Novelle umoristiche/Doni nuziali
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | La giocatrice | Dall'Eldorado | ► |
Doni nuziali.
I.
.... — Gioielli, no; chè a te come a me non piace il lusso; e neanche alla sposa, speriamo. Dunque?
— Ma niente, zio.... Non si disturbi!
— E tu dàlli! Torno a dirti che non voglio sfigurare in faccia a nessuno. Cosa daranno i parenti della sposa, quelli così signori? E i testimoni?
— Ma....
— Eh eh! Me l’imagino: chi la spilla, chi le boccole, chi il monile.... Vedrai...: sciocchezze, grandezze! moda! fumo, insomma! Ma se io avessi preso moglie (non l’ho presa perchè le donne costano), primo patto: fuori di casa i parenti della sposa, i parenti alla moda!
— Già!, chi potesse....
— Niente regali! nessun obbligo, con nessuno! Perchè, si sa, i parenti che non hanno più cuore che quattrini, presto o tardi ti fan scontare le carezze e i regali. Ma io....
— Oh sì! lei è buono; mi ha sempre voluto bene.... — interruppe Terpalli.
— Mio dovere. Dunque?
— Non so....
— Al corredo ci avrà pensato la mamma della sposa; alla mobilia ci hai pensato tu. Scommetto anzi che hai provveduto a tutto, da bravo omino; che non vi manca proprio nulla!
— Ho fatto il possibile...; ma provvedere a tutto..., capirà....
— Ti bisognano tovaglie e salviette? Hanno aperto un bel negozio in via Garibaldi....
— No: grazie; ne abbiamo.
— Seggiole?... Tende?...
— Grazie....
— Che imbroglio, Signore Iddio! Parla! Di’ su! spiegati!
— Faccia lei!... Quel che vuole....
— Quel che voglio? Io non voglio niente, io! L’orologio? l’hai. Vestito, sei vestito.... A meno che non ti bisognasse.... Oh! Vuoi un bel lume?
— Piuttosto...; giacchè lei è così buono, se crede...; se non le par troppo...; anche la Gigia gradirebbe «un servizio da caffè».
Pareva avesse invocata una cosa dell’altro mondo!
— Un servizio da caffè? — esclamò lo zio. — Prendete il caffè voi altri?... Non vi dà ai nervi?
— Ma.... per gl’invitati; per qualche amico che capiti, alle volte....
— Bene bene! Vada per il «servizio»; conforme, però, alle mie povere forze; se vi contenterete....
Contentissimo, Gustavo Terpalli invitò lo zio alla colazione nuziale; lo scongiurò che non mancasse.
Poi quando egli fu giunto di corsa dalla fidanzata, ed ebbe detto a lei e alla madre del casuale incontro con lo zio Tarabusi, tutti e tre scoppiarono in una risata gioconda. Infatti, da che aveva avuta notizia del prossimo matrimonio, lo zio sfuggiva il nipote — al quale, scontroso e timido, rincresceva andare a cercarlo — e per risparmiarsi il dono di nozze si sarebbe nascosto sotterra; quantunque fosse pieghevole ai rispetti umani e sempre dubitasse di apparire avaro come era.
— Figuratevi con che aria mi diceva «me ne rallegro!»; con che inchini ha risposto all’invito della colazione, e con che bocca mi ha detto (e Terpalli boffonchiava): «Grazie! Vedrò..., potendo.»
La fidanzata rideva sino alle lagrime e le sembrava vedere quella faccia nuda e tonda simile a quella d’un comico, e il lungo soprabito, e gl’inchini....
— E figuratevi come è diventato rosso a udire chi sono i vostri parenti. «Ah ah! signori!... signoroni!»
— E il regalo? — domandò la mamma.
— L’ha proposto lui!
— Lui?
— Lui? Che cosa?
— Eh! dopo mia lunga tiritera..., per non cascare in cose di troppo costo..., ha offerto.... un lume!
La Gigia battè le mani.
— Io invece mi son fatto coraggio e gli ho domandato un «servizio da caffè».
— Bravo! — esclamò la Gigia. — È meglio! molto meglio!
