Novelle umoristiche/Dall'Eldorado
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Dall’Eldorado.
I.
Raccogliendo e riprendendo con la sinistra la scarsa barba, dalla tavola a cui sedeva Polla guardava a quanto poteva scorgere del temporale. Passavano di furia i nuvoloni neri: uno ne dilacerò un fulmine. E cominciava a piovere; nè ancora cessava il vento che faceva sbattere le imposte, da Polla lasciate sbattere.
«Oh portasse via la bufera anche la casa! Una tempesta enorme rovesciasse Roma e tutte le città d’Europa! Un ciclone rovinasse, magari, il mondo!»
Non che Polla — il quale amava tutti gli uomini come fratelli e pel quale i borghesi sfruttatori e capitalisti erano non uomini ma belve — si arrovellasse così, in un desiderio di distruzione, per malanimo o per teoria socialista o per lotta di classe: no, no; solo risentiva lui stesso di quel turbamento elettrico e meteorico e, per di più, gli sommoveva pensieri neri come le nuvole, che si aggrappavano nel cielo di contro, un appetito ahi quel dì insaziabile! All’ora infatti in cui i borghesi andavano a desinare, egli restava alla tavola deserta, perchè già pioveva e non aveva ombrello e perchè non aveva un soldo in tasca e non sapeva qual trattore potesse più accoglierlo a credito. Fino a quando?... Ah che appetito! In verità, quel giorno sarebbero appena bastate al suo desiderio una porzione di spaghetti, una di lesso, una di vitello, una di fragole e una bottiglia di barolo, il vino che prediligeva.
Frattanto, di sottovento, la pioggia entrava nella camera con tal impeto e abbondanza che il buon Polla finalmente si alzò per chiudere i vetri. Ed ecco sembrargli che una nuvola più densa, opaca, precipitasse, abbattuta da una ventata, giù, alla volta della sua finestra.... Una nuvola? Arrivava con la velocità d’una palla da cannone e non era una nuvola: un corpo strano, solido, straordinario: un enorme animale!... Oh! Nell’attimo, Polla fece appena in tempo a scampare alla parete, che già piombava nella camera: vi cadde con un tonfo profondo su l’impiantito.... Che cosa? Chi?...
Un condor spaventevole, un pipistrello pauroso? Era un misterioso involto, che, come cosa morta, non si moveva più affatto. Riavendosi però dal primo spavento, invece d’invocare soccorso, il socialista tacque, avanzò; retrocedette. Non era un condor, non era un’aquila, non era un pipistrello! Avviluppata nell’ali che s’erano raccolte al cessare del volo, l’insolita bestia non dava a conoscersi che per le estremità inferiori. Ebbene, Polla si avanzò di nuovo e ruppe in un’esclamazione di meraviglia alla vista di sì fatti piedi e di cosifatte gambe. Quell’animale era un uomo o, alla peggio, una donna volante! Una creatura umana, immota, svenuta o morta al suolo della sua stanza!
Con che cuore egli la volse supina e ne udì battere il cuore (era un uomo)! Con che cuore si sforzò a trascinare e adagiar il miracoloso viaggiatore nel suo lettuccio, dopo averlo spogliato delle fine e seriche ali e della giubba cui stavano connesse! Un uomo non calvo! I capelli lunghi e aurei diffusi su la bianca fronte e la lunga e gentile barba non scemavano giovinezza all’aspetto venerabile; e tutta la persona incuteva tal rispetto di beltà che, non potendo paragonarlo a un angelo, in cui non credeva, il positivista Polla lo paragonò a Adone, se pure Adone aveva la barba. N’esercitava frattanto il sangue al cuore con massaggio; ne spruzzava d’acqua il volto; finchè sospirarono entrambi: l’uomo che ricuperava vita e coscienza, e l’uomo che aveva salvato un fratello, quantunque volante.
Polla disse subito:
— Good day!
No. Era biondo, ma non inglese.
— Guten abend! — Non tedesco.
— Bonjour, monsieur! — Non francese.
— Buenas dies, caballero! — Non spagnolo.
Ricordandosi infine di essere italiano, Polla fece, cortesemente:
— Ben arrivato!
D’un soave sorriso, avvivando gli occhi da prima incerti quali d’uno che davvero sia cascato dalle nuvole, lo straniero mormorò qualche melodiosa incomprensibile parola; poi contorse la bocca a pronunciare una parola di lingua evidentemente non sua; di lingua internazionale.
— Volapuk?...
— Volapuk! — gridò Polla, che dai comizi aveva presa l’abitudine di parlare a voce alta. — Oh, oh! Al vostro paese si studia il volapuk? Non ha attecchito da noi! Non importa. A poco a poco, fratello, c’intenderemo lo stesso! E, ditemi....
Ma o per quel chiasso dell’eloquente socialista, o per il dolore della caduta, o per lo sfinimento di cui era prova il pallido viso, l’infelice forestiero sarebbe svenuto ancora, quando con uno sforzo supremo non avesse rialzato il capo, e stringendo all’estremità le dita della destra, non avesse portata due volte la mano alla bocca mentre lo sguardo aiutava l’espressione del gesto.
— Avete fame? — comprese e chiese Polla. — Poveretto! Anch’io ho fame! Ma io non posso offrirvi che un bicchier d’acqua!
Quasi indovinasse le condizioni economiche dell’ospite, l’altro affrettava un segno della mano verso l’involucro rimasto sul pavimento. E Polla ubbidì. Presso al punto ove ai fianchi dell’arnese (fosse corpetto o giubba) eran fisse le ali, egli avvertì subito due bisacce; nè esitò a introdurvi la mano, quantunque il forestiero già accennasse di tastar più in basso. Ma..., e là cosa c’era? Sentiva un peso non lieve, come di ciottoli, e per accertarsi se era o no la zavorra, introdusse la destra. Questa volta Polla, che non credeva in Dio, che credeva solo nel «fattore economico», esclamò:
— Dio! Non sono pezzi di vetro! Non sono sassi! — Che cosa erano? Che cosa erano?
Erano diamanti, smeraldi, oro! E non un sogno! Ma realtà! Un miracolo! Diamanti! smeraldo! rubini! oro! Fu tale la meraviglia di Polla che attese a lungo prima d’accorgersi come l’infelice girasse e chiudesse gli occhi, e sveniva. Presto, più giù, ove disperatamente il misero aveva volto il cenno, l’ospite trovò un grazioso vasetto piccolo piccolo, che quasi si aperse da sè effondendo un cordiale profumo.... Conteneva roba così buona che ne bastò un pizzico a ristorare d’un tratto dal profondo del cuore, il forestiero estenuato. Il quale poscia offerse il vaso all’amico; sorrise d’un suo dolce e luminoso sorriso; e per riposare reclinò il capo e chiuse gli occhi, non più alla morte, ma al sonno.
