan di riso in fondo all’acque.
Nilalga. Si mi sovvien, e non è mica un anno,
che tu togliesti al giovine Licone
due belle canne con aperto inganno.
tu saltasti di barca, ed adirato
30gli corresti vicin con un bastone.
Alceo. Anzi io quelle da lui avea comprato,
e mi ricordo ben che in pagamento
a lui dieci ami ed una lenza ho dato;
ma perché poi non si trovò contento,
35non mi voleva dar le canne; ond’io
gli corsi addosso, e lo colpii sul mento.
Telgone. O giovinetti, e qual folle desio
vi conduce a piatir? Non delle risse
ma del canto esser debbe il parer mio.
Nilalga. Taci, amico: Telgone il ver ci disse;
sien d’altro i nostri versi, e guadagniamo
il bel dono che Cromi a noi prescrisse.
Alceo. Taci pure, Nilalga, e rivolgiamo
i nostri canti a dir l’alma beltate
45della tua ninfa e di colei ch’io bramo.
Nilalga. La pescatrice mia le chiome aurate
propio ha dell’or onde la salpa splende,
e gli occhi rilucenti ha dell’orate.
Alceo. La pescatrice mia le gote accende
50della porpora vaga, e ’l suo bel seno
dell’ombrina il color candido rende.
Nilalga. Per córre i pesci mai non mi vien meno
qualche froda ed astuzia; eppur son stretto
al girar di quel ciglio almo e sereno.
Alceo. Da quel di ch’a nuotare i’ fui costretto,
mai timore non ebbi; eppur m’annego
nel dolce latte di quel bianco petto.
Nilalga. Vien’, pescatrice mia, vieni, ti prego;
io vo’ farti un bel don di due fiscelle:
60vedi che i giunchi io vo torcendo e piego.
Alceo. Vien’, pescatrice mia, vieni: due belle
canne vo’ darti tremule e leggiere:
vedi, son secche, ed han bionda la pelle.
65degli animali mansueti e domi
dipinte sono e delle crude fiere.
Alceo. Io vo’ darti un bel vaso ove giá Cromi,
il vecchio e saggio pescatore, incise
di cento pesci sconosciuti i nomi.
Nilalga. Qui meco un di la donna mia s’assise,
e mi fe’ cerchio del bel braccio al fianco,
e poi mi diede un dolce bacio, e rise.
Allora i pesci al destro lito e al manco
invidiosi corsero e tornáro,
75traendo il dorso faticoso e stanco.
Alceo. Qui un di che insiem le ninfe si laváro,
vidi le membra della donna mia
trasparir nell’umor lucido e chiaro.
Allor le dive deil’ondosa via
80stavan sospese rimirando, e poi
ognuna tinta di rossor partia.
Nilalga. Perciò, se lieti, o bianchi liti, a voi
tornan le tenie molli e i melanuri,
si a quest’ombra torniam lieti ancor noi.
Alceo. Perciò, se i gorghi limpidetti e puri
piacciono al luccio e al presto ghiozzo i sassi,
piacete a noi, bei siti ombrosi e oscuri.
Nilalga. Sante Muse, i miei versi incolti e bassi
ergete si col vostro almo furore,
90sicché cantando il mio compagno io passi.
Alceo. Sante Muse, col vostro almo splendore
si ’l mio canto guidate oscuro e vile
ch’io porti sol di vincitor l’onore.
Telgone. Sien lodi al ciel, che nell’etá senile
95udir mi fa per queste piagge amene
un si tenero canto e si gentile!
O quai candidi cigni, o quai sirene
s’ascoi taro ne’ fiumi oppur nel mare
cantar tai versi con si dolci vene?
o Nereo, padre delle liinpid’onde,
e ben superbo di tai canti andare.
Deh chi mi presta un’onorata fronde
ond’io cinga le chiome ai pescatori
105in cui tal spirto il santo Apollo infonde!
Felici voi, che i vostri lieti amori
vedransi scritti per gli scogli, e d’alga
orneragli ogni ninfa e di bei fiori!
E i pescator, mirando a quanto salga
110anche in povero lito il canto c i versi:
— Qui scrisse Alceo, — diranno, — e qui Nilalga. —
Nilalga. Or su, Telgone, omai devria sapersi
a qual di noi la prima lode apporti
il cantar carmi piú leggiadri e tersi.
Telgone. Combatteste ambidue si alteri e forti
nella lotta gentil, ch’io non saprei
qual sopra l’altro il maggior pregio porti.
Ma perché senza premio andar non dèi,
Alceo si tenga il destinato vaso;
120che tu n’avrai, Nilalga, uno de’ miei.
Nè ti pensar che ’l minor don rimaso,
o pescator, ti sia; perchè vedrai
che forse ancor hai migliorato il caso.
Un picciol nappo di corallo avrai
125che viene infin dall’indica marina,
se ’l ver mi disse quegli onde ’l comprai.
Questo l’ebbe giá in don la mia Lucrina,
e mi ricordo ancor, bench’ei sia molto
ch’io gliel diedi sul lito una mattina.
130Scorger ben puoi che per man dotta è scolto,
poiché tant’opra e tanto studio vedi
in si piccolo spazio essere accolto.
Qui sta intagliato un pescator che in piedi
d’un alto scoglio i bei guizzanti armenti
colla canna e coll’amo avvien che predi.
che la preda raccolgono sul lito,
e poi si stanno a scherzar seco intenti.
Ed eccon’un, che intrepido ed ardito
140un suo compagno stringe pe’ capelli:
perocché innanzi un pesce gli ha rapito.
Qui poscia i piedi candidetti e belli
si stan lavando quattro giovinette,
all’ombra d’una schiera d’arboscelli.
145Sono sedute su le molli erbette,
e colla gonna oltre ’l ginocchio alzata,
mostran le gambe alabastrine e schiette.
In tanto di tritoni una brigata
del mal cauto drappello ed inesperto
150si sta ridendo dopo un sasso, e guata.
Or questo vaso, da maestro esperto
si ben scolpito, o pescator, ti dono;
se non egual delle tue voci al merto,
almeno egual del tuo compagno al dono.