Ma la madre scosse il capo.
— No. Era meglio il lume.
— Scusi — ribattè Gustavo —; ieri sera non diceva anche lei che il «servizio da caffè» ci sarebbe necessario? Chi deve pensare a regalarcelo?
— Una bella lampada nel salottino ci vuole: l’ho detto sempre — insisteva la vecchia. — Adesso è fatta....
— La compreremo. No e sì. Comprerebbero piuttosto due candelabri. Sì e no. Ma l’orologio avvertì Gustavo che era trascorsa l’ora, perchè aveva perduto tempo con lo zio.
— Addio, Gigia; addio, mamma....
E via.
.... Povero e bravo Terpalli! La buona volontà, la nativa tendenza ai protocolli e ai libri mastri, la mano calligrafica e il bisogno gli consentivano poco più di mezz’ora ogni giorno e di un’ora ogni sera agli amorosi colloqui con la sposa e con la suocera. Oggidì quanti giovani potrebbero enumerarsi che stiano dalle nove alle quindici in un ufficio comunale; poi dalle sedici alle diciotto e quindi dalle venti alle ventidue in un ufficio privato, ove senz’astio, tranquillamente, sommare rendite e spese d’un conte milionario? A un uomo che si sottoponga a così disumano lavoro e che non scorga al suo termine una oasi o un giardino fiorito, non la gloria, non la ricchezza, ma sempre cammini con passo uguale per una pianura uguale sempre, per un deserto lungo una vita intera, a un tal uomo non basta il conforto di fumare qualche sigaro. Troppo poco! Era destino che Gustavo Terpalli si ammogliasse. E, per economia, egli smise anche il vizio di fumare; e guai per lui se non fosse incappato in una donnina savia: Ma in fatto di mogli la fortuna, che in altri generi talvolta sembra parziale per i birbanti, è imparziale e davvero cieca con tutti. Terpalli aveva potuto chiamarsi fortunato e restare un onesto ragazzo quand’era venuto ad alloggiare in casa d’una umile vedova, la cui soave figliola sentiva volare il tempo senza speranze di nozze e di vita.
Proprio la ragazza adatta a lui! Egli era magrolino e timido d’animo come di baffi, che radi radi sotto il naso acquistavano un po’ più di vigore solo agli angoli della bocca; e la Gigia era piccolotta e grassoccia, molto timida fuori di casa, e con un po’ di peluria anche lei agli angoli delle labbra. Finchè, un bel giorno, alla dimanda della vedova: — Perchè non prende moglie, signor Terpalli? —, egli aveva risposto guardando alla figliola:
— Ci penso spesso, all’ufficio. E lei? (Non osava dire «signorina».)
La ragazza era arrossita sino alla gola ridendo commossa, eccitata dal suo stesso pensiero che le occhiate patetiche e fuggevoli del giovane, nei dì addietro, non dissimulassero un inganno; e, poverina, per trarsi d’impaccio e giustificare quel riso disse una stupidaggine:
— Se ci penso.... all’ufficio?
Parve una canzonatura; per cui Terpalli, un po’ permaloso, aveva scosse le spalle e tenuto il broncio quasi una settimana. Dopo, si pacificarono con nuove occhiate; e poi la dimanda alla madre, e l’assenso.
Ed era una consolazione a vederli, quei ragazzi; così di rado la fortuna aiuta con indulgenza e prontezza due cuori a intendersi e ad appagarsi pienamente l’uno dell’altro. Che se l’amore buono è interpretazione, chiaroveggenza reciproca, presentimento e consentimento, è telepatia, l’amore della Gigia e di Gustavo Terpalli era un perfetto amore. Pensava l’uno durante le ore d’ufficio:
«Cosa farà adesso?... Adesso ripulisce i miei panni; aiuta la mamma a spolverare». Oppure: «Cuce per il corredo; discorre con la sarta». Oppure: «Attende al desinare.... Batte il prezzemolo.... Ohi ohi!: affacciatasi per caso, un momento, alla finestra, un giovanotto la guarda...; e lei, via!; scappa. È un angelo!»
