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e se ne impadroní, intascandone senza indugio una parte, e l’altra in due fazzoletti accogliendo. Passò frattanto tra noi il seguente dialoghetto:

— Avete guadagnato questo danaro al gioco?

— Eccellenza si.

— L’avete contato?

— Eccellenza no.

— Avreste gusto di raddoppiarlo?

— Eccellenza si.

— Andrò tener banco al Ridotto, e non dubitate dell’esito.

— Eccellenza no. — Conte questo «no» non pareva chiaro, soggiunse, digrignando i denti, ch’erano di smisurata grandezza: — «Eccellenza si»! «Eccellenza no»! Volete o non volete?

— Eccellenza si! Eccellenza si! — Gite avrebbe giovato il mio no?

— Ebbene, prendete con voi mia sorella, e seguitatemi.

— Eccellenza si.

— Non vi fate aspettare.

— Eccellenza no. — Corse, ciò detto, giú dalle scale, ed io gli andai dietro colla sorella, grattandomi il capo e bestemmiando «Sua Eccellenza si», il libro d’oro e tutta la contrada di San Barnaba. Giunto al Ridotto, espose tutto il danaro sopra una delle tavole da gioco, e cominciò a mescolare un mazzo di carte. Vi accorsero subito molti giocatori, tra’ quali non pochi di que’ medesimi, che avevano poco prima perduto meco. Sapendosi la mia connessione con cotestui, si giudicò della cosa sul fatto. Ciò accrebbe in tutti la bramosia di riguadagnare quell’oro.

Era giá passata la mezzanotte, e tutti gli altri banchieri avevano deposte le carte. Si giocò dunque disperatamente. Ne’ due primi tagli ebbe colui favorevolissima la fortuna. Una montagnola d’oro aveva davanti a sé. Io gli sedeva da un lato e la sorella dall’altro. Non ardivamo pai lare, ma gli facevamo de’ cenni cogli occhi, colle mani, co’ piedi, perché cessasse di giocare. Tutto fu vano. Cominciò un terzo taglio, ma noi