Lo cunto de li cunti/Introduzione/III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Introduzione - II | Introduzione - IV | ► |
III.
Il Cunto de li Cunti come opera letteraria.
Il Cunto de li Cunti è un libro di fiabe. E le fiabe, — non occorre quasi il dirlo — , sono racconti popolari tradizionali di avventure, alle quali pigliano parte esseri umani, ed esseri sovraumani od estraumani della mitologia popolare, come fate, orchi, ammali parlanti, ecc. Questo complesso di racconti tradizionali, la cui origine è incerta e discussa e risale senza dubbio a una remota antichità, viene ora considerato dalla moderna filologia come un gruppo di documenti importanti per la storia del genere umano e per la psicologia popolare. Ma, per molti secoli, essi non furono se non un oggetto di diletto e di trattenimento pel popolo ingenuo e pei fanciulli, che avidamente li ascoltavano: lo scienziato disdegnava d’appressarvisi, e solo, di rado, vi si appressò l’artista.
E uno dei primi artisti, anzi il primo, che vi si appressasse, fu appunto il nostro Giambattista Basile. Non già che, prima di lui, la materia delle fiabe non fosse passata sotto le penne dei letterati. Varie fiabe contiene il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino1; varie altre, per esempio, se ne ritrovano nel Mambriano del Cieco di Ferrara, e sono state recentemente studiate2; e molte altre ancora sarebbe agevole scavarne nella gran congerie dei nostri libri di novelle. E, finalmente, nel secolo decimosesto, ci fu uno scrittore, Giovan Francesco Straparola da Caravaggio, che, nelle sue Piacevoli Notti (prima ediz., 1550, 1553), di molte sue novelle tolse la materia da fiabe e facezie popolari3; tanto che, per questo rispetto, può riguardarsi come il precursore del Basile. Ma, negli scritti di costoro, le fiabe sono modificate, regolarizzate, svisate. Essi le atteggiano a novelle cittadine, le spogliano, per quanto possono, del meraviglioso messovi dalla fantasia popolare, e, infine, le raccontano sempre col rigido vecchio stile dei novellieri italiani. Dello Straparola dissero giustamente i Grimm: «Si sforzò di narrare secondo il modo solito e prestabilito, e non seppe far risuonare una nuova corda»4. E si può dire che, con essi, le fiabe entrarono bensì nel campo della letteratura, ma vi entrarono di nascosto, inosservate, camuffate delle consunte vesti degli epigoni Boccacceschi. Invece, col Cunto de li Cunti fecero un ingresso aperto, trionfale, nel campo dell’arte, abbigliate di tutta la pompa e le bizzarre e strane fogge della fantasia popolare.
Il Basile racconta le fiabe come fiabe. — Ma quale interesse poteva egli prenderci, qual significato poteva darci, perchè ripeteva e rifaceva queste fiabe, che aveva raccolto dal popolo? Qual’era, insomma, l’intuizione, che aveva, di questa sua materia? — Bisogna determinare questo punto, per determinare la natura dell’opera.
Le fiabe, considerate come materia grezza, possono servire, naturalmente, a scopi svariati, scientifici, morali, artistici. E, tralasciando gli scopi scientifici e morali, quanto ad arte possono dar luogo, per esempio, al conte philosophique, col quale la fantasia vede in esse quasi simboli d’idee; possono dar luogo ad una sorta di poetica rievocazione del passato fanciullesco ed ingenuo. «Ah!», — diceva, pieno di Sehnsucht, Errico Heine, quando, attraversando il Tirolo, vedeva lungi sui monti le piccole casette tirolesi, dipinte in verde e in bianco, tutte fiori e immagini di santi e visi di fanciulle — , «vi si deve star pur bene e intimamente lì dentro, e la vecchia nonna deve raccontare le più recondite storie5!» . Questo poetico sentimento, o sentimentalismo, è appunto espresso nei versi famosi del La Fontaine: «Si Peau d’àne m’était conte, J’ y prendrais un plaisir extrême!»; e di esso ebbe un sentore nel secolo scorso, in Italia, Carlo Gozzi6. Ma il Basile non era nè l’uomo del secolo xviii, ne il romantico del secolo xix, e il conte philosophique, o la fiaba rivissuta, non entravano nel suo campo spirituale. L’abbiamo già detto: il Basile era un letterato seicentista, e alle cose del popolo prendeva quell’interesse che solo poteva prenderci un letterato seicentista. Lo attiravano lo strano, il goffo, l’assurdo, motivi per lui di comico spiritoso! E, per bizzarria, porse orecchio attento a questi cunti, che soleno dire le vecchie pe trattenemiento de peccerille; e, per bizzarria, prese poi a ripeterli, a volta facendo mostra di obliarvisi e interessarvisi, cosicchè per la sua bocca parla il popolo in tutta la serietà del suo sentimento, a volte tornando sopra sè stesso, e scherzando e facendone la caricatura.
Per quanto questi sentimenti paiano, a prima vista, contraddittorii, per tanto essi sono sinceri e reali. Il sentimento ha di queste stranezze e di questi ondeggiamenti; ed è naturale che l’opera d’arte, — ritraendo non la verità logica, ma, semplicemente, la verità psicologica — , li rispecchi fedelmente. Il Basile non ripete commosso e ingenuo le fiabe dell’infanzia, e neanche le fa oggetto di uno scherzo e di una parodia, che sarebbero davvero sine ictu. Egli rappresenta, e, talvolta, scherza. E nei trattenemienti del Cunto de li Cunti, par di vedere, a volta a volta, ora la faccia grinzosa di una delle vecchie novellatrici; ora il volto arguto e ridente del Cavalier Basile.
Così si spiega come, pur non essendo egli un raccoglitore o uno scrittore di fiabe alla moderna, nella sua opera le fiabe si ritrovino schiette e senza alterazioni. Egli comincia col serbar alla fiaba tutta la sua realtà popolare: non vuol sollevarla a più alto stile, ma anzi vuol restare in tutta la bassezza e la volgarità della sua materia. E, con queste disposizioni d’animo, è naturale che, nella sua opera, viva moltissima parte dell’intonazione e del sentimento popolare.
Ma, a questa rappresentazione esatta e realistica, si mescolano, come si è detto, molti elementi burleschi e individuali. — E il primo elemento burlesco, che il Basile introduce nella sua raccolta di fiabe, è appunto quella specie di macchinario epico, — Pentamerone — , che costruisce con esse: le cinquanta fiabe delle cinque giornate sono tutte collegate tra loro, e racchiuse in una cornice generale, che ravvicina questo libro di fiabe ai più classici libri italiani di novelle, ai Decameron, alle Cene, ai Diporti, alle Piacevoli Notti, ecc.
