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penna un risentimento, che desterebbe intempestivi rimorsi in un cuore, che, ad onta di tutto, riverisco e che non cesserò in alcun tempo di riverire.

Dopo questa tempesta, da me sofTerta con coraggio e rassegnazione, monsignor Ziborghi, un venerabil canonico di quella cattedrale, che ereditate aveva le benefiche inclinazioni del defunto prelato per noi, procacciò si a me che agli altri due miei fratelli l’assistenza di uno di que’ begli istituti, che ne’ tempi felici della sventurata Venezia onoravano con tanta gloria quella repubblica. Fummo tutti tre collocati nel seminario di Portogruaro, dove un nuovo campo mi fu aperto da proseguire con agio e decoro gl’interrotti miei studi. Attesi il primo anno alla filosofia ed alle matematiche, senza perder però di vista le mie dilettissime muse. Mentre s’affaticava il maestro a spiegar Euclide o qualche astruso trattato di Galileo o di Newton, io leggeva furtivamente ora V Aminta del Tasso, ora il Pastor fido del Guarirti, che aveva quasi imparati a memoria. Verso la fine del primo anno recitai pubblicamente una canzone in lode di san Luigi, che fu applaudita: piacquero sopra tutto questi tre versi:

Ma sei ritolse il ciel, quasi sua gloria fosse manca e men bella senza la luce di quell’aurea stella.

Un «bravo!», uscito di bocca a dotto e nobile personaggio, ini fruttò la cattedra di retorica, che monsignor Gabrielli, vescovo di Concordia, soggetto per dottrina, per nobiltá e per religiosa luce eminente, in quel giorno stesso mi offerse. Aveva allora in pensiero di perfezionarmi nell’intelligenza della lingua ebraica, che aveva ne’ primi anni miei molto studiata, e di applicarmi ad un tempo stesso allo studio de’ greci, portando ferma opinione che, senza la lettura di quelli, nessuno potesse divenir gran poeta. Per questa ragione esitai piú giorni a risolvere.

Mi lasciai vincere alfine dalle persuasioni del buon rettore, che infinitamente mi amava, e piú dalle circostanze paterne, che co’ guadagni del mio impiego aveva speranza di ammegliorare.

Accettai dunque l’offerta, e in un’etá, in cui aveva bisogno