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Ciò detto, voleva andarmene; ma, prendendomi con violenza pel lembo dell’abito, mormorò mille scuse, che, a mio giudizio però, piú e piú mostravano la sua ingratitudine e la sua vilis sima anima: onde, da lui sbarazzatomi, lo lasciai. Il Memmo, a cui appena arrivato a Padova io aveva scritto, informato aveva costui d’ogni cosa e me gli aveva raccomandato. Ma né le raccomandazioni di quel cavaliere, né la fresca memoria de’ miei servigi operarono nel petroso dalmata in modo da renderlo umano, se non generoso e riconoscente: fu la paura di vedersi scornato che l’indusse a farmi delle ofTerte cortesi, ch’ei sperava probabilmente ch’io d’accettare rifiutassi, e che infatti osai rifiutare costantemente. Egli si ricordò d’avermi lasciato in mano l’originale della barbara orazione, e, vedendomi incollerito, tremava di timor che la pubblicassi. Io m’accorsi di tal timore: gli mandai il di seguente il suo manoscritto e noi rividi mai piú. Ei scrisse le cose al Memmo a suo modo; ma non potè astenersi di confessare le sue paure in queste parole: «Il Da Ponte mi fece un piú gran dono nel restituirmi la mia orazione che nel rifarmela. Avrei volentieri pagato cinquanta zecchini per riaverla.» Ma io, invece di vendicarmi col pubblicar uno scritto che l’avrebbe per sempre disonorato, gliel rimandai volontariamente, senza nemmeno esserne chiesto, contento di punire, con una generositá che il confuse, una viltá ed una ingratitudine senza pari. La maniera peiò, con cui egli mi ricevette, m’insegnò a tener a tutti celata la mia povertá. Procurai all’incontro di iarmi creuer ricco eu agiato e, quanto uri fu possibile, ne conservai le apparenze.

Alcuni di dopo la mia partenza, ebbe cura il Memmo di spedirmi i pochi abiti che aveva lasciati in sua casa: potei comparire con questi in decente stato ne’ cafTé e ne’ ridotti pubblici di quella cittá, dove ogni giorno faceva vedermi lindo e ben attillato. Divisi in cinquanta parti le cinquanta lire di quel paese (una ghinea), disegnando che mi bastassero per cinquanta giorni, e sperando intanto che «dii meliora fera?it». Aveva dunque una lira, cioè venti soldi veneti, al giorno da spendere : ne pagava otto per un letto e cinque per una tazza di caffè ogni mattina,