E l’altra pensava:
«Cosa farà?... Mette lettere a protocollo; registra un atto; esaurisce una pratica; sbriga un importuno.... Oh Dio! Scrive per il conte, di nascosto, tanta ha voglia di spicciarsi stasera.... Ma se lo sorprende il capufficio?... Ecco, ecco: lo sorprende, lo sgrida!...» — E accadde che un giorno Gustavo si sforzasse a contener l’ira a cui l’aveva acceso il capufficio, perchè la Gigia lo quetasse e l’esortasse a non infrangere mai più, per amor suo, alcuna regola; ed accadde che con la mite cattiveria delle ragazze ingenue e buone la Gigia un giorno raccontasse a Gustavo:
— Oggi, sai, mi sono affacciata un momento alla finestra, e passava un bel giovinotto.... — Per gioco si bisticciavano, talora, quei figlioli: e la mamma li lasciava fare guatandoli felice.
Non mancavano tuttavia i gravi pensieri; le spese per allestire la nuova casa. A provvederla di solo quanto era necessario, e non superfluo, non sarebbero bastati a Terpalli i risparmi di due anni, se la mamma non gli fosse venuta in soccorso con tutto il suo avere; e per le cose superflue — di assoluta necessità, una volta provviste le altre — lasciarono l’incarico al caso nella consuetudine dei doni nuziali.
Uno specchio per il salotto; una lampada da appendere, o due candelabri; uno o due vasi giapponesi, di quelli in cui si gettano, sparsi, fiori e penne; un bell’«album» da ritratti e un cofano, alla moda, per i biglietti, eran tutte cose che premevano. Seguivano, soltanto desiderabili, sei posate in luogo di quelle comuni ereditate dalla mamma; e forse d’un «servizio da caffè» non avrebbero potuto fare a meno neppure se Gustavo non si fosse imbattuto in quell’ipocrita dello zio Tarabusi.
II.
Questi, subito, quasi avesse fretta di levarsi un peso d’addosso, mandò un «servizio» di sei tazze, poh! abbastanza fine: Ginori di seconda qualità.
— Di terza, di terza! — mormorò la mamma, meno paga e sempre astiosa con l’ipocrita e avaro donatore. Ma — A caval donato.... — aggiungeva per suo stesso conforto.
Quanto agli altri regali desiderati e attesi: nessuno; e quale rabbia allorchè una prozia e una cugina, su la cui intelligenza s’era fatto assegnamento, inviarono la prima un ombrello di raso paonazzo e la seconda un astuccio per guanti! Stupide! La Gigia era forse una donna più da passeggio che da casa? Chi regalerebbe ora il cofano, i candelabri o il lume, lo specchio e l’album? Forse la zia paterna, ch’era ricca assai, manderebbe alla sposa le posate? Forse lo zio paterno manderebbe i vasi giapponesi?
.... — Vostro zio? — domandava Terpalli ogni volta che rincasava, facendo quattro gradini alla volta.
Sì! Lo zio materno — a loro che avevano rinunciato al viaggio di nozze — regalò.... una borsa da viaggio!
.... — La zia?
Un monile bello, assai bello, regalò la zia; ma la Gigia avrebbe preferita qualche cosa di più utile sebbene di minor prezzo; avrebbe preferito restar disadorna lei a lasciar il salotto disadorno, nudo.
Nè le amiche poterono far molto: un libro da messa; una scatola di profumi; cinque metri di pizzo; un cuscino da sofà; un portafogli ricamato all’antica....
Quand’ecco, alla vigilia del gran giorno, la mamma su la scala venne incontro a Terpalli più che desolata, irosa e sbuffante. Una combinazione incredibile! La signora Tecla, antica loro conoscente, memore d’aver visto nascere la Gigia, aveva pensato a un regaluccio: e aveva pensato proprio a.... un «servizio da caffè»! A guardare la faccia della mamma mentre diceva: — Eh! che ne dite? —, Gustavo credè leggervi come un’accusa di complicità sua col caso; e provò tal pena a veder lagrimosa la Gigia mentre essa diceva: — Si può essere più disgraziati? — che si sforzò a ridere, da uomo di spirito.