Polla aveva fame: aveva sotto gli occhi, sotto il naso, presente alla gola l’«estratto» ch’effondeva quel profumo saporito, ineffabile; eppure non lo toccò, sdegnò ristorarsi anche lui, per tornare all’involucro volatile. Nè riusciva a persuadersi che non sognava; la zavorra era tutta quanta di gemme preziose! E se poteva ingannarsi intorno alla qualità e al prezzo d’alcune delle pietre, su altre non s’ingannava certo. Convinto, alla fine, le depose tutte in terra, in un mucchio, e stette a contemplarle. C’era proprio da impazzire; tanto più che la fatica della contemplazione accresceva la debolezza del digiuno.... E non si risolveva ancora ad approfittar dell’«estratto»! Solo quando si sentì venir meno, allora prese un pizzico di polvere dal vasetto, e parendogli néttare o ambrosia ne prese un secondo, eppoi un terzo, eppoi un quarto, eppoi un quinto; finchè n’ebbe nausea; che quella roba era troppo sostanziosa e focosa. Ma sublime! ma incomparabilmente migliore d’ogni nostro più squisito cibo! Inoltre, a ingoiarla, seguiva un fervore nel sangue, come per un eccitante liquore, e una gran fretta e lucidità di idee e una gran letizia nell’animo.
— «Il tuo è mio!» — cantava Polla tornando alle gemme per raccoglierle e metterne nella sua tasca più d’una. Ma, e se il forestiero non le teneva in conto di ciottoli ed era un borghese? Ebbene, in tal caso, éccogli restituita la sua zavorra! Lui, Polla, non prendeva che uno smeraldo per far moneta, per esercitare secondo conveniva gli uffici dell’ospitalità e provvedere da pranzo non a sè, che non aveva più fame e solo aveva sete di un po’ di barolo, ma all’ospite, che tra poco si sveglierebbe e avrebbe fame e sete. In ogni caso, lo strano uomo dalla strana visita contraeva obbligo di gratitudine, di amicizia, di compenso al disturbo.... Lui, Polla, si prendeva dunque uno smeraldo. Una cosa da niente in confronto al resto! Un ciottolino da non ringraziarne nemmeno la Provvidenza, quand’anche un socialista marxista e inscritto al partito avesse potuto ammettere la Provvidenza.
Dopo di che Polla sarebbe uscito di casa, allegro come mai in vita sua, se al limitare non l’avessero trattenuto queste domande: Lo smeraldo non era troppo grosso e non susciterebbe ingiusti sospetti nel gioielliere? Qualcuno non aveva forse visto entrar là l’uomo volante? Aveva questi un foglio di via? Non ne sapevan nulla le guardie di pubblica sicurezza?
Per tutta risposta, tornò indietro, sollevò giubba e ali; osservò meglio il piccolo e semplice congegno di molle riposte tra seta e fodera e provò di adattarsi quell’abito. Ma dopo inutili tentativi s’avvide che il congegno era guasto; forse irreparabilmente guasto! Gli bisognava restare a terra, restar a Roma. Rassegnandosi, Polla sostituì al grosso smeraldo un men grosso rubino, e dimenticandosi, non di mettere questo in tasca, ma quello nel mucchio, con uno sguardo pieno di gratitudine stette a considerare il forestiero che dormiva dolcemente, senza russare; ad ammirare quell’uomo la cui bellezza assumeva a’ suoi occhi un’imagine bella come nessun’altra mai.
Caro amico! Si rassomigliavano senza dubbio, lor due, quantunque Polla avesse il naso un po’ troppo aquilino, e l’altro l’avesse perfettamente fidiaco; Polla avesse barba scarsa, dura e rossiccia, e l’altro una barba aurea, fine e copiosa; Polla fosse calvo e l’altro capelluto; Polla vestisse nè con garbo nè con grazia, e l’altro indossasse sandali, calzoni e maglia di un’ignota materia che aderiva alle membra e le proteggeva senza impacciarle. Ma a Polla sembrava di vedere sè stesso elevato a una razza superiore, o sè stesso trasferito in un secolo di perfezionamento futuro; e lieto anche di questo, uscì e discese. Si era già accertato che aveva ben chiuso l’uscio a chiave.
II.
Anche l’ambrosia può far male. Polla, di ritorno a casa con una sporta gravida di vettovaglie e con una bottiglia di barolo vecchio, fu costretto a sedersi sul primo gradino della scala per riacquistar lena e rimettersi in equilibrio. Alla testa gli si era diffuso lo spirito di quello squisito estratto, mentre lo stomaco, contraendosi, stentava e soffriva a digerirne la parte soverchia, e l’intestino già cominciava a dolersi di ricevere sostanza sconosciuta e così calorosa. Però, consapevole dell’ebbrezza, Polla non dubitava di non ragionare; anzi credeva di ragionare benissimo, e ora guardando alla bottiglia, ora premendo col braccio il petto e il portafogli, vedeva naturale quella sua avventura quasi inverosimile; gli pareva la cosa più semplice del mondo che un uomo volante fosse stato portato da una corrente aerea fino a Roma e spinto proprio dentro la sua finestra; giudicava agevole ottenere in dono dall’ospite metà almeno delle pietre; pensava che dopo ciò non gli sarebbe più necessario fare il socialista e che se non gli riuscisse d’arrivare, per una via o per l’altra, al paese di quel signore, potrebbe vivere allegramente, conservatore o borghese, anche in Europa. E i compagni? e la promessa fede? e l’aiuto al partito? e la teoria di Marx? e l’evoluzione pacifica? e tutti i problemi economici e sociali? Sciocchezze! Adesso un problema solo aveva da risolvere: in che modo salirebbe fin lassù alla sua stanza, al quarto piano, ahi, con la testa in giro e le viscere commosse.
Nondimeno, e dopo molte pause, vi giunsero sane e salve la sporta e la bottiglia; e lui, senz’altro male che dolori forti come morsi. Ma allorchè intoppava la chiave Polla udì ridere dentro la camera. Aperto che ebbe, lo straniero gli venne incontro con viso di giocondità cordiale e con graziosi inchini.
— Ridete? — gemette Polla abbandonandosi su d’una seggiola. — Io invece sono rovinato! Accidenti...! Mai più estratti! mai più peptoni! — Quindi premendosi con le mani: — Oh che male allo stomaco! — aggiungeva. — Oh che male alla pancia!
— Stomaco?... Pancia?... — ripetè l’altro, che non essendo tanto afflitto dalle doglie dell’amico quanto studioso d’apprenderne e ritenerne il linguaggio, indovinava dagli atti il significato di quelle parole.
— Se provassi — continuava Polla — se provassi a mandar giù un po’ d’acqua, o un sorso di barolo?...
— Barolo? — ripetè lo straniero. E sorridendo alla forma della bottiglia la sollevava e la sturava lui stesso.
Come ebbe bevuto, a sentirsi meglio, il socialista disse:
— Bevetene anche voi! Bevete: è mio e vostro.
