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introduzione cxvii

allo svolgersi spontaneo d’un ingegno, che cerca la sua via, e tenta, e progredisce, e, finalmente, cammina sicuro.

Il Liebrecht nota giustamente che il Basile avrebbe imitato nel modo più felice, auf das Glüklichste, i procedimenti artistici del Rabelais. Tutta questa felicità si spiegherebbe agevolmente, ammettendo la mancanza appunto d’imitazione, cioè l’originalità del Basile. — Il che, beninteso, non esclude che potesse aver letto il Rabelais. Ma aver letto uno scrittore non vuol dire procedere da esso, e, molto meno, imitarlo.


Il Cunto de li Cunti ha, dunque, due facce, una seria ed una burlesca: una ch’è rappresentazione serena ed ingenua; l’altra, ch’è invasione burlesca dell’individualità dello scrittore nell’opera. Un’opera d’arte, così complessa, richiedeva per esser compresa e analizzata tutta la larghezza della critica moderna; di quella critica gloriosamente inaugurata in Italia da Francesco de Sanctis. Nei tempi andati i lettori lo sentivano e lo gustavano: le molte edizioni, e traduzioni, e imitazioni lo provano; ma i critici non riuscivano a capirlo e a spiegarlo.

Non lo capi Ferdinando Galiani, il quale, nella sua celebre opericciuola: Del dialetto napoletano, considerando il Basile come scrittore serio, e il Cunto de li Cunti come un libro di novelle ad instar del Decamerone, scriveva: «A costui (cioè al Basile), disgraziatamente per noi, venne il capriccio di contraffare l’incomparabile Decamerone di Giovanni Boccaccio, e compose un Pentamerone..... nel dialetto napoletano, e così divenire il