C’era una volta un Re, che aveva una figliuola, chiamata
Zoza, che, per una certa strana malinconia, non si
vedeva mai ridere. Indarno il padre aveva tentato più
sorte di rimedii: finchè, un giorno, ordina che si faccia
una fontana d’olio innanzi al palazzo reale, sperando che
ne nascerebbe tale fuga e confusione nella gente che
passava, che darebbe luogo a qualche spettacolo ridicolo,
da scuotere finalmente la malinconia della figliuola. Alla
fontana viene una vecchierella, che, con una spugna, si mette a riempire d’olio un orciuolo, che aveva portato. E, mentre era quasi a capo della sua fatica, un ragazzotto, paggio della corte, tira un sassolino all’orciuolo, e lo rompe. La vecchia esce in un profluvio d’improperii; il ragazzo risponde per le rime; la vecchia, fuor di sè per la rabbia, fa un atto sconcio, alzandosi la veste; e la principessa, ch’era alla finestra, scoppia in una grande risata. Alla risata si rivolge quella, inviperita, e le dà la maledizione: che non possa trovar requie se non sposa il Principe di Camporotondo! E Zoza, spinta dalla forza della maledizione, si mette in viaggio verso Camporotondo. Il Principe di Camporotondo, anche per una maledizione, giace addormentato in una tomba, sulla quale è posta un’anfora, con un’iscrizione che dice: che la donna che riempirà di lagrime quell’anfora, lo farà risuscitare e lo prenderà per marito. Zoza si mette all’opera, e, piangendo, ha quasi ripiena tutta l’anfora; quando, colta dal sonno, s’addormenta. Una schiava, ch’era stata a spiare, coglie quel momento, vien fuori, si reca in mano l’anfora, finisce di colmarla, e subito il Principe si sveglia, e l’abbraccia, e la fa sua sposa con grandi feste. La povera Zoza, disperata, ricorre all’uso di tre oggetti fatati, datile da tre fate nel suo viaggio: l’ultimo dei quali è una bambola, alla quale ordina, che, venuta in possesso della schiava, debba metterle in seno un gran desiderio di sentire cunti. Cosi succede, e il Principe, per contentare la moglie, fa venire dieci vecchie, delle migliori novellatrici del suo regno, a raccontare fiabe. E queste vecchie, per cinque giorni di seguito, raccontano ciascuna un cunto. Nell’ultima giornata Zoza, che ha preso il posto di una delle vecchie, che s’è
ammalata, racconta la sua storia, e scopre al Principe l’inganno della schiava. La quale ha la punizione che
merita, e il Principe sposa Zoza.
Ciascuna giornata comincia colla descrizione di varii giuochi e trattenimenti, coi quali la compagnia si diverte nelle prime ore del mattino. Ciascun cunto è preceduto da un’introduzione morale; e si chiude con un proverbio. Dopo i dieci cunti, escono due persone della corte del Principe, e recitano un’egloga, che tiene il posto delle canzoni, che si cantano alla fine di ciascuna giornata del Decameron. Queste egloghe sono quattro: la Coppella, la Tenta, la Stufa e la Vorpara; e formano quattro satire morali in dialogo, che, colla solita ricca fraseologia, ritraggono l’infelicità delle varie condizioni umane (messe alla coppella), la maldicenza che calunnia i buoni, e la finzione, ch’esalta i cattivi (la tenta, o sia la tintura), l’avidità del guadagno (la vorpara, l’uncino, la noia che danno alla fine tutti i piaceri umani (la stufa, la noia).
A questo primo elemento burlesco se ne aggiugono varii altri. Nello scherzo riappare, come s’è detto, nel Basile il letterato seicentista, con tutti gli strani gusti, dei quali s’è dato un saggio, discorrendo delle sue opere italiane. Anche nelle fiabe del Perrault c’è una parte non ingenua e non popolare, che è frutto dell’individualità del francese e del letterato del secolo di Luigi XIV. E il Sainte Beuve dice che quella è la data dell’opera7. Cosi gli scherzi del Basile sono la data della sua opera.
E consistono principalmente nelle frange e ricami, dei quali sono capricciosamente ornati i cunti messi in bocca alle dieci vecchie: una serie di giuochi di forza, nei quali il letterato seicentista dà prova di tutto ciò ch’è capace di escogitare, quando ei ci si metta di proposito! Le metafore più strane, le frasi equivoche, le allusioni, le enumerazioni, le sinonimie scherzose, si succedono e intrecciano le une colle altre. I suoi personaggi, le sue fate, i suoi orchi, i suoi Re, i suoi Principi, le sue Zezolle, Vastolle, Renzolle, Petrosinelle, i suoi Cienzo, Nardaniello, Milluccio, Canneloro, hanno fatto tutti un corso di letteratura seicentistica: hanno letto l’Adone, e amano molto le Ode del nostro Basile! «Chi sa, marito mio,» — dice Ceccuzza al marito, che le ha riferito tutto spaventato, che una gran lucertola fatata vuole presso di sé una delle loro figliuole — , «chi sa, marito mio, si sta lacerta sarrà a doje code pe la casa nostra? Chi sa se sta lacerta è la certa fine de le miserie nostre?»8 — «Già sapite ca la luna de lo nore mio ha fatto le corna!» — , dice ai suoi consiglieri il Re, che ha trovato la figlia gravida — ; «già sapite ca, pò far scrivere croneche, ovver corneche, delle vergogne meje m’ha provisto figliama de materia de calamare; già sapite ca, pe carrecareme la fronte, s’ha fatto carrecare lo ventre; perzò, deciteme, consigliateme! Io sarria de pensiero da farele figliare
l’arma primma de partorire na mala razza; io sarria d’omore de fatele sentire primma le doglie de la morte, che li dolure de lo partoro; io sarria de crapriccio, che primma sporchiasse da sto munno, che facesse sporchia e semmenta!»9. E, quando nel T. X della G. I, l’orrida e decrepita vecchia mostra al Re per un buco il suo dito, che ha reso bello e liscio col continuo succhiarlo: «Non fu dito, — dice la novellatrice — , « ma spruoccolo appontuto, che le smafaraje lo core! Non fu spruoccolo, ma saglioccola, che le ntonaja lo caruso! Ma che dico spruoccolo e saglioccola? Fu zurfariello allommato, pe l’esca de le voglie soje; fu miccio infocato pe la monezione de li desiderio suoje. Ma, che dico spruoccolo, sagliocca, zorfariello, e miccia? Fu spina sotto la coda de li pensiere suoje; anze cura de fico jejetelle, che le cacciaje fora lo frato de l’affetto amoruso co no sfonnerio de sospire! «E, alla vecchia che gli aveva mostrato il dito, il Re si rivolge con questo profluvio d’invocazioni ed esortazioni:
O arcuccio de le docezze, o repertorio de le gioje, o registro de li privelegie d’ammore!, pe la quale cosa so deventato funnaco d’affanno, magazzeno d’angosce, doana de tormiento!, è possibele, che vuoglie mostrarete cossì ncotenuta e tosta, che non t’aggie da movere a li lamiente mieje? Deh, core mio bello, s’hai mostrato pe lo pertuso la coda, stienne mo sso musso, e facimmo na jelatina de contiente!, s’hai mostrato lo cannolicchio, o maro de bellezza, mostrame ancora le carnumme, scuopreme ss’uocchie de faraone pellegrino, e lassale pascere de sto core! Chi sequestra lo tresoro de sta bella facce drinto no cacaturo?, chi fa fare la quarantana a ssa bella mercanzia drinto a no cafuorchio?, chi tene presone la potenzia d’ammore drinto a sso mantrullo? Lèvate da sso fuosso; scapola da ssa stalla; jesce da sso pertuso; sauta, maruzza, e dà la mano a Cola, e spienneme pe quanto vaglio! Sai puro ca songo re, e non so quarche cetrullo, e pozzo fare e sfare! Ma chillo cecato fauzo, figlio de no sciancato e na squaltrina, lo quale ha libera autoretate sopra li sciettre, vole che io te sia suggeco, e che te cerca pe grazia chello che porria scervecchiarene pe propio arbitrio; e saccio ancora, comme disse chillo, ca co li carizze, non co le sbraviate, se ndorca Venere!