Sorseggiando un mezzo bicchiere lo straniero ebbe una grande voluttà; sicchè, con un sospiro, portò una mano al cuore per troppa dolcezza, quale un uomo che non avesse mai gustato vino.
— Mangiate qualche cosa.... — Polla esortava, meglio che a parole, a cenni. — Tanto, io..., per ora almeno..., ahi!... non posso farvi compagnia.
Da qual paese veniva quel signore così intelligente che subito coglieva il significato dei cenni e delle parole e con meravigliosa facilità fonetica ripeteva le parole udite? Era un uomo così straniero che al veder le fragole e le ciliege fuori della sporta, rimase come resterebbe uno di noi a scorgere fragole e ciliege grosse più che cocomeri!
Non si descrivono neppure le espressioni delle labbra, degli occhi e dell’armonico eloquio con cui accertava che mai, mai avrebbe pensato di trovar sì buone quelle fragole così piccole. Anche, non gli spiacque il roastbeef; benchè da prima quasi gli repugnasse e benchè non ne mangiasse più di mezza fetta. Ma le ciliege a dirittura lo deliziarono, lo fecero ingordo al punto da ingoiarne il nocciolo.
Polla, che ora stava peggio, gli raccomandava di mangiare senza complimenti, di mangiar tutto e mormorava:
— Si direbbe che costui non è avvezzo che agli estratti e ai peptoni chimici.
Infatti ogni incitamento divenne inutile, perchè l’altro diede a conoscere che non solo era sazio, ma che aveva mangiato troppo. Sempre cortese, dopo, dimandò:
— Stomaco?... Pancia?...
— Ahi! — rispose Polla, a cui l’ebbrezza soltanto era cessata, non il male.
Per passare il tempo e arricchire la sua cultura l’uomo volante cominciò allora a toccare questa o quella cosa, rallegrato o stupito dalla forma di esse e dai nomi che ai suoi atti di richiesta gli diceva Polla.
— Catino.... Già.... per lavarsi; e quella, sì, la brocchetta dell’acqua.... Sedia! si chiama sedia!... Il letto, appunto, da dormire! Questo?... Comò!; da tenervi i vestiti..., chi ne avesse!
A che l’altro, con prontezza di lingua e di memoria, riepilogando:
— Catino per lavarsi; brocchetta dell’acqua; sedia; letto da dormire; comò da tenervi i vestiti chi ne avesse.
Era proprio un brav’uomo, oltre che bello; e da qualunque parte fosse giunto, per l’ingegno che aveva non poteva essere che un socialista. Pertanto, in un momento di tregua, l’ospite declinò il suo nome.
— Io ho nome Polla, e voi?
— Nome.... Polla? — Non aveva compreso.
— Mi chiamo così! — Poscia, a spiegarsi meglio, finse che uno lo chiamasse «Polla!», e finse di rispondere: «Eh?»
— Io ho nome Edon! — esclamò l’altro avendo compreso bene.
— Fortunatissimo, caro Edon, di offrirvi la mia ospitalità e i miei servigi! — Polla disse, mentre gli prendeva e gli stringeva la mano; senza prevedere che dopo questo atto l’altro correrebbe al catino a lavarsi. Certamente in quel paese non usavano salutarsi in tal modo contrario all’igiene.
....Ripreso l’esercizio di nomenclatura e di lingua vi s’intrattenevano da quasi un’ora, quando Edon, non avendo peranche finito di ridere a veder Polla che accendeva una candela, s’abbandonò sul letto e in puro italiano lamentò:
— Oh che male allo stomaco! Oh che male alla pancia!
Era vero. Come aveva imaginato Polla, egli non era uso che ai cibi chimicamente ridotti, e aveva fatta un’indigestione grave di quel poco cibo nostrano.
Entrambi giacquero perciò fraternamente addolorati, eppur lieti di cominciare a intendersi e di poter chiacchierare con le interruzioni di gastrici ohi ed ahi! Nè è meraviglia se già prima d’addormentarsi Polla ebbe appreso come Edon veniva da un luogo ove tutti gli abitanti volavano, e come era stato rapito dal vento. E poichè i giornali avevano preannunciato un ciclone in viaggio dall’Atlantico, giustamente il socialista pensò che l’amico proveniva da una qualche terra d’America; la quale, abbondando di ciottoli ch’erano smeraldi, rubini, diamanti e pezzi d’oro, doveva essere l’Eldorado.
III.
....— E perchè fuggire da un paese come l’Eldorado?
— Ero infelice — mestamente rispose Edon, e rilevò gli occhi dal vocabolario italiano-volapuk che Polla, la mattina, gli aveva portato a casa e da cui egli in due ore aveva imparato quanto linguaggio basterebbe a certi eruditi professori per uso domestico se non universitario.
Alla risposta dell’amico, Polla s’intenerì. Non potendo credere che in un paese dove per le vie e per i campi tutti potevano raccogliere di quei tali ciottoli, ci fossero divisioni di classi, nè che dove gli uomini volavano ci fossero tiranni e mancasse la libertà, pensò che qualche terribile sventura, fuori dell’ordine economico e politico, avesse colpito l’uomo a lui caro, ormai, più che un fratello; e si propose di tenerlo allegro, distrarlo in ogni modo e, sopratutto, nascondergli i guai della nostra vita civile. «Edon ha cuore — diceva fra sè — ; ha l’intelligenza di un uomo perfetto; dunque per non affliggerlo con suicidi, delitti, miserie e con le carneficine internazionali e i resoconti dei Parlamenti, abolisco i giornali quotidiani!» Gli premeva insomma che, essendo irreparabile l’ordigno per volare, l’amico non scappasse per ferrovia appena fosse deluso e stanco del vecchio mondo e dopo che si fosse accorto del pregio che vi hanno i diamanti, gli smeraldi, i rubini e anche i pezzi d’oro.
Certo, sarebbe stato meglio per ambedue che Edon non apprendesse mai il potere delle gemme e dei quattrini in cui Polla le convertiva; e da bravo amico Polla ci si provò, recandosi lui solo dai gioiellieri con una o due pietre alla volta e piccine, e pagando di nascosto i conti all’albergo nel quale s’erano trasferiti. Ma presto l’altro volle andare in tram, dove curiosamente vide scambiare i soldi coi biglietti.
— Non usano questi da voi? — chiese l’amico con faccia tosta, mostrandogli le monete.
Edon sorrise; negò col capo; cercò di esporre l’ordinamento economico della sua patria. Ivi i quattrini non usavano più da secoli, perchè vi abbondavano i frutti della terra da cui la scienza chimica traeva e riduceva gli alimenti; vi abbondavano inoltre i prodotti del suolo necessari alle arti e alle industrie, sì che ciascuno viveva secondo il proprio bisogno e secondo il proprio desiderio.
Polla era rimasto intontito, quasi a ricevere un colpo di mazza sulla testa.
