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non perché mi paia degno d’esser pubblicato, ma perché si giudichi de’ progressi fatti da me in soli sei mesi, e ciò diventi un eccitamento per quelli che, anc’ un po’ tardi, natura j’avente , agli studi poetici si rivolgono.

Quello spirto divin, che, con l’ardente e puro raggio del superno amore, la caligin dilegua a’ sensi e fuore d’ogni fallace error tragge la mente, fu quel, saggio signor, che dal possente trono di gloria al destinato onore t’elesse, onde con santo e vivo ardore per lo retto cammin guidi sua gente. Su vanne or dunque e il nuovo popol reggi, e ascendi il nuovo seggio, onde co’ tuoi fregi divenga piú lodato e adorno. Vanne, quivi per te le sante leggi vivati di Cristo, di Satino a scorno:

ma deh! signor, non ti scordar di noi (>). Come prima di questo sonetto io non aveva lasciato vedere ad alcuno i miei versi italiani, tranne i quattro da colascione, cosi nessuno voleva credere che questi quattordici fossero miei. (r) Il seguente sonetto fu composto in quella stessa occasione dal mio amico Colombo. Lo pubblico qui, sperando di fargli cosa grata, nel pruovargli che sessantacinque anni non bastarono a cancellar dalla mia memoria i versi d’un amico si caro.

Quanto è possente amor ! Padre avevamo, tenero amante padre, e insomma tale, che niun credo giammai n’ebbe l’uguale dal di che prima aperse gli occhi Adamo. Si caro padre or noi perduto abbiamo: ché divino volere, alto, immortale, con decreto a lui fausto, a noi fatale, lo trasse altrove; e noi pupilli or siamo. Ben conosciam quant’aspro e grave è il danno, ma non ci pesa, ché ne scema il duolo sua felice avventura, anzi ne ’1 toglie. E amor, fatto di noi dolce tiranno, nostra sciagura a pianger no, ma solo lieti ne tragge a secondar sue voglie