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68 dall'eldorado

e luminoso sorriso; e per riposare reclinò il capo e chiuse gli occhi, non più alla morte, ma al sonno.

Polla aveva fame: aveva sotto gli occhi, sotto il naso, presente alla gola l’«estratto» ch’effondeva quel profumo saporito, ineffabile; eppure non lo toccò, sdegnò ristorarsi anche lui, per tornare all’involucro volatile. Nè riusciva a persuadersi che non sognava; la zavorra era tutta quanta di gemme preziose! E se poteva ingannarsi intorno alla qualità e al prezzo d’alcune delle pietre, su altre non s’ingannava certo. Convinto, alla fine, le depose tutte in terra, in un mucchio, e stette a contemplarle. C’era proprio da impazzire; tanto più che la fatica della contemplazione accresceva la debolezza del digiuno.... E non si risolveva ancora ad approfittar dell’«estratto»! Solo quando si sentì venir meno, allora prese un pizzico di polvere dal vasetto, e parendogli néttare o ambrosia ne prese un secondo, eppoi un terzo, eppoi un quarto, eppoi un quinto; finchè n’ebbe nausea; che quella roba era troppo sostanziosa e focosa. Ma sublime! ma incomparabilmente migliore d’ogni nostro più squisito cibo! Inoltre, a ingoiarla, seguiva un fervore nel sangue, come per un eccitante liquore, e una gran fretta e lucidità di idee e una gran letizia nell’animo.

— «Il tuo è mio!» — cantava Polla tornando alle gemme per raccoglierle e metterne nella