— Come? — gridò poi. — Non solo ci avete la realtà dell’ideale socialista, ma anche dell’ideale anarchico!
— Ideale socialista?... — ripeteva Edon traendo il vocabolario, — Ideale anarchico? — ; e intanto Polla ricorreva alla difficoltà più grande che aveva incontrata ne’ suoi studi e nella sua fede.
— Dite, dite — domandò: — in che modo vi regolate, voialtri, per la misura del lavoro?
Edon non comprendeva e stava per chiedere più ampia spiegazione, quand’ecco uscì lui pure in un oh! di meraviglia, perchè scorse scintillare la mano di una cocotte che avevano di fronte.
Il socialista era divenuto di bragia in volto, non per pudore. Susurrò in fretta all’orecchio dell’amico:
— È un brillante falso!... È una cocotte.
Ma già lo sguardo di Edon aveva sorpreso in altre mani senza guanti, oro e smeraldi, e fu bell’e fatta; che se gli anelli si portavano per ornamento, avevano un pregio, e se avevano pregio gli anelli, ne avevano anche le pietre; e se per andare in tram erano necessari i soldi, più soldi dovevano essere necessari per adornarsi mani e orecchie.... In conclusione, Polla dovette chiarire l’ordinamento finanziario ed economico del nostro sciagurato paese, e, quasi fosse una bella cosa, permettere all’ingenuo fratello di tornare a casa perchè voleva pietre da cambiare subito in valute!
Ah quanto Polla fu pentito di non aver messo da parte per sè alcuno dei brillanti più grossi! Che colpa essere troppo onesti!
Per fortuna Edon era buono, ingenuo al pari di un bambino, nè avvertì altri guai dopo quello della moneta. Anzi per le strade e per le piazze manifestava una giocondità, una meraviglia, una beatitudine a cui era difficile trovare confronto. Si meravigliava e godeva come noi quando fossimo trasportati d’improvviso in una illustre città al periodo splendido del Rinascimento e vivendo di quella vita, per noi oggi storica e fantastica insieme, conservassimo l’illusione per cui il passato ci sembra più bello del tempo presente, e di quella età conoscessimo i beni senza conoscerne male alcuno. Ora attonito, ora ilare, ora meditabondo a cercare la ragione di una cosa e, trovatala, giulivo ed entusiasta, Edon non si stancava di correr qua e là sebbene non fosse avvezzo a girar molto e quantunque tanto frastuono di ruote e di carri lo stordisse. In estasi a dirittura lo traeva la vista delle signore, così eleganti negli abiti diversi; così agili e provocanti nelle forme; così facili al sorriso nel salutare; così flessuose nell’incedere, così graziose nell’arrestarsi, nel sogguardare, nel porgersi allo sguardo altrui. Commentando l’ammirazione sua propria, che le costringeva a dolci soliloqui, egli con interrotte parole riferiva all’amico che nel suo paese ragioni di pubblica salute avevano privata di grazia la donna abolendo busti e cinture, e che l’igiene v’imponeva una sola e pallida tinta nelle stoffe, e, che, per di più, il perfezionamento della specie aveva condotto il genere femminile a quasi un sol tipo; onde qua da noi gli piacevano fin le brutte. Ma quasi non minore diletto gli dava la vista dei cavalli, il nobile e mite animale espulso d’Eldorado dal progresso meccanico.
— Non ci avete nemmeno asini? — domandò Polla.
— Asini? — Edon consultò il vocabolario.
Più resistenti, di asini ne restava qualcuno anche là. E i tram?
I tram elettrici non gli erano riusciti del tutto nuovi, ricordandosi d’averne visti, sebbene costruiti meglio, nella sua fanciullezza.
Del resto, troppo ci sarebbe a dire intorno le impressioni ch’egli riceveva dalla vita multiforme e molteplice della grande città; dai monumenti storici per noi e quasi preistorici per lui; dalle case e dai palazzi moderni per noi e per lui antichi: basti affermare che un ragazzo venuto di campagna o un barbaro si sarebbe divertito meno.
Ma nessuna sorpresa di Edon doveva superare quella che per Edon medesimo ebbe Polla. Il quale, non potendo accontentare l’amico desideroso di vestire a mo’ d’un ufficiale dei corazzieri o di un ufficiale di cavalleria, il giorno dopo fu costretto a istruirlo intorno agli eserciti permanenti e a rivelargliene i danni con non poche maledizioni tribunizie a tutte le nazioni europee.
Ebbene, Edon, il quale già parlava spiccio (oh che disposizione alle lingue!) ribattè che quella degli eserciti gli sembrava un’istituzione saggia. Aggiunse press’a poco:
— La guerra è nella natura delle cose, degli animali e degli uomini; ma noi d’Eldorado, che abbiamo aboliti gli eserciti, abbiamo violata la natura. Miseri noi!
Polla, che non voleva disgustarlo, si strinse nelle spalle e si limitò a ripetere che gli eserciti costavano troppo.
Invano: l’uomo d’Eldorado era già persuaso che nel costo delle cose, cioè nel comprare e nel vendere, e nell’uso del denaro fosse la più attiva forma di civiltà e di progresso; giudicava che il lavoro a salario fosse proficuo alla «produzione» e alla vita d’un popolo; e ragionava press’a poco così:
— Chi spende di più, è più forte! Chi è più forte, è più potente! Chi è più potente, è più temuto! Chi è più temuto è più glorioso! Chi è più glorioso, è più contento! Beati gli europei! beati voi, o italiani!
Allora Polla, invece d’urlare come nei comizî, tacque; finchè disse:
— Levatemi una curiosità. In che modo vi regolate da voi per lo scambio dei prodotti? Mi spiego: voi che professione esercitavate laggiù..., o lassù?
— Il giardiniere.
— Bella professione! Ma che regola avevate nel dare i fiori in cambio o dei cibi o dei vestiti o degli ordigni per volare? Che regola vi hanno tra loro i commercianti, i professori, gli operai?
Sorridendo alla domanda strana e inutile, rispose Edon:
— L’educazione.
— L’educazione? — urlò Polla.
Già: per educazione lavoravano tutti; per educazione non richiedevano più del ragionevole negli scambi. Ad esempio lui, Edon, che faceva il floricultore, non avrebbe mai voluto da un meccanico più d’un paio d’ali, o più d’una poesia da un poeta, per un mazzo delle sue rarissime rose azzurre.
«Oh povero me! — pensava Polla — in Eldorado sono a tal punto?» In che modo avrebbe dunque potuto illudere e ingannare a lungo nelle belle apparenze della nostra società un uomo disgraziato senza dubbio in famiglia, ma allevato in una società così perfetta?
— A parte le disgrazie domestiche — mormorò il socialista, prima uso a sbraitare, — quali cittadini, voi d’Eldorado, sarete felici.
Non l’avesse mai detto!