E una curiosità del libro sono le cento metafore diverse, colle quali si trovano parafrasate le indicazioni delle ore del giorno, dell’albeggiare, dell’annottare. Scorrendo le sole prime pagine, si troverà, per dire il far del giorno:
..... la matina, quanno la notte fa jettare lo banno dall’Aucielle a chi avesse visto na morra d’ombre negre sperdute, che se le farrà no buono veveraggio (Ntroduzz.).
..... appunto quanno lo sole ha puosto sella pe correre le solite poste, scetato da le cornette de li galli..... (ivi).
..... a lo spuntare de la stella Diana, che sceta l’arba ad aparare le strate, pe dove ha da spassiare lo sole..... (ivi).
..... la matina, quanno esce l’aurora a jettare l’aurinale de lo viecchio sujo, tutto arenella rossa, a la fenestra d’oriente..... (I, 1).
..... nnanze che lo sole scesse comme a Protamiedeco a fare la visita de li shiure che stanno malate e languede..... (I, 2).
..... la mattina, quanno l’ombre de la notte, secotate da li sbirre de lo sole, sfrattano lo pajese..... (I, 4).
..... subeto che l’aucielle gridaro; viva lo sole!..... (I, 5).
Ovvero, per esprimere il far della notte:
..... sommiero le 24 ore, quanno comenzavano pe le poteche de Cinzia ad allommarese le locernelle..... (I, i).
..... essenno già l’ora che la luna voleva jocare co lo sole a ghiste e veniste, e lo luoco te perdiste..... (I, 3).
Quando lessi per la prima volta il Cunto de li Cunti, fui colpito dalla parentela artistica, che c’è tra questo libro e il gran libro del Pantagruel. In seguito, ho trovatonotato la stessa somiglianza in una nota, messa dal Liebrecht, alla traduzione tedesca, da lui fatta, dell’opera dell’inglese Dunlop: Geschichte der Prosadichtungen10. E noto l’indipendenza della mia osservazione, perchè mi sembra che, in questa indipendenza, sia una prova di più dell’esattezza di essa.
Anche il Rabelais ebbe, come materia della sua opera, una tradizione popolare, e la raccontò con intonazione semipopolare, ma mescolandovi continuamente giuochi, e riflessioni, e digressioni, e allusioni d’ogni genere. A leggerlo, io ho avuto sempre in mente la dedica ai beuvers trés illustres, colla quale s’apre il libro. E non ho potuto difendermi dal concepire lo scrittore del Pantagruel, nella condizione intellettuale e nella condizione psicologica di un uomo di grandi doti intellettuali, che abbia largamente bevuto, e che abbandoni le redini a tutte le sue facoltà, le quali si agitano scompostamente, ma possentemente! E quante cose svariate produce questo agitamento di tutte le sue facoltà, dell’intelletto, della fantasia, della memoria! Osservazioni ed erudizioni serie; giuochi di parole e tours de force; descrizioni artistiche minute e finissime, novellette e invenzioni satiriche, racconti mostruosi, di quelli che interessano le menti fanciullesche, ecc. ecc.; tutto ciò entra a comporre quel guazzabuglio del Pantagruel, che spesso fa girar la testa, ma non annoia mai, perchè è opera d’ingegno, scomposto, ma gagliardo.
Il Basile è, naturalmente, tanto meno ricco di contenuto intellettuale rispetto al Rabelais, di quanto dista un letterato italiano del seicento da un dotto europeo del rinascimento. Ma il genere e i procedimenti artistici d’entrambi hanno molta conformità. Il ricamo del tema popolare è, in molti punti, in entrambi gli scrittori, fatto allo stesso modo. Le lunghe enumerazioni del Basile trovano riscontro nelle lunghe enumerazioni del Rabelais, e gli sforzi d’ingegno dei due scrittori sono, in molte parti, simili, come sono simili i risultati.
— Ma, oltre questa conformità di fantasia, questa connessione naturale tra due ingegni simili, il Basile ha col Rabelais un’altra connessione, una connessione storica? Le somiglianze col Rabelais sono prodotti simili di due attività simili, o le une procedono dalle altre, e il Basile ha imitato il Rabelais? —
Ora, il Liebrecht sostiene appunto che il Basile abbia avuto sott’occhio e imitato il Rabelais. Traduco la nota, che ho già citato:
Leggendo ripetutamente il Rabelais, io sono venuto nella persuasione che il Basile abbia imitato nel modo più esatto lo stile e il modo di esprimersi di quello scrittore; cosicchè l’ipotesi da me fatta nella mia traduzione di un’imitazione del Basile di un particolare d’una fiaba (V, 1) da un luogo del Rabelais, acquista anche maggiore probabilità. Io fondo la mia affermazione sulla sorprendente conformità tra i due autori per ciò che concerne lo stile e l’espressione, che non può essere, del tutto casuale; e, giacché una lunga dimostrazione prenderebbe troppo spazio, accennerò solo ad alcuni punti. Il Rabelais, per esempio, si compiace ad enumerare l’uno accanto all’altro svariati oggetti di una stessa specie; così uccelli (I, 37), ed egualmente il Basile (II, 5, IV, 8); piante (I, 13), e il Basile (II, 5); utensili (I, 51), e il Basile (II, 5); parole ingiuriose (I, 25), e il Basile (Ntroduzz., I, 1, 3); giuochi (I, 22), e il Basile (princ. G. II e IV); vesti (I, 56), e il Basile (III, 10). Inoltre: sinonimi: il Rabelais (I, 22): «aprés avoir bien joué, sassé, passé, et beluté temps, ecc.», e il Basile (II, 10): «che, comm’a sacco scosuto, se norcava, cannariava, ciancolava, ngorfeva, gliotteva, devacava, scervecchiava, piuziava, arravogliava, scrofoniava, schianava, pettenava, sbatteva, smorfeva ed arresidiava». Il Rabelais, L. IV, nuovo prologo: «Sera beliné, corbiné, trompé et affiné», e il Basile (I, 1): «stimmanno facile cosa de cecare, nzavorrare, ngannare, mbrogliare, e dare a vedere ceste pe lanterne, a no majalone, marrone, maccarone, vervecone, nsemprecone, ecc.». Inoltre, rime incidentali: Rabelais, L. IV, nuovo prologo: «Au soir un chascun d’eux eut les mules au talon, le petit cancre an menton, la male toux au poulmon, le catarrhe au gavion, le gros froncle au cropion, ecc.», e così I, 52. E il Basile (I, 6): «spampanate, sterliccate, mpallaccate, tutte zagarelle, campanelle e scartapelle, tutte shiure, adure, cose e rose, ecc.». — Di questi esempii, come ho detto, io non posso recarne se non pochi, ma che si possono aumentare di molto, specie tenendo presente l’abbondanza di proverbii, comune a entrambi. E, se qualcuno poi voglia convincersi dell’imitazione che il Basile ha fatto del Rabelais, confronti il nono capitolo del quarto libro del Rabelais, con l’introduzione alla quinta giornata del Basile; e ciò risulterà nel modo più chiaro11.
