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da mio padre, domandandogliela in versi. Ecco dunque il primo quadernario, che schiccherai, di quattordici versi, ch’io osai chiamare «sonetto» :

Mandatemi, vi prego, o padre mio, quindici soldi o venti, se potete, e la cetera in man pigliar vogl’io, per le lodi cantar delle monete.

Aveva io appena finito quest’ultimo verso, quand’odo dietro alle spalle un grandissimo scroscio di riso, per lo quale volgendo il capo, veggomi a tergo l’amico Colombo, che mostrava aver letto i miei versi, che, sul tuono che gli orbi cantano per le strade d’Italia, modulava, sempre ridendo, l’ultimo di quelli, e che imitava col movimento delle dita lo strimpellamento del colascione. Piansi di vergogna e di rabbia ; e per piú di tre giorni non parlai né guardai in faccia Colombo, che tuttavia seguitava maliziosamente a cantar alla foggia de’ ciechi il mio verso e a mettersi in attitudine di strimpellare. Dopo avermi cosi tormentato per qualche tempo, fu il primo egli ad incoraggiarmi a novelle prove, e! io gli promisi di farle. Mi feci allora a leggere ed a studiare con tanto fervore i buoni autori di nostra lingua, che non pensava piu né a cibo né a sonno, non che a quegli ozi e trastulli, che sono naturalmente si cari a’ giovani, e per cui si spesso si perde il frutto de’ piú conspicui talenti. Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso furono i miei primi maestri : aveva imparato a memoria in meno di sei mesi quasi tutto P Inferno del primo, tutti i migliori sonetti del secondo, e non poche delle sue canzoni, e i piú be’ tratti degli altri due. Dopo questo esercizio e dopo aver composto segretamente e bruciati piú di duemila versi, ebbi speranza di poter cimentarmi co’ miei condiscepoli, e di scriver de’ versi non interamente da cantarsi sul colascione. Essendo stato eletto in quel tempo il rettore del nostro collegio ad altro onorevole grado, per cui doveva partire da quell’impiego, tra le varie composizioni, che da molti alunni in lode di quello si recitarono, recitai anch’ io un mio sonetto. Lo stampo in queste Memorie,