— Faremo così: quello di mio zio — disse — l’useremo per romperlo; e quello della signora Tecla lo metteremo nel salotto per conservarlo.
— Già: sulla tavola, con l’ombrello aperto! e, sotto, la borsa, il libro da messa, la scatola di profumi e il cuscino! Che bel salotto! — esclamò la Gigia.
Propose Gustavo:
— Perchè non avvertire la signora Tecla? Potrebbe ottenere qualche cosa in cambio, dal negoziante.
— Oh io non m’attento! — borbottò la mamma.
E la figliola:
— Nemmeno io!
— Dunque si tiene il secondo «servizio» e si ringrazia! — disse Terpalli, al quale rincrebbero il broncio della vecchia e l’ironia della sposa.
— Lo butterei dalla finestra! — esclamò la Gigia, alla quale per contro rincresceva l’indifferenza ostentata dallo sposo.
— Ma la colpa è vostra! — esclamò la mamma, che il riso del genero aveva inviperita.
— Che colpa?
La vecchia tacque; poi sospirò e borbottò:
— E siete senza parenti; non avete che quell’avaro gesuita!
— Colpa mia? — Gustavo dimandava. — Colpa mia? — ripeteva.
Presentendo il litigio, la ragazza pregò:
— Zitti! basta!
— Se non ho parenti, ho degli amici — asserì lo sposo. — Ho i colleghi!
Allora la signora Clotilde si mise a ridere lei.
— I colleghi? Un mazzo di fiori e tanti saluti! Un bouquet, come daranno i vostri testimoni; e ciao!
— E il conte? Perchè è in viaggio credete si dimentichi?... Mi vuol bene, lui!
Terpalli l’aveva ricordato per il colpo finale. Il signor conte non solo non si dimenticherebbe, ma spedirebbe o le posate o lo specchio.
— Vedrete!
Questa la sua fede.
— Il conte? — ribattè la mamma rivelandosi del tutto suocera. — Neanche un biglietto vi manda! Ci scommetto!
— Forse sì e forse no.
— Oh che pretendereste da lui? Cosa può regalare a un impiegato così.... modesto come voi?
— Il lume! — rispose in modo di canzonatura Gustavo.
Frattanto la Gigia pregava:
— Smettetela; finitela....
— Il lume dovevate chiederlo a quel tanghero; e adesso non avreste due «servizi da caffè!»
— Ma sono un profeta, io? — urlò Terpalli.
— Profeta, no; timido, sì.
.... — Mamma! Gustavo!
— Timido?
— Timidissimo! Avete avuto paura d’obbligarvi troppo con vostro zio, e gli avete domandato quel che costa meno!
— Sissignora! E ho fatto uno sforzo a domandare anche così poco!
— Ma Dio vi ha castigato! Chi non si aiuta..., mio marito lo diceva sempre, muore senza aver goduta una zuppa calda!
— Mio marito — grugniva Gustavo senza attendere alla Gigia che lo tirava per la giacca. — Sempre «mio marito»! Lui, lui sapeva stare al mondo!
— Ah, meglio di voi, signorino!
— Infatti....
.... E la Gigia scoppiò in pianto. E lo sposo afferrò il cappello, e scappò via.
— Gustavo! Gustavo!
— Mio marito era un uomo! — la suocera gli gridava dietro. — Si può dir forte: era un uomo lui! Se fu disgraziato....
Insomma, la buona donna aveva bisogno di sfogare un gran malumore; e la buona figliola ebbe ragione di gemere:
— Il cuore me lo diceva che eravamo troppo felici!
III.
ALLA CITTÀ DI PARIGI.
Grande assortimento di orologi e sveglie.
Novità in ogni genere.
Bijouteria — Chincaglieria — Argento christofle.
Revolvers e fucili.
Emporium per regali — giocattoli.
Il commesso s’inchinò ai tre signori, che entrando l’uno dopo l’altro gettarono uno sguardo intorno, come per sorprendere un oggetto e riposarvi il pensiero incerto; quindi, dopo i tre inchini, chiese:
— Desiderano?