Ora si noti che la maggior parte di questi riscontri riguardano somiglianze di procedimenti e di metodi. Mettiamo un momento da banda queste somiglianze, perchè il venire intorno ad esse ad una conclusione, richiede un discorso più lungo. — A due sole imitazioni concrete, e flagranti, accenna il Liebrecht.
La prima è abbastanza curiosa. Nel T. I della G. I, si racconta come: «Lilla e Lella accattaro na papara a lo mercato, che cacava denare; l’è cercata mpriesto da na commare, e, trovanno lo contrario, ne l’accide e la jetta pe na fenestra; s’attacca a lo tafanario de no Prencepe, mentre faceva de lo cuorpo; ecc.». Su quest’ultimo particolare, per quanto poco pulito, ci conviene fermarci. — Il Basile dice nella novella che il Principe: «trasette a chillo vicuozzolo a scarricare lo ventre, e, fatto c’appe lo servizio, non trovannose carta a la saccocciola pe stojarese, vista chella papara, accisa de frisco, se ne servette pe pezza».
La stessa novella era stata già raccontata dallo Straparola; nel quale però, anzichè di una papara, si tratta di una poavola (bambola)12. E, a quel tal punto, lo Straparola scrive così: «Il servente, andatosene al letamaro, e ricercando per dentro se potesse trovare cosa che fosse al proposito, trovò per avventura la poavola, e, presala, in mano, la portò al Re, il quale senz’alcun sospetto, tolse la poavola, e postasela dietro alle natiche, per nettare messer lo perdoneme, trasse il maggior grido che mai si sentisse, perciochè la poavola, con i denti, gli aveva preso una natica, ecc.».
Potrebbe dubitarsi che lo scambio della papara colla bambola fosse un’alterazione fatta dallo Straparola alla tradizione popolare. Ma no: una fiaba siciliana, raccolta dal Pitrè, prova che nella tradizione c’era difatti la bambola. La versione del Pitrè è intitolata: La Pupidda, ed è in tutta simile a quella del Basile, e solo al punto in questione, dice: che il Re «vidi da ’n terra la pupidda cu ddu folareddu biancu pulitu e la pigghia pri stujàrisi. Chi fa la pupidda? Sàuta e si nfila ’nculu a lu Re»13.
Come mai il Basile ha, dunque, sostituito alla bambola, della versione popolare e dello Straparola, la papara? Il Grimm aveva osservato (poco verisimilmente, a me sembra), che la somiglianza delle parole napoletane pipata (bambola) e papara, doveva forse aver prodotto lo scambio14.
Ma il Liebrecht, invece, pensa che lo scambio sia avvenuto per effetto del famoso capitolo XIII del Gargantua, nel quale si espone: Comment Grandgousier cogneut l’esprit merveilleux de Gargantua à l’invention d’un torchecul, e si viene alla conclusione: «qu’il n’y a tel torchecul que d’un oison bien dumeté, pourveu qu’on lui tienne sa tète entre les jambes, ecc. ecc.»15.
Certo, la somiglianza, è curiosa; ma l’imitazione tutt’altro che fuor di dubbio. Niente nel luogo del Basile, nessuno accenno, nessuno aggettivo, ricorda la lunga dissertazione laudativa dello scrittore francese su quel punto; e tutto il riscontro si riduce all’uso che, incidentalmente, si fa di una papara morta nel cunto del Basile, ch’è quello che il Rabelais esalta come ottimo, fatto di un uccello qualunque vivo e caldo.
L’altra imitazione è anche meno sicura. «Chi vuol persuadersi, — dice il Liebrecht — , confronti il principio della G. V del Cunto de li Cunti col nono capitolo del IV libro del Pantagruel». Ma, se si fa il confronto, nel Basile si troverà la descrizione di un divertimento, che consisteva nel proporre a ciascuna delle donne un giuoco: «la quale, senza pensarence, m’ha da dicere subeto ca no le piace, e la causa perchè non le dace a l’omore». E nel Rabelais, invece, la descrizione «des etranges alliances» dell’isola Ennaisin, dove giunge Pantagruel, e una lunghissima serie di scambii di risposte tra gli abitanti del paese; per esempio: «En pareille alliance, l'un appelloit une sienne ma homelaicte, elle le nommoit mon oeuf; et estoient alliés comme une omelaicte d’oeufz. De mesmes un autre appelloit une sienne ma trippe, elle l’appelloit son fagot, ecc. ecc.». Ed io non veggo, tra questi due brani, altra relazione se non una certa somiglianza nell’andamento del dialogo, che, nell’uno e nell’altro, è composto di una serie di botte e risposte.
Di queste due imitazioni particolari, accennate dal Liebrecht, una, dunque, a me sembra molto incerta, e l’altra addirittura inesistente. Ma io credo d’essere in grado di sostituire a questi indizi, che metto in dubbio, un altro più valido.
Perchè una delle maggiori difficoltà, che presenterebbe la supposizione di un’imitazione del Rabelais da parte del Basile, sarebbe la pochissima notorietà del Rabelais in Italia, nel cinquecento, e nei secoli seguenti, fino ai tempi nostri.
Il Guerrini non giunse a trovare se non un sol accenno all’opera del Rabelais in libri italiani, e, propriamente, uno, fugacissimo, nelle Facezie del Della Torre16. Qualcun’altro ne pescò il Martinozzi, che, tuttavia, riafferma, per questa parte, le conclusioni del Guerrini17. Ma a me è capitato di scoprire, o m’inganno, un’imitazione lampante del Rabelais in uno scrittore napoletano, amico e commilitone del Basile, in Giulio Cesare Cortese.