— Felici? — gridò Edon a voce alta, rosso in viso quale non era stato mai. — Felici in un paese dove il valore delle cose è determinato dall’educazione? dove la ricchezza non è premio alla fatica? dove non si lavora per guadagnarsi il pane col sudore della fronte? — Si arrestò mormorando a sua volta qualche parola del suo armonioso linguaggio: forse bestemmie, forse insolenze; poi, data un’occhiata al vocabolario per rimettersi, riprese: — In Eldorado è sconosciuto il piacere d’adempiere i propri doveri, la voluttà del sacrificio! L’istinto battagliero dell’uomo vi si è perduto! Mentre voi avete fino i re, i presidenti di repubblica, i pontefici, noi non abbiamo nemmeno i policemen! Oh sì.... la felicità degli uomini è nella disuguaglianza economica, civile, morale!
«È pazzo!» pensò Polla, mentre si mordeva le labbra; e taceva. Egli, che amava le polemiche, era costretto a non discutere, per paura di disgustar l’amico; era costretto a non svelare i mali segreti della nostra misera civiltà. «È matto da legare!»
La sorpresa e la paura del bravo socialista scemavano solo al pensiero che un ignoto dramma domestico avesse turbate le facoltà mentali dell’amico.
Ma l’altro intanto pareva attendere una conferma alla sua sentenza. E allora Polla, non ostante il suo prudente proposito, non potè non sorridere e non dire:
— Io però credo che in Eldorado non si stia male come voi dite. Vorrei andarci!
L’amico lo guardò negli occhi. A vedere che non scherzava, rimase triste e silenzioso. Non parlò più sino a che non rientrarono all’albergo; dove, abbandonando il vocabolario, parlò per chiedere:
— Come chiamate voi uno a cui?... — e fece con la mano un gesto che significava il cervello andato a rovescio.
Polla comprese.
IV.
«Benissimo! — pensava il buon Polla. — Il pazzo sono io che non voglio affliggerlo; che ho vergogna delle nostre colpe sociali; che non lo condurrò mai per gli ospedali e per le carceri!»
Pietoso dell’amico e di sè stesso, a ricordarsi che l’amico doveva avere avuta una terribile sventura e che ora sapeva quante pietre componevano il gruzzolo, non lo conduceva nemmeno ai teatri ove si rappresentavano o i drammi di Ibsen o melodrammi così patetici da far ammattire i savi.
— Al teatro quando ci andiamo? — Edon chiedeva.
E Polla:
— Io non sono robusto come voi. Giriamo troppo il giorno, e mi vien sonno presto.
Era assonnato e stanco all’avemaria. Pure egli promise che se dessero l’Albergo del libero scambio, ve lo accompagnerebbe.
Or mentre il terzo giorno di quella vita fraterna vagavano per le strade udirono avanzare una sinfonia lemme lemme e videro crescere, in distanza, la folla. Polla subito cercò trar via seco l’eldoradese. Ma questi, al contrario, desiderava sapere che cosa ci fosse da vedere.
— No....; andiamo! Non è uno spettacolo per voi.
— Che è? che è?
Rispose un signore molto gentile:
— Un trasporto....
— Un trasporto? — fece Edon, resistendo all’amico che lo tirava per la giacca.
— Sì. Portano un brav’uomo all’ultima dimora. Andiamo!
Ma fu peggio di prima.
— All’ultima dimora?...
Arrabbiandosi, Polla esclamò:
— Al cimitero: non capite?
E il signore:
— È un patriotta che una polmonite ha ucciso in tre giorni.
E Polla, con ira già sarcastica:
— Non usano le polmoniti da voi?
Veramente Edon non aveva notizia di tali malanni. Anzi, alla richiesta se in Eldorado si godesse buona salute, rispose:
— Ottima. Abbiamo, oltre l’igiene, un’acqua pura come l’aria. Poi ai piedi del nostro monte il clima è caldo; a mezza costa, è primavera continua, e freddo in alto; cosicchè a guarire le nostre piccole e rare indisposizioni e a trovar la stagione conveniente per ogni organismo, ci basta mutare residenza e volare di qua o di là.
— Se crederete che da noi le malattie sono molte e gravi — amaramente osservò allora Polla — , se crederete che da noi si muore anche a venti anni, ammetterete che per questo almeno si sta meglio in Eldorado che in Europa.
Ma Edon non si diè vinto.
Disse:
— Mi ricordo che il mio bisnonno viaggiando all’estero una volta s’ammalò, e soleva dire che il maggior piacere della vita si prova nella convalescenza. Ecco un piacere che noi non gustiamo mai. E poi non pensate all’afflizione della scienza che in Eldorado troppo di rado può vantarsi di salvare un uomo?
Il funebre convoglio frattanto si avvicinava: quattro cavalli bardati in nero e coi pennacchi; il cocchiere nero e rigido; fiori su la carrozza e ai lati; e quei signori che reggevano i cordoni con il viso impresso dell’onore meritato; e la turba dietro, fra cui ogni persona pareva compiacersi d’essere vista. Poichè la musica sonava così adagio e tutti camminavano così piano, Edon aveva ragione di credere che tutti amassero di essere visti e di vedere; in particolar modo le signore e le ragazze, delle quali più d’una rispondeva con un sorriso a più d’un sorriso.
Edon, pertanto, allegro e festoso entrò nel corteo, dicendo a Polla che pur troppo al suo paese la morte non meritava alcuna pompa: vi appariva un fenomeno molto semplice; una materiale trasformazione. Da tempo immemorabile gli scienziati vi avevano scoperto il modo di decomporre elettricamente i corpi morti e di restituire le cellule alla natura affinchè le usasse in nuovi uffici. Per la qual fede scientifica non era rimasta in loro alcuna traccia di una esistenza spirituale al di là di quella decomposizione; nè temevano la morte come trapasso a castighi, nè la desideravano come viaggio a miglior vita. Per essi non c’era «ultima dimora». Per essi inutili e ridicole sarebbero state la musica e le lagrime. Imaginarsi poi i discorsi!
E quando la carrozza finalmente fece sosta e un oratore prese a parlare con tutte le forze, Edon si mise in ascolto: approvava anche lui, contentissimo, le più nobili frasi; quali: «il desiderio che l’integro, intemerato cittadino lascia di sè»; il «cavaliere senza macchia e senza paura»; il «benefattore e l’amico dei poveri»; il «patriotta ardente».... «Addio, amico! Che la terra ti sia leggera!»
Finito ch’ebbe il primo, fra un mormorio di assenso unanime, un secondo oratore prendeva la parola. Ma adesso Edon tirò la manica di Polla accennando l’oratore già vuoto che consegnava un foglietto a un giovane salutante a destra e a sinistra.
— Chi è? Perchè? — Edon chiedeva.
Polla rispose:
— È un giornalista; gli ha dato il sunto del discorso.
— Dunque — esclamò Edon — la gloria dei morti giova da voi anche alla gloria dei vivi? — E sospirava; pareva dire: «Proverò io mai il conforto di rammentare al pubblico la virtù d’un amico estinto? Morirete prima voi, Polla?»
