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cxviii introduzione

Boccaccio, o sia il testo di esso. A tanta impresa mancavangli interamente i talenti per eseguirla. Privo in tutto e di genio elevato, e di filosofia, e di felicità d’invenzione, e di ricchezza di cognizioni, a poter immaginare adornare novelle graziose o interessanti, o tragiche, o lepide, o morali, altro non seppe pensare che d’accozzare racconti delle Fate e dell’Orco così insipidi, mostruosi, e sconci, che gli stessi Arabi, fondatori di questo depravatissimo gusto, si sarebbero arrossiti d’avergli immaginati»1.

Come bene notò l’Imbriani, il Galiani cercava nel Cunto de li Cunti la filosofia dei Contes philosophiques del Voltaire2; ed era naturale la sua delusione! Egli non vide tutto ciò che c’è di intimamente scherzoso nel modo di narrare del Basile, e il libro gli apparve, come doveva apparirgli, un mostruoso accozzamento di cose senza significato! — Alla parte burlesca e satirica dette invece troppa importanza quell’arguto avversario del Galiani, che fu Luigi Serio. Il Serio fece del Cunto de li Cunti addirittura un libro di satira letteraria. Se il Basile nel Cunto de li Cunti fu un seicentista sfacciato, nce sta lo pperchè — , diceva il Serio.

Il Basile fu un letterato di valore, che scrisse molte opere italiane, oltre quelle in dialetto; e curò, tra l’altro, le edizioni del Bembo e del Casa e del Tarsia, che prova che era uomo di buon gusto. E lui ed il Cortese, vista l’invasione del cattivo gusto ai loro tempi, vollero coi loro scritti napoletani mettere in derisione le bizzarre



  1. Del Dialetto napol., pp. 121-2.
  2. Imbriani, l. c., II, 435.