In qualche esemplare del quinto volumetto della prima edizione del Cunto de li Cunti stampato il 1636, si trova, dopo la dedica, un curioso componimento del Cortese, ch’è ignoto a tutti, e può dirsi inedito. Questo componimento è intitolato: Canzone de lo Segnore Giulio Cesare Cortese: Conziglio dato da lo Chiajese ad una persona che l’addemannaje qual fosse meglio nzorarese o stare senza mogliere. Il Dottor Chiajese era una celebrità popolare di quei tempi, che, per pochi soldi, dava il suo bizzarro parere sulle quistioni, che gli si sottoponevano e che il Cortese aveva già tirato in ballo nei suoi poemi18.
Ora ecco il componimento del Cortese, che merita d’esser
tratto dall’oblio:
Decette a lo Chiajese,
Ch’eje ommo saputo, e letterato:
«Tèccote no tornese,
«E dimme: è buono l’essere nzorato?»
«Bonissimo», — diss’isso — «a la bon’ora,
Si tu non sì nzorato, e tu te nzora!»
«Aggio na gran paura», —
Io le decette — , «non desse de pietto
A na mala ventura;
Ed àuzate, se puoje, pò, da sso nietto;
«E dì ch’è pezza, che se pò stracciare!»
Ed isso disse: «E tu non te nzorare!»
«Se vao pe ssi pentune,
N’auzarraggio, — diss’io — , na spennazzola,
O farraggio a costiune,
E puosto ne sarraggio a na gajola,
E nce vo bona agresta a scire fora».
Ed isso me decette: «E tu te nzora!»
«Vorrà ire sforgiosa»,
— Diss’io — , «che nge vorrà tutta la dota,
Sarrà na schifenzosa
Che scariglia farrà chiù de na vota;
Io me ntorzo e non pozzo comportare...»
Responnette isso: «E tu non te nzorare!»
«Starraggio sempre sulo»,
— Io le decette — , «e puosto a no pentone,
Justo comm’a cuculo,
Chiagnenno de menestra no voccone,
Ca na mogliere te n’abbotta ogn’ora!»
Diss’isso: «Frate, adonca, e tu te nzora!»
«Me farrà tanta figlie»,
— Io disse — , «che jarranno pe la casa,
Justo comme a coniglie;
Starraggio sempre maje drinto la vrasa,
Penzanno comme l’aggio da campare!»
Ed isso leprecaje: «No te nzorare!»
«Ma, se cado ammalato,
Chi me fa na panata o no cristiero!»,
— Diss’io — , «e abbannonato
So dall’ammice, comme a no sommiero.
N’è meglio tanno, arrassosia, ch’io mora?» —
«S’è chesso, — me respose — , «e tu te nzora!»
«N’aggio granne appetito»,
— Diss’io — , «ma, s’ave male cellevriello,
E me manna a Cornito
Chella che piglio, patre de l’agniello,
E po torno a Forcella ad abetare...»
«Scumpe!», — diss’isso — , «e tu no te nzorare!»
«Voglio propio sapere»,
— Diss’io — , «da te co hai lietto lo Donato,
Dove m’aggio a tenere:
Aggiome da nzorare, o star squitato?
Ca, comme me resuorve, a la stess’ora,
Me proveo de mogliere o de signora».
Disse Chajese tanno:
«O ca piglie l’ammica, o ca te nzure,
Sempre aje quarche malanno,
Ed aje causa de chianto e de dolure;
E sto conziglio avere a mente puoje:
Tutte so guaje, e piglia quale vuoje!»
scompetura.
Apriamo ora il Pantagruel, e cerchiamo il capitolo IX del L. III: Comment Panurge se conseille à Pantagruel, pour sçavoir s’il se doibt marier:
..... Mais, dist Panurge, si vous cognoissiez que mon meilleur fust tel que je suis demeurer, sans entreprendre cas de nouvelleté, j’aimerois mieulx ne me marier poinct. — Poinct donc ne vous mariez, respondit Pantagruel. — Voire mais, dist Panurge, voudriez vous qu’ainsi seulet je demeurasse toute ma vie, sans compagnie conjugale? Vous sçavez qu’il est escrit: Vae soli! L’homme seule n’a jamais tel soulas qu’an volt entre gens mariès. — Mariez vous donc, de par Dieu, respondit Pantagruel.
Mais si, dist Panurge, ma femme me faisoit coqu, comme vous sçavez qu’il en est grande année, ce seroit assez pour me faire trespasser hors les gonds de patience. J’aime bien le coquz, et me semblent gens de bien, et les hante voluntiers; mais, pour mourir, je ne le vouldrois estre. C’est un poinct qui trop me poingt. — Poinct donc ne vous mariez, respondit Pantagruel.....
Voire mais, puisque de femme ne me peux passer en plus qu’un aveugle de baston (car il fault que le virolet trotte, autrement vivre ne sçaurois), n’est ce le mieulx que je m’associe quelque honneste et prende femme qu’ainsi changer de jour en jour, avec continuel dangier de quelque coup de baston, ou de la verole pour le pire? Car femme de bien onque ne me fut rien, et n’en deplaise à leurs mariz. — Mariez vous donc de par Dieu, respondit Pantagruel19 E così continua ancora per un pezzo, confrontandosi di tutto punto colla poesia del Cortese. E l’imitazione a me sembra, come dicevo, lampante20.
Se non che, nè gl’indizii accennati dal Liebrecht, nè questa imitazione del Cortese, — la quale indicherebbe che il Rabelais era noto in Napoli nel principio del seicento in quel gruppo letterario, donde appunto uscì il Basile — , mi par che provino sicuramente la continua imitazione del Rabelais, che il Liebrecht ha creduto divedere nel Cunto de li Cunti.
L’imitazione sarebbe, a ogni modo, di puri procedimenti artistici. Ora tali imitazioni generiche sono cose proprie di tempi più recenti; a quei tempi, le imitazioni solevano essere concrete e particolari. Investirsi dello spirito di un autore, cosicchè tu lo senta in ogni parte, ma, quando vai ad abbracciarlo, torni colle braccia vuote al petto, non era il metodo dei nostri imitatori cinquecentisti e seicentisti. Essi imitavano la situazione, il pensiero, l’immagine: ricalcavano, non s’assimilavano i loro modelli.
Nè lo stile del Basile, è un’apparizione così strana che, per ispiegarselo, bisogni uscire fuori del suo tempo e del suo paese. Quello stile bizzarro è frutto del seicento letterario e dell’ingegno napoletano. Anche per Giordano Bruno, — compaesano e quasi contemporaneo del Basile — , il Monnier fece l’ipotesi che conoscesse il Rabelais e se ne appropriasse lo stile. E, — lasciando stare che sia piuttosto ardito il concepire lo stile di Giordano Bruno come qualcosa di esterno al suo carattere e al suo pensiero — , chi non vede che il ripetersi dello stesso caso per scrittori dello stesso tempo e dello stesso paese, è un’altra prova della poca verisimiglianza di un’imitazione, fatta, e fatta misteriosamente, su cosi larga scala! — Il Basile applicava alle fiabe del Cunto de li Cunti i gusti comici suoi e del suo tempo. E a chi legge prima le sue Lettere napoletane, e poi le sue Muse, e poi il Cunto de li Cunti, par di assistere allo svolgersi spontaneo d’un ingegno, che cerca la sua via, e tenta, e progredisce, e, finalmente, cammina sicuro.