Tutti adesso chiacchieravano, perchè il secondo elogio era noioso; mentre Polla, sempre più a disagio, cercava togliere all’amico illusioni inutili: che a lodare un morto non era necessario averlo ben conosciuto in vita; che, in sostanza, le virtù domestiche e civili essendo sempre quelle, le lodi ai morti eran sempre quelle; che non essendo opportuno nell’ora del compianto rammentare vizi e difetti, ma essendo invece di consuetudine i discorsi funebri, si attribuivano molte virtù anche a chi non ne aveva mai avute.
Ah! Edon era quasi fuori di sè per ammirazione.
— Beati voi! Voi potete vivere da birbanti e morire tranquilli; chè i giornali diran bene di voi: voi potete viver bene con la speranza in un futuro premio, o viver male con la speranza del perdono....
Ma d’improvviso l’eldoradese s’interruppe.
— L’Albergo del libero scambio! — fece, accennando a un uomo che tra la folla del trasporto recava al disopra di un’asta quell’annuncio réclame.
— Questa sera a teatro! — aggiungeva Edon fregandosi le mani.
Il socialista cominciava a smarrirsi. Invero, un uomo che si era divertito tanto a una funzione funebre, logicamente poteva rattristarsi a una pochade; e, d’altra parte, se Edon non era rimasto commosso a uno spettacolo di morte, non doveva esser stata la morte di qualche persona cara che l’aveva indotto a fuggire d’Eldorado. Forse il tradimento d’una donna amata?... Ma v’ha pochade senza inganni di donne? E che accadrebbe a tale spettacolo?... Invece che ridere, Edon, forse, s’appassionerebbe....
E Polla balbettò:
— Penso ora che all’Albergo del libero scambio vi scandalizzerete. È una commedia immorale.
A che Edon:
— Bene! Ne sono così stanco, io, dell’arte morale!
Quella sera dunque bisognò andare a teatro.
Povero socialista! Non solo il compagno fu rapito sin dalle prime scene all’azione comica; non solo dopo il primo atto battè le palme sin quasi a scorticarle (nel suo paese non usava) e mostrò d’agitarsi nel vortice del secondo atto, come s’egli medesimo si trovasse a quei casi allegri e a quegli equivoci ameni: al calar della tela, dopo il secondo atto, proclamò:
— Questa è arte!
— A me sembra roba inverosimile — osservava Polla.
— Appunto questo è il bello! Disgraziatamente in Eldorado si ostinano a credere che il bello consista nella rappresentazione del vero! Io credo invece che la vita rappresentata in teatro possa essere piacevole per i ragazzi, che non la conoscono; non per gli uomini e per le donne che non hanno più nulla da imparare.
Polla ascoltava a bocca aperta.
— Aggiungete, amico — l’altro proseguiva — , che la perfezione è noiosa per sè stessa e che la vita in Eldorado è pur troppo quasi perfetta. Imaginate dunque come si sbadiglia nei nostri teatri!
Per fortuna la piccola orchestra, nell’intervallo, cominciò a stonare in tal modo il valzer della Madame Angot che Polla fu costretto a turarsi gli orecchi. Ed ecco che quando scostò le dita, udì Edon mormorare in estasi:
— Questa è musica! — L’amico cantarellava, accompagnando le stonature e stonando allegramente per conto suo.
Non solo! Non solo! Voleva anche giustificarsi!
— La nostra musica suscita desideri incerti, desideri e sensazioni dell’infinito; fa piangere...; fa male. La vostra al contrario, che delizia!
Per non arrabbiarsi, il socialista chiese:
— E in letteratura voi come state?
Risposta:
— La nostra poesia è di una nobile semplicità, non nego; ma così semplice che tutti la capiscono. Si scarseggia pure in aggettivi, pretendendosi dipingere con l’armonia e con la precisione dei vocaboli. Ora io domando a voi se la poesia, che di sua natura è sublime, dev’essere semplice e compresa da tutti e se si può dipingere, fuori della fotografia, senza colore!
— E la pittura? e la scultura?
Questa volta Edon sospirò:
— Non v’ha artista da noi che goda a imitare con l’opera del suo pennello e del suo cervello la divina natura.
— Oh! perchè?
— Noi abbiamo la fotografia a colori e chiunque abbia un po’ di genio artistico può introdurre l’arte nella natura stessa e fare che questa si ritragga da sè. Bel gusto! Della scultura, infine, è inutile parlare. Non ne facciamo uso come fate voi. Nelle nostre scuole s’insegna che non i monumenti ma le opere debbono consacrare l’immortalità, e i grandi morti s’imparano a conoscere nelle scuole, non per le vie e per le piazze.
Interruppe, gridò Polla:
— Voi dunque non avete monumenti?
— No. Nelle nostre piazze e nelle nostre strade non ci sono che case e alberi: perciò non sono amene come le vostre.
A questo punto l’altro si mise a ridere con apparenza insolente.
— Perchè ridete?
— Pensavo al dottor Panglos.
— A chi?
— Al dottor Panglos: un filosofo che trovava tutto bello, tutto a meraviglia....
— Io sono un giardiniere e non un filosofo — disse Edon — e non oso dir tanto. Dico solo che qui da voi si sta meglio che in Eldorado; perchè in Eldorado tanti beni sono cagione di grandissimi mali e qui, al contrario, molti mali sono cagione di grandissimi beni.
— Ma in nome di Dio! — esclamò l’amico non sapendo più quello che si dicesse. — Non siete fuggito di là anche per una sventura domestica?... Quale fu?
I vicini zittirono. La tela si alzava al terzo atto.
E, dolente, Edon mormorò:
— Ve la dirò dopo.... Ora lasciatemi godere.
V.
Sospirando come chi è tratto a ricordare la sua maggiore sventura, Edon cominciò:
— La compagna che io m’ero scelta nella vita, la donna che io amava, la donna che mi amava, era un angelo. Dal giorno del nostro connubio, quasi un anno vivemmo felici; d’una incredibile, divina felicità; quindi, a poco a poco, vivemmo meno bene, finchè la nostra esistenza divenne insopportabile.
Disse Polla, già dolente della sua richiesta inopportuna e dolorosa:
— Non andavate d’accordo...?
Edon gli volse lo sguardo di uno che tema d’essere canzonato.
— Andavamo troppo d’accordo!
E poichè l’amico, a sua volta, lo fissava con sospetto, aggiunse:
— Sì! Eravamo eravamo d’indole e carattere identici; ci amavamo tanto che l’amore aveva soffocato in noi ogni egoismo; aveva distrutta in noi ogni forza d’indipendenza: io viveva per lei, e lei per me; io non potevo vivere senza di lei nemmeno un secondo, e lei non poteva vivere senza di me: così giunse presto il giorno che non potemmo più vivere nessuno dei due.