— Un regalo per nozze.
— S’accomodino. Ne abbiamo di tutte le sorta.
Infatti troppe cose attiravan l’occhio là dentro. Per di più, Bonariva, Sandri e Guizzi, quantunque d’accordo a spendere poco in cosa che desse apparenza di molta spesa, erano discordi nel dono da scegliere.
— Se prendessimo.... un tavolino da lavoro, per la sposa? — suggerì primo Bonariva; quantunque poco lieto lui stesso della proposta.
— Ti pare? — esclamò Sandri. — Tocca farli ai parenti cotesti regali da buona famiglia! Tocca alle amiche della sposa.
— Piuttosto due vasi — proponeva Guizzi.
— Vasi di vero Giappone, o d’imitazione tedesca.... Da trecento lire a quindici. Vedano.... — Così dicendo il commesso accennava a quelli da trecento lire.
— Ce ne mostri da venti — rispose Guizzi, intanto che Bonariva disapprovava col capo.
— Belli, eh? Mi piacciono. — Piacevano anche a Sandri, e costavano poco.
— Osservo — disse Bonariva — che i vasi sono pericolosi....
— Già, se vanno in terra....
— No, non per questo! Chi non sa che cosa regalare, regala due vasi, sempre: c’è il pericolo d’una combinazione.
Nè Sandri poteva dargli torto. Guizzi allora mutò consiglio.
— Prendiamo uno specchio.
— Peggio! Credi che non l’abbiano uno specchio?
— Ma bello; per il salotto.
— Che! Non son gente da salotto!
— Veramente sarebbe meglio conciliare il bello con l’utile — mormorava Sandri.
E a lui il commesso:
— Un nécessaire da viaggio?... Un lavabo?
— No, no. — Bonariva insisteva per qualche cosa di più utile e di meno comune.
— Un astuccio per guanti? un cofanetto? Sono di moda; servono a tanti usi! Guardino questo: dorato a fuoco. Resterà tale e quale cent’anni.
— Perchè no? — Guizzi quasi quasi.... Ma Bonariva scoteva il capo.
— Costa? — domandò Sandri.
— Ottanta lire!
— Ahi!
— Un calamaio?... un portafogli?... un fermacarte? un portabiglietti?
— Io torno alla mia prima idea — Sandri disse — : un bell’album con i nostri ritratti....
— È pericoloso! Potrebbe indur la sposa in tentazione — fece Bonariva, mentre Guizzi, per gusto suo, maneggiava e considerava un bastone dal pomo cesellato, e diceva:
— Vuoi che non l’abbiano un album?
— Eppoi, io non l’ho neanche il ritratto! — aggiunse Bonariva. Quand’ecco, a sollevare o a distrarre la pazienza del commesso, entrò una signora. I tre rimasero così a guardarsi in viso, con un’aria di tacito e vicendevole rimprovero; finchè uno chiese a un secondo giovane del negozio:
— Cos’è quell’affare là, di vetro?
— Un portafiori in cristallo di Boemia: stupendo! Se vuole....
— No, no! È troppo bello!
Guizzi adesso mormorava:
— Non abbiamo pensato a un ventaglio.... — Quasi a sì bella idea fosse possibile il consenso degli amici!
— Ohibò!...
— Si regalano alle signore che non si maritano, i ventagli!
— Dunque?
Parlava il giovine:
— Scusino.... Vogliono fare un dono cumulativo?
— Cioè?
Ah, l’aveva avuta lui l’idea buona!
— Dodici posate d’argento Christofle...?
— Troppo, troppo!
— Sei, allora....
— Poco: troppo poco!
— Poi le avranno già le posate! — Sandri ripeteva.
Proseguiva il commesso:
— Oggetti di toilette? Candelabri?...
— Un lume! — esclamò Bonariva alla fine, contento. Se non che Guizzi si mise a ridere.
— Un lume! Gli amici che mandano il lume! — E al commesso che proponeva: — Un orologio? una sveglia? — , rispose: — Da sveglia farà la sposa: non dubiti!