Il Liebrecht nota giustamente che il Basile avrebbe imitato nel modo più felice, auf das Glüklichste, i procedimenti artistici del Rabelais. Tutta questa felicità si spiegherebbe agevolmente, ammettendo la mancanza appunto d’imitazione, cioè l’originalità del Basile. — Il che, beninteso, non esclude che potesse aver letto il Rabelais. Ma aver letto uno scrittore non vuol dire procedere da esso, e, molto meno, imitarlo.
Il Cunto de li Cunti ha, dunque, due facce, una seria ed una burlesca: una ch’è rappresentazione serena ed ingenua; l’altra, ch’è invasione burlesca dell’individualità dello scrittore nell’opera. Un’opera d’arte, così complessa, richiedeva per esser compresa e analizzata tutta la larghezza della critica moderna; di quella critica gloriosamente inaugurata in Italia da Francesco de Sanctis. Nei tempi andati i lettori lo sentivano e lo gustavano: le molte edizioni, e traduzioni, e imitazioni lo provano; ma i critici non riuscivano a capirlo e a spiegarlo.
Non lo capi Ferdinando Galiani, il quale, nella sua celebre opericciuola: Del dialetto napoletano, considerando il Basile come scrittore serio, e il Cunto de li Cunti come un libro di novelle ad instar del Decamerone, scriveva: «A costui (cioè al Basile), disgraziatamente per noi, venne il capriccio di contraffare l’incomparabile Decamerone di Giovanni Boccaccio, e compose un Pentamerone..... nel dialetto napoletano, e così divenire il Boccaccio, o sia il testo di esso. A tanta impresa mancavangli interamente i talenti per eseguirla. Privo in tutto e di genio elevato, e di filosofia, e di felicità d’invenzione, e di ricchezza di cognizioni, a poter immaginare adornare novelle graziose o interessanti, o tragiche, o lepide, o morali, altro non seppe pensare che d’accozzare racconti delle Fate e dell’Orco così insipidi, mostruosi, e sconci, che gli stessi Arabi, fondatori di questo depravatissimo gusto, si sarebbero arrossiti d’avergli immaginati»21.
Come bene notò l’Imbriani, il Galiani cercava nel Cunto de li Cunti la filosofia dei Contes philosophiques del Voltaire22; ed era naturale la sua delusione! Egli non vide tutto ciò che c’è di intimamente scherzoso nel modo di narrare del Basile, e il libro gli apparve, come doveva apparirgli, un mostruoso accozzamento di cose senza significato! — Alla parte burlesca e satirica dette invece troppa importanza quell’arguto avversario del Galiani, che fu Luigi Serio. Il Serio fece del Cunto de li Cunti addirittura un libro di satira letteraria. Se il Basile nel Cunto de li Cunti fu un seicentista sfacciato, nce sta lo pperchè — , diceva il Serio.
Il Basile fu un letterato di valore, che scrisse molte opere italiane, oltre quelle in dialetto; e curò, tra l’altro, le edizioni del Bembo e del Casa e del Tarsia, che prova che era uomo di buon gusto. E lui ed il Cortese, vista l’invasione del cattivo gusto ai loro tempi, vollero coi loro scritti napoletani mettere in derisione le bizzarre metafore, allora correnti. E questo sarebbe lo scopo del Cunto de li Cunti 23!
Ora, chi ha letto le opere italiane del Basile sa che il seicentismo il Basile lo metteva in pratica sul serio, come sul serio lo mise in pratica il Cortese nella sua Rosa. Egli, nel Cunto de li Cunti, scherzava sì, ma scherzava colle sue armi: con quelle armi, che adoprava ordinariamente nella sua vita di scrittore.
Del Basile scrisse anche in alcuni buoni articoli Giuseppe Ferrari, nella Revue des deux mondes del 1840. «Ses personnages, — egli scrive — , paraissent et s’évanouissent comme des rêves; mais quelle-que-soit la bizarrerie des aventures où ils s’engagent, ils gardent constamment cette simplicité, ils entrainent avec cette force, qui n’appartient qu’aux traditions populaires. C’est le peuple qui est le grand magicien et le premier createur de cette fantasmagorie; Basile, en la transportant naïvement dans ses contes, s’est assuré un titre durable à la mémoire de son pays». E nota che il Cunto de li Cunti, piuttosto che al Decamerone, deve paragonarsi alle Mille e una notte: «Et encore cette ressemblance ne repose que sur des traces presque méconnaissables. Les contes orientaux étaient absolument inconnus à Basile; ils n’arrivaient à lui que défigurés par l’imagination populaire. Les épisodes des Mille et une nuits, qu’on rencontre chez Basile, sont toujours réduits à des proportions triviales, et altérés par je ne sais quelle atmosphére de cuisine et de ménage; la fantaisie napolitaine, au lieu d’embellir, d’idealiser l’univers, l’a enlaidi à dessein; pour en développer la vitalité, elle l’a peuplé de monstres»24.
Giudizio anche più giusto e sicuro ne dette Iacopo Grimm, prima nel terzo volume dei Kinder und Hausmärchen, e poi nella prefazione alla traduzione tedesca del Pentamerone, fatta dal Liebrecht. «Il Basile, — egli scrive — , ha raccontato secondo il gusto di un popolo vivace, spiritoso, e scherzoso, con continue allusioni ad usi e costumi, ed anche alla storia antica e alla mitologia, la cui conoscenza è, specialmente tra gli Italiani, abbastanza diffusa; sicchè il suo stile è proprio l’antitesi di quello calmo e semplice delle fiabe tedesche. Egli è straordinariamente ricco di espressioni metaforiche e proverbiali e di espressioni spiritose, delle quali ha una gran provvista, e che, per lo più, sono calzantissime: non raramente anche l’espressione, secondo il costume del paese, è libera, sfacciata, senza veli, e perciò spiacevole alla nostra moderna delicatezza......; tuttavia, non si può mai dire del Basile, come dello Straparola, che egli sia immorale. Naturalmente, ha anche una certa sovrabbondanza e una certa piena del discorso......; ma si tratta del gusto proprio dei popoli meridionali, di cercare sempre nuove espressioni, e d’insistere col discorso sopra un oggetto; non già di povertà della cosa stessa, che si cerchi coprire. E, giacchè la folla dei paragoni per lo più è esagerata per arguzia e scherzo, anche i più strani e ridicoli di essi non sembrano punto assurdi.....25». E, nella prefazione alla traduzione del Liebrecht, stampata il 1846, dopo averne riconosciuta la superiorità sullo Straparola, soggiunge: «Quando vi si acquisti una certa famigliarità, l’esposizione veramente attraente di queste fiabe reca un gran diletto. Come sono inesauribili, per esempio, le svariate espressioni, colle quali si dipinge ogni volta il far dell’alba e il tramontar del sole! Si possono trovare queste espressioni spesso fuor di luogo; ma, quasi sempre, appariranno ingegnose, e, in sè stesse, esatte. Nelle graziose e svariate immagini si ritrae il rumoreggiare e il mormorare dei ruscelli, la profonda oscurità delle selve, e il cantare degli uccelli; nel mezzo della pompa orientale, si percepiscono le più lievi voci della natura. Il discorso scorre ricco di paragoni, giuochi di parole, proverbii, rime..., ed anche qui, come nelle schiette fiabe di tutti i luoghi, quando la narrazione giunge ai punti importanti e decisivi, ricompariscono semplici, ma inimitabili rime, che fermano l’attenzione del narratore, e, nel tempo stesso, dell’uditore. Cosi in Peruonto:
Damme passe e fico,
Si vuoi che te lo dico!