Era troppo! Pareva a Polla di destarsi come a una rivelazione improvvisa; e rosso, prima, di rabbia; poi giallo di bile, con lo sguardo velato e la voce tremante gridò:
— Finalmente vi ho compreso! Voi scherzate.... Ma con me tutt’al più si discute: non si scherza!
— No, amico: non scherzo.
— Voi mi avete preso in gioco, sempre. Siete entrato perciò dalla mia finestra!
— No, in verità.
— Voi mentite! Siete un «emissario» della borghesia!
Allora, con severità tranquilla, disse Edon:
— Noi in Eldorado non conosciamo l’arte della menzogna. Non dovendo mentire per necessità, cioè per politica, per industria, per commercio, per patriottismo, per la storia, per la gloria, per l’arte e per l’amore (l’amore pur troppo è libero da noi), noi non diciamo bugie neanche per divertimento. Appunto per questo, perchè non seppi ingannare e fingere, la mia vita coniugale doveva essere tanto infelice!
«Pensate che quello che io volevo, la mia compagna voleva; quello che lei voleva, io volevo; e a poco a poco io non volli più nulla, aspettando che volesse lei; e ugualmente faceva lei con me. Imaginatevi un amore senza volontà; una funzione senza affanni, senza virtù, senza conforto. D’altra parte, noi ci leggevamo nell’anima in modo che ogni tentativo di ridestare la fiamma amorosa era inutile; e se io accusavo qualche malanno imaginario per farla soffrire, essa non mi credeva; e s’essa accennava a qualche suo particolare godimento, a qualche suo proprio capriccio per ingelosirmi, io vedeva in lei un inutile sforzo.
«Che noia! Che tedio! Che accidia! Ma voi direte che io avrei potuto dividermi dalla mia compagna; cercarmene un’altra. Ahimè! Da noi le donne, perchè l’amore è libero, sono fedeli; e la mia, per quanto si annoiasse, non credeva di poter trovare un amico mio da preferirmi. Io poi vedendo che le nostre donne si rassomigliano tutte, come già vi dissi, non sperai di trovarne una che mi risparmiasse la noia e la sazietà, e con un supremo sforzo fuggii su le mie ali abbandonandomi ai venti di oltre mare.»
Sopraffatto dagli argomenti di un avversario, più d’una volta Polla aveva dato di piglio a una seggiola e aveva dimostrata con quella la filantropia della sua fede; ma ora stava cheto, a testa bassa. L’altro lo credette in meditazione su gl’inconvenienti dell’amore libero, e proseguì:
— In Europa, per quello che m’imagino, la vita matrimoniale dev’essere deliziosa. Essendo un vincolo il matrimonio, ai coniugi verrà spesso la voglia d’infrangerlo; cosicchè l’uno cercherà ogni via per sedurre e avvincere sempre più l’altro. Il sospetto del tradimento diventerà esca all’amore; mentre non sarà difficile distrarsi, ingannarsi a vicenda, senza che l’uno sappia o mostri sapere dell’altro. Voi, Polla, non prendete moglie?
— Io.... — mormorò Polla, sconfortato, desolato, quasi in tono di chi invoca pietà: — Io.... sono socialista. Predico il libero amore!
Allora Edon, pentito della sua richiesta inopportuna e dolorosa:
— Perdonatemi se vi ho afflitto; perdonatemi, amico, se dopo la vostra confessione, sono obbligato a confessarvi che d’ora innanzi mi vedrete fare l’onesto borghese. In Eldorado non mi ci vedono più! Ma voi non mi abbandonerete, è vero, Polla? Sebbene abbiamo opinioni contrarie, noi staremo allegri; discuteremo; ci godremo i frutti delle mie pietre; e quando io avrò preso moglie (con vincolo, s’intende, civile e religioso), noi vivremo felici tutti e tre.
Povero Polla! «I frutti delle mie pietre» aveva detto Edon: non delle nostre!
VI.
In questo mondaccio europeo sono rare le amicizie che non sussistano o per concordia di opinioni, o più tosto per concordia di affari e di vantaggi. Supponendo che Edon e Polla, oramai troppo discordi in idee, smarrissero le pietre preziose, chi non giudicherebbe naturale la fine della loro consuetudine fraterna? Ma smarrire le pietre non potevano, perchè le custodivano dentro una piccola cassaforte che aprivano ogni sera, traendone a seconda del bisogno più o meno grossi zaffiri, o rubini, o smeraldi, o diamanti, o ciottolini d’oro da convertire in moneta.
Quando, un giorno, dopo aver comperato cavalli e carrozze. Polla di malavoglia brontolò:
— Bisognerà metter mano a qualche bel diamante — e con il consenso dell’amico avanzò verso il ripostiglio della cassaforte. Avanzò; retrocedette; si rivolse pallido come un moribondo; die’ un grido....
La cassa non c’era più!
Nè l’altro aveva ancora mosso palpebra, che già Polla scendeva a precipizio le scale dell’albergo urlando:
— Al ladro! al ladro!
Ma anche il ladro non c’era più. Accorrevano il proprietario dell’albergo, e camerieri, cittadini e forestieri; interrogavano tutti in una volta Edon, il quale si stringeva, sorridendo, nelle spalle; interrogavano Polla che rispondeva con rotte parole:
— La nostra cassaforte!... Questa notte c’era.... Pigliatelo! Pigliatelo! Poveretto me!
Fin le guardie vennero.
Queste, non essendo presente il ladro, esortarono Polla d’accompagnarle in questura; a che egli accondiscese volentieri per timore che non arrestassero lui. E quando tornò, apparve disperato più di prima.
— Ci s’immischia la Pubblica sicurezza — lamentava. — Addio pietre! addio ladri!
A tanta disperazione, rispose Edon:
— Poco male, amico! Anzi un bene; ora per vivere dovremo lavorare! dovremo combattere! Coraggio!... Ora noi vivremo davvero!
In tal guisa fu dato l’ultimo strappo alla pazienza di Polla. Certo che la cassaforte non sarebbe stata ricuperata mai più, egli parlò con sfogo veemente, con sollievo come da un peso; parlò da fiero nemico e vendicatore solenne; da oratore popolare: parlò inoltre con eleganza, per superare Edon che ormai parlava meglio d’un accademico.
— Sciagurato! Stolto! Sappi che qui, in questo mondo civile che tu vedi così bello, qui dove si deruba un ottimista ingenuo come te e si rovina un socialista convinto come me, qui, ai nostri giorni, c’è chi patisce la fame mentre il borghese usurpa la mercede all’operaio; c’è il ragazzo che ammala nell’officina mentre il capitalista presta a usura; c’è la madre senza pane per i suoi figli mentre la dama s’adorna dei diamanti che ci hanno rubati! E c’è la vergine che si prostituisce; e c’è il vizioso che per bruciarsi le viscere con l’acquavite commette lenocini e infamie; e ci sono i forti che deprimono i deboli; e c’è la legge intessuta di cabale e la giustizia cieca e sorda alle ingiustizie e ai soprusi! Qui si vende l’onore! Qui gli onori si comprano! Qui lo sciagurato uccide! Qui l’infelice si uccide!