Così fu eccitato il riso anche in Bonariva, che quando cominciava non la smetteva più. Disse Bonariva:
— Prendiamo un organetto, o un’armonica per calmare la signora dopo la luna di miele!
A che Guizzi:
— Sarebbe meglio un revolver!
Ma Sandri, avendo moglie, ammonì con un’occhiata i colleghi ad essere seri. Anche, li rimproverò:
— Se aveste dato retta a me e avessimo chiesto allo sposo che cosa gradirebbe....
Perchè non sapevano proprio che cosa scegliere.
IV.
Impazienza, ira e litigi promuovono le piccole sventure; non le grandi, le quali abbattono quanti ne sono colpiti in un pietoso filantropico accordo.
— Che volete farci? — mormorava la sonora Clotilde dinanzi al terzo «servizio da caffè» e alla muta desolazione dei fidanzati. — Buon viso a cattiva fortuna, figlioli!
Disse finalmente Gustavo:
— Dimani bisognerà ridere; ingoiare la rabbia; fingere che niente sia; se no, ci metteranno su le ventole!
— Sarà bene avvertirli prima, gl’invitati, perchè si meraviglino meno — disse la Gigia, finalmente.
Non era possibile, infatti, nascondere i due primi «servizi», il donatore e la donatrice essendo invitati alla colazione; e non volendosi sottrarre il terzo, quello dei colleghi, che appariva, al confronto, magnifico. Per suprema ironia era magnifico!
Nè il domani mattina alla funzione nuziale, in chiesa prima e dopo al municipio, fu alcuno che al vedere la sposa un po’ turbata, un po’ troppo smorta, non ne ammirasse la commozione del solenne ufficio che si compieva, il verginale panico per il solenne sacrificio a cui era condotta, il trepido cuore per l’amore che la beava: nessuno ci fu che pensasse a un estraneo disturbo di tanta felicità. La poverina aveva, insistente, la visione d’un collegio di chicchere vigilate da matrone, che erano le caffettiere e le zuccheriere. Quanto allo sposo, avanti di arrivare a casa, rivelò a un testimonio una sola causa di cruccio: l’ingratitudine del conte.
— Nemmeno un biglietto! E son dieci anni che lavoro per lui senza aumento di stipendio!
— Pensate — aggiungeva — che ogni volta che capitava in ufficio era sempre lì a dirmi: «Terpallino.... Gustavino....: quando la facciamo la corbelleria?»
— Dov’è adesso? — chiese uno.
— A Firenze col maestro di casa, che mi promise di rinfrescargli la memoria.... Ma sì!...
Esclamò uno dei testimoni, che era socialista: — Tutti uguali i nobili! — L’altro, moderato, tacque.
Avanti d’entrare in casa, Terpalli s’arrestò dicendo:
— Ora vedrete i tre «servizi»!
Tanta serenità e disinvoltura indussero tutti a ridere: anche la sposa e la mamma; anche gli invitati che attendevano, e quelli che sopraggiunsero; toltane, s’intende, la vecchia amica signora Tecla, a cui il suo «servizio» sembrava il più brutto dei tre, e s’arrovellava a valutare gli altri due.
— Che caso! — Oh che caso!
— Sono casi però che fanno rabbia — disse lo zio materno.
— Son brutti scherzi del destino! — esclamò un secondo. — Una cosa che non si crederebbe! — borbottava un terzo; di guisa che l’ilarità diveniva compianto sincero nell’attesa della colazione.
— A tavola! a tavola! — chiamò la mamma.
— Chi manca?
Mancava lo zio di Gustavo. Ma lindo, nitido, sorridente, senza peli, con una impressione di maschera benevola su la faccia tonda, eccolo, lo zio Tarabusi.
— Fortunato!... felice!... Stieno comodi — rispondeva alle presentazioni, dopo aver baciata su la fronte la sposa, la «cara figliola». — Oh caro: oh! carissimo! — diceva a quelli che conosceva. — Tanto, tanto piacere! — ripeteva alle nuove conoscenze.... Finchè diede una sbirciatina alla tavola dei regali. — To’! quante chicchere! Pare un reggimento di fanteria....