e nella Schiavottella;
Chiave ncinto,
E Martino drinto!
e nella Cenerentola:
Spoglia a me,
E Vieste a te!26
seicento, e l’aver adoperato il dialetto napoletano. Quel dialetto gli dà un non so che d’ingenuo e di beffardo ad un tempo; e sembra contenere ironia implicita.....»28.
Varii appunti sono stati mossi allo stile del Basile. Il Galiani pretende che il Basile abbia voluto imitare, anche nello stile, il Boccaccio; il che non è esatto. Ma non si può negare che il Basile, dal lato della forma esteriore, scriva piuttosto male. Non già che si debba pretendere, che egli, scrivendo nel seicento, avesse dovuto pensare a stenografare il dettato popolare delle fiabe, come ha fatto Vittorio Imbriani, «ritraendo esattamente la maniera, con cui fraseggia e concatena il pensiero il volgo29». E neanche che avesse dovuto cercare di rappresentarlo artisticamente, come ha tentato qualche artista moderno. Ciò, del resto, era escluso dalla posizione stessa, da lui assunta verso la sua materia; posizione che ci siamo sforzati finora di determinare. Il Basile riorganizzava, e rifaceva l’esposizione popolare, secondo gli ideali di una prosa più riflessa; come poi adoprò anche il suo imitatore, Pompeo Sarnelli. Ma il Sarnelli, scrivendo a modo non perfettamente popolare, ha un suo periodare regolare e logico; laddove il Basile affastella le frasi popolari in lunghi periodi, poco connessi come pensiero, e poco piacevoli come armonia. Il Liebrecht ha notato che lo stile del Basile ha una sovrabbondanza stucchevole di costruzioni partecipiali; che le sue proposizioni sono piuttosto appiccicate che connesse; che cominciano spesso colla stessa parola, per lo più ma; cosicchè lo stile spesso manca di rotondità e di varietà30. Ed ha ragione. L’esposizione dei suoi cunti soffre anche d’una certa mancanza di rilievo e di distacco. In un sol periodo, talvolta, s’iniziano e svolgono e compiono lunghe azioni. E si va innanzi senza quei riposi, che la fantasia vede tra le varie azioni, e che vuol sentire nell’andamento dello stile.
Vittorio Imbriani diceva che i difetti dello stile del Basile in massima parte sparirebbero con una buona interpunzione, sostituita a quella, orrida, delle antiche edizioni. In questa nuova edizione, la punteggiatura è tutta rifatta; ma i difetti dello stile del Basile non sono spariti se non in piccola parte, perchè sono difetti intrinseci, della costruzione del periodo. È giustizia, invece ricordare che l’opera del Basile fu pubblicata postuma, o che l’autore non v’aveva dato l’ultima mano31.
Altri appunti, i più giusti di tutti, furono mossi dal Galiani alla lingua del Basile. Ma, già un mezzo secolo prima del Galiani, varii di quei difetti erano stati riconosciuti da uno scrittore napoletano, autore rinomato di libretti buffi, Francesco Oliva, in una sua incompleta ed importante Grammatica della lingua napoletana, che si trova manoscritta alla Biblioteca Nazionale32. Il Galiani comincia col dire che il Basile aveva «la più incredibile e minuta contezza di tutte le voci, dei proverbii, de’ modi di dire, e delle espressioni strane e bizzarre, usate dal volgo». Ma, per isfoggiare questa ricchezza, accumula le parole e le frasi, «onde, avviene che, spessissimo, collochi fuor di luogo parole e frasi, che non hanno quel senso in cui egli lo impiega». Infatti, «è grande il numero delle parole toscane che egli ha forzate e contorte alla pronunzia nostra, quantunque da noi non mai adoperate. Incredibile è poi a vedere lo studio e la fatica che fa a non usar mai quelle voci, pure italiane, che in gran copia abbiamo, ed usualmente adoperiamo, e sostituirci o le più rancide o le più laide dell’infima plebe, solo perchè si scostano dalla lingua generale italiana»33.
E, delle tre classi principali d’errori di lingua, che distingue nella sua grammatica, il Basile fornirebbe largamente gli esempii; perchè, infatti, è reo, sia di parole che son comuni all’italiano e al napoletano, da lui, inutilmente, storpiate in forma napoletana; sia di parole tutto italiane, da lui, invano, napoletanizzate; sia di parole napoletane, adoperate in senso e costruzione che non hanno34.
Certo, basta svolger le prime pagine del Cunto de li Cunti per trovare esempi di questa continua invasione creatrice sul dialetto popolare. E troverete stascionato, cauzare, voze, deze, jonze, ecc.; e infinite altre voci simili, che il popolo non ha mai usato. Il Basile aveva la la curiosa preoccupazione di fare il dialetto napoletano più napoletano, più esclusivamente napoletano, di quel che è difatti. E così ha bandito gran numero di vocaboli e forme, che nel dialetto sono lievemente diversi dai corrispondenti italiani, e molti strani vocaboli con desinenze dialettali ha usato.
Le improprietà poi si spiegano in altro modo. La continua ricerca dell’effetto comico, ch’è nel suo stile, il considerare il dialetto come un mezzo di comico grottesco, han fatto sì ch’egli è andato scegliendo tutte le frasi goffe del popolo, adoperandole continuamente, come se nel dialetto non ce ne fossero altre per esprimere quei concetti, quando si parla sul serio. Per esempio, Tadeo dirà alle vecchie, nell’introduzione: «Pe la quale cosa deve scusare moglierema se s’ha schiaffato ncapo st’omore malenconeco de sentire cunte; e, perzò, se ve piace de dare mbrocca a lo sfiolo de la Prencepessa mia, e de cogliere miezo alle voglie meje, sarrite contente, pe sti quatto o cinco jorne che starrà a scarrecare la panza, ecc. ecc.». Ora, tutte le frasi sottolineate esistono in dialetto, ma si dicono solo in alcuni casi particolari, o dispregiativamente o goffamente parlando. Il Basile, invece, ne usa a tutto pasto.