Dopo di che, non sapeva più che cosa dire.
Ma col suo dolce sorriso Edon ribattè dolcemente:
— Certo: la miseria, il vizio, il delitto, il suicidio sono grandissimi mali. Però non così grandi che non permettano qualche bene. Ditemi: vi pare una gran prova di amore e di fratellanza scambiare senza fatica quattro rose azzurre con un paio d’ali? Ma io imagino la consolazione di un affamato che riceva il pane dal fratello; io non so imaginare il piacere di chi offre il mantello a chi ha freddo. Credete che sia molto meritevole la virtù in chi non ne conosce il rigore e vi s’abitua da ragazzo come a mangiare? Oh il sublime cómpito di piegare il potente a pro del debole! di redimere la donna! di soccorrere il ragazzo! di evitare il delitto! di salvare il disperato! Oh il piacere del vizioso che torna alla virtù, del potente mitigato, della prostituta redenta, dell’omicida perdonato, del suicida....
— Domani...! — interruppe l’altro tendendogli contro il braccio minaccioso. — Domani ti condurrò in Parlamento! A Montecitorio! — urlava. — A Montecitorio! — quasi volesse condurlo all’inferno, o alla fonte di tutti i mali.
Ma Edon non tacque. Disse:
— Grazie. In Eldorado, ove il prato abbonda, le pecore pascono senza fretta, senza angustie, senza litigi; quasi senza far nulla. Sono proprio curioso di conoscere come si governa un popolo che si agita e opera. Domani, finalmente, vedrò e udrò i dibattiti da cui sfavilla l’ingegno, scaturisce la verità, prorompe la civiltà, s’eleva il progresso!
VII.
Quella seduta del 14 giugno, al Parlamento, fu degna di storica memoria e di lagrimevole ricordo. Fu degna di storia, non perchè si dovesse deliberare e si deliberasse una legge intorno all’incremento delle industrie e dei commerci, o alla cultura intellettuale o agricola. Non si doveva trattare che di certe riforme al regolamento; per cui, secondo una parte dell’assemblea, sarebbe possibile discutere senza pericolo di vita, e per cui, secondo l’altra parte, non sarebbe più possibile discutere senza pericolo della libertà. E se perciò tutti o quasi tutti i deputati furono presenti, e i cronisti del giorno dopo riferirono come le tribune erano affollate e come la tribuna delle signore, fresche, a tutte le età, negli abiti estivi e a varie tinte, dava l’imagine d’una smaltata aiuola; neanche per questo rimase una memorabile seduta.
Nè si creda fossero lagrimevoli i discorsi che vi si tennero. Si ebbero appena due oratori: primo, l’onorevole Malchiori; e la sua orazione, quantunque la bella frase «violazione delle garanzie statutarie», vi ricorresse dodici volte, e nove volte l’altra di «sacro diritto della parola», fu interrotta da basta! da uh di protesta e da bravo! in tono ironico; e non potè durare più di mezz’ora.
Quanto all’onorevole Stigliani, egli fu costretto anche a maggior brevità da un suon di tamburi che gli teneva troppo grave bordone e che ottenevano le mani battute sui banchi; onde, invece di piangere, si rideva. E se le sue ultime parole: «....la maggioranza saprà vincere senza violenza, con la ragione, con l’educazione, con la virtù....» suscitarono esse la tempesta, neppure per ciò si dice che quella fu una seduta degna di storia e di compianto.
E nemmeno fu tale per la disgrazia che capitò all’autorità del Presidente. Il quale dopo aver rotti due campanelli, al cominciare delle sfide («Forcaioli!» e «Buffoni!»; «Sanculotti!» e «Sanfedisti!» etc.), comprese difficile sorreggere la dignità dell’Assemblea e allungò la mano a destra.... Invano. Volse la mano a sinistra.... Invano: il cappello, che cercava per coprirsi, era sparito! Un ministeriale credendo certa la vittoria per il Governo quando fosse possibile venire a un voto, s’era tranquillamente seduto al suo scanno con due cappelli su le ginocchia.
Nè, infine, importano alla storia e alla pietà umana i conflitti frequenti e comuni a tutti i parlamenti europei; così piacevoli, del resto, a vedere dall’alto.
A Montecitorio quel giorno si scorgeva e si ammirava una confusa agitazione di teste e di braccia alzate a colpire: una mischia qua e là feroce a corpo a corpo, o di più corpi contro uno. «Vigliacchi! Imbecilli! Addosso! Avanti! Abbasso! Dagli! Prendi! Aiuto! Forza! Oh Dio!» erano le voci mal distinte nel frastuono dell’omerica pugna: occhiali spezzati in terra o sui nasi; strappate catene d’orologio; perdute medaglie. Chi sanguina; chi cade travolto; chi colpisce a tergo; chi si duole; chi fugge; chi ride atrocemente. E dalle tribune, delle quali i campanelli elettrici stentano lo sgombero, le donne gridano piangendo la sorte dei mariti o dei congiunti come un dì le donne corintie, quando nell’anfiteatro della loro città vedevano l’ultima lotta dei loro padri, dei loro mariti, dei loro figli, con i Romani vittoriosi.
Ahimè! Ciò che di quel giorno merita ricordo e lagrime fu invece la morte di un innocente; furono il modo della morte e il nobile e gentile aspetto della vittima.
Edon, da prima, stava benissimo e aveva detto a Polla che molto lo divertiva quella fiera lotta, pur non sapendo se parteggiare per i ministeriali o per gli oppositori; gli parevano tutti uguali.
E si era messo a ridere alle prime contumelie; e a ridere forse troppo, con le mani sul ventre, all’inizio dell’attacco. Ma poi, alle gesta dei pugni e dei calci, gli era accaduto come accade a un ragazzo che veda una tenzone di marionette, e si era abbandonato a un parossismo di riso. Così non aveva avuto più lena all’ultimo colpo: allorchè Polla, travolto nella demenza che da basso s’era diffusa alle tribune, acceso in volto, bieco, feroce, con le braccia contro di lui e i pugni stretti:
— Smettila! — aveva gridato. — Finiscila! asino! farabutto! mascalzone! miserabile!, o ti butto là giù. Smetti di ridere e di godertela, o.... ti strozzo!
A veder quel ceffo d’assassino, a ricevere tali ingiurie da Polla; dal socialista che amava tutti gli uomini come fratelli; dall’intimo amico suo; da colui ch’egli aveva beneficato non poco, Edon era rimasto a bocca aperta, quasi per attingere fiato a una risata anche più clamorosa. Ma aveva avuta un’improvvisa scossa di tutte le fibre; un intoppo del sangue al cuore o un afflusso di sangue al cervello: sbarrati gli occhi, era caduto di fianco....
Morto per eccesso d’ilarità!