— Eh, zio: che ne dice? — Raccontavano la storia.
— Oh bella! bellissima!... Ma se io avessi potuto prevedere.... Oh senti — aggiunse con quella sua bocca melliflua, traendo a sè lo sposo. Quindi a bassa voce: — Sai? debbo partire...: alle dieci e trenta per Modena....
— Come?
Più piano.
— Eh!... Bella figura m’hai fatta fare!...
— Ma..., zio....
— Dovevi avvertirmi...; tuo dovere.... I confronti sono odiosi.
— Creda....
— Dovevi avvertirmi!
Ogni preghiera fu inutile. Tornò mellifluo tra gli altri.
— Dicevo qui, a Gustavo, che non posso trattenermi.... Mi scusino.... Debbo partire.... per Modena: alle dieci e trenta. Mi scuseranno tutti questi signori....
— Rimanga, zio!
— Resti, signor Tarabusi!
— Diavolo!..., signor Tarabusi!
.... — Non posso, davvero.... Sposina, i miei auguri!
— Due confetti, zio....
— Grazie....
— Il caffè, zio? Un goccio di caffè, almeno...?
Offrire il caffè a lui (in quale delle chicchere?) sarebbe stato un grave insulto, se lo zio non avesse compatito il nipote come uno che avendo preso moglie aveva perduta la testa, e se Gustavo non si fosse corretto subito:
— Un cognac, almeno...?
— Bevo di rado cognac... Grazie.... Un’altra volta, caro. Addio! riverisco! addio! Stiano bene.... tutti! — E con un nuovo inchino e un: — Evviva gli sposi! — quel Tarabusi se ne andò.
.... La colazione nondimeno procedè benissimo. Vini e liquori dissiparono ogni ombra dall’anima della sposa, rapirono allo sposo il ricordo dello zio e dell’ingrato conte; avvivaron giocondità e malizia nelle giovani donne; suggerirono motti agli uomini, e bei racconti. Quando, d’improvviso, squillò il campanello. Chi mai?
Alla Gigia era sobbalzato il cuore. E Gustavo correva alla porta gridando:
— Il conte! — Un telegramma forse?..., o il regalo?... — Il conte!... — Il conte.... senza dubbio!
— Oooh!... — fecero tutti, vòlti al facchino dell’agenzia che veniva a deporre una cassetta.
— Viva il conte! — Su la cassetta era scritto fragile; la sposa vi teneva lo sguardo smorto.
— Presto! un martello, un coltello! — Con una lama da interporre alle assicelle del coperchio Gustavo tornò dalla cucina; mentre il testimone socialista gridava:
— Il primo aristocratico galantuomo che conosco!
— Oh ce ne sono! — ribatteva il testimone moderato. — E di cuore!
— Se vuol bene a Gustavo, Gustavo se lo merita: ecco tutto! — osservava un altro.
— Non dico; ma....
— Viva il conte! Viva il conte!
Crac fece l’assicella allo sforzo di Gustavo. Allora tutti tacquero, ansiosi, nell’attesa che la cassa fosse aperta interamente. Ma perchè la cugina aveva scambiato uno sguardo d’intelligenza col socialista, quasi a un vicendevole ridevole dubbio? Perchè lo zio paterno tabaccava adagio, quasi a togliersi d’imbarazzo? Perchè il testimonio moderato fumava in fretta guatando alle donne; e la mamma e l’amica Tecla tenevan gli occhi su la sposa come temessero d’uno svenimento? Quale idea uscita di mente alla sposa o dalla cassetta, e venuta in mente a tutti, accresceva l’ansia e dipingeva nel viso di chi più avrebbe dovuto esser felice il terrore d’un malefizio, e accendeva negli occhi degli altri una perfida speranza di lunghe risa? Gravava un destino assurdo o tremendo su quella cassa, su quelle anime?...
Lo sposo — crac — con l’angustia di quando, ancora in preda a un sogno funesto, si ricorre, nel destarsi, alla vita, sollevò del tutto il coperchio....