Eppure, il Basile, malgrado la sua buona voglia di scrivere un dialetto napoletano in tutta la sua goffaggine, conservò e contribuì a stabilire l’uso di alcune forme auliche nel dialetto, che non si spiegano se non come eredità del tempo, nel quale il dialetto s’adoperava come lingua, e si cercava di sollevarlo verso il toscano. Di queste forme auliche, le più notevoli consistono negli articoli definiti lo, la, li, le, che vi si adoperano, laddove, nel dialetto schietto, gli articoli sono o (u), a,35.
Si noti ancora che i bisogni del suo stile e delle sue caricature hanno richiesto l’uso di molti vocaboli, specialmente astratti, che il popolo non ha, perchè non sente il bisogno d’indicare i pensieri, che vi corrispondono.
Tutte queste varie alterazioni hanno per effetto che per chi legga ora il Cunto de li Cunti, avendo riguardo al dialetto vivente, — che non può poi essere di molto diverso da quello vivente di due secoli fa — , il dialetto del Basile sembra, più che una lingua realmente parlata, una di quelle lingue arbitrarie, create dai letterati per fini letterarii, come la lingua maccheronica, o la lingua pedantesca.
- ↑ Cfr. Imbriani, o. c., II, pp. 437-45.
- ↑ Cfr. G. Rua, Novelle del Mambriano del Cieco da Ferrara, esposte ed illustrate, Torino, Loescher, 1888.
- ↑ Sullo Straparola, basti citare l’importantissimo studio del Rua, Intorno alle Piacevoli Notti dello Straparola (in Gior. stor. lett, ital., XV, 111-151, XVI, 218-283).
- ↑ «...,nach der gewòhnlichen ausgebildeten Erzählungsart strebte, und eine neue Saite anzuschlagen nicht verstand» (Kinder-und Hausmärchen, gesammelt durch die Brüder Grimm, 3," ed., Göttingen, 1856, III, 291). Cfr. anche Imbriani, l. c., II, 446.
- ↑ Reisebilder (Italien), I, Kap. XII.
- ↑ «Io confesso, — scriveva il Gozzi, nel fare l’esposizione del suo Amore delle tre Melarance — , che rideva di me medesimo, sentendo l'animo a forza umiliato a godere di quelle immagini fanciullesche, che mi rimettevano nel tempo della mia infanzia» (Le Fiabe di C. G., ediz. Masi, Bol., 1885, I, 27).
- ↑ Causeries du Lundi, Paris, Garnier, V, pp. 272-3. In un artic. recente della Revue des deux mondes (1 dic. 1890), A. Barine ha cercato di mettere in rilievo la parte storica, che si trova nelle fiabe del Perrault.
- ↑ G. I, 8
- ↑ G. I, 3.
- ↑ Berlin, 1851, pp. 517-8.
- ↑ Dunlop, l. c.
- ↑ Straparola, Piacevoli notti, V, 2. cfr. Rua, l. c., XVI, 243.
- ↑ Pitrè, Fiabe, Novelle, ecc., IV, {Bibl., VII), n. CCLXXXVIII, pp. 242-7. Cfr. anche I (Bibl., IV), n. XXV, pp. 221-26.
- ↑ Kinder und Hausmärchen, III, 291.
- ↑ Trad. ted. cit, II, 260; cfr. Dunlop, l. c.
- ↑ O. Guerrini, Rabelais in Italia, in Brandelli, Roma, Sommaruga, 1883, Serie terza, pp. 153 sgg.
- ↑ Giuseppe Martinozzi, Il Pantagruel di Francesco Rabelais, Città di Castello, S. Lapi, 1885, pp, 29 sgg.
- ↑ V. cap. preced.
- ↑ Cito dall’ediz.: Francois Rabelais, Tout ce qui existe de ses oeuvres, curata da L. Moland, Paris, Garnier, s. a.: pp. 231-2.
- ↑
Ho avuto la fortuna di trovare, nella Bibl. di S. Martino, un rarissimo opuscoletto del seicento, intit: Istoria | Ridicolosissima Napolitana del | Dottor Pugliese | Dove si indendono (sic) gli avvertimenti che | dà il detto Dottore ad un Giovane, | che desiderava pigliar moglie | In Napoli Con licenza de’ Superiori; di dodici facciate, con una rozza vignetta sul frontespizio, arieggiante ai soliti libercoli popolari. Contiene un poemetto di 44 ottave, che non è se non una parafrasi e trasformazione della bella poesia del Cortese. Basti dire che comincia:
Parlaje no juorno a lo Dottor Pugliese,
Che utriusque juris è dottorato;
Per cortea me cercaje no tornese,
Ca canoscette ca stea nnamorato;
Ed io li disse: Te faccio le spese,
Dimme si è buono ad essere nzorato.
Me respose, decenno: A la buon’ora.
Si tu non sì nzorato, e tu te nzora!
Questo poemetto, per quanto ne so io, non s’è perpetuato, come tanti altri simili, nella biblioteca del popolo, e non si ristampa più. Ma porge egualmente un bell’esempio del modo, nel quale, passando per varii tramiti, l’invenzione di uno scrittore straniero possa divulgarsi presso la plebe di un altro popolo. Dal Rabelais al Cortese, dal Cortese, all’anonimo versificatore, e da questi al patrimonio popolare, ai canti, ai proverbii, alle facezie, ecc. - ↑ Del Dialetto napol., pp. 121-2.
- ↑ Imbriani, l. c., II, 435.
- ↑ Lo Vernacchio, resposta a lo dialetto napoletano, Nap., 1780, cap. IV
- ↑ J. Ferrari, art. e, nella Revue des deux mondes, 1840, XXI, pp. 507-8.
- ↑ Kinder und Hausmärchen, iii, 291-2.
- ↑ Trad. cit., I, vii-viii.
- ↑ Chi ha avuto la fortuna di leggere qualcuna delle fiabe, che egli stampava a pochi esemplari, e regalava agli amici, m’intende agevolmente. Vedere, per es., il Mastr’Impicca, fiaba (estr. dal giorn. Il Calabro, A. ix).
- ↑ Imbriani, o. c., 446-8. V. anche in questo luogo quel che dice contro il Galiani e il Cantù. E di quest’ultimo, che egli chiama il più fecondo se non il più facondo, il più voluminoso se non il più luminoso, degli storici italiani, riportato e criticato il giudizio, conclude spiritosamente: «Il Basile, se vivesse, sclamerebbe, bisticciando al solito suo: O can tu!»
- ↑ V. Imbriani, La Novellaia fiorentina, Livorno, F. Vigo, 1877, ded. e pref.
- ↑ Trad. cit., II, 322-3.
- ↑ V. cap. preced.
- ↑ Ms. Bibl. Naz. xiii, ii, 56. — V. spec, p. 44
- ↑ 0. c., pp. 123-4.
- ↑ O. c., p. 25.
- ↑ Di qui uno dei punti principali della disputa tra i sostenitori del dialetto letterario e del dialetto parlato: i primi dei quali vorrebbero che si scrivesse, per es.: lo pane, la sora, e gli altri, giustamente: u ppane, a sora.