Lo cunto de li cunti/Introduzione/IV

IV, Fortuna letteraria del Cunto de li Cunti

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IV, Fortuna letteraria del Cunto de li Cunti
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IV.


Fortuna del Cunto de li Cunti. — Traduzioni e imitazioni.



Alle prime, che si son viste, seguirono subito altre edizioni del Cunto de li Cunti. Varie ne fece lo stampatore Camillo Cavallo; una, tra le altre del 1644, dedicata al signor Felice Basile1; un’altra del 1645, dedicata di nuovo al P. Alfonso Daniele2.

Nel 1674 l’editore Antonio Bulifon, un francese stabilito a Napoli, «vedendo, — com’egli stesso dice — , che veniva sommamente desiderato questo, altrettanto arguto quanto giocoso, Pentamerone del vivace e bizzarro ingegno del Cavalier Giovan Battista Basile», fece sì che, «ridotto alla vera lettione, per mezzo delle stampe ei rinascesse». Chi lo ridusse alla «vera lettione» fu un abate pugliese, Pompeo Sarnelli, poi vescovo di [p. cxxix modifica]Bisceglie, appassionato cultore del dialetto napoletano, che allora serviva, a quanto sembra, da correttore nella stamperia del Bulifon3.

Il Cunto de li Cunti fu, in quest’edizione, intitolato, per la prima volta, sul frontespizio: Il Pentamerone: titolo più breve, che ricorda illustri precedenti, e che perciò prevalse4. Ed, anche sul frontespizio, è detto «co tutte le zeremonie corrietto»; e, certo, il Sarnelli vi spese intorno molte cure. Ma queste cure non ebbero un risultato degno di lode. Il Sarnelli era uno di quei buoni editori all’antica, che credevano loro obbligo il far da collaboratori cogli autori, che ristampavano. Egli comincia col lamentarsi, giustamente, delle ultime ristampe, che s’eran fatte del Cunto de li Cunti: «l’angresta de l’utema stampa l’havea fatto na magriata de manera che manco lo Patre (che lo cielo l’accoglia ngrolia!), se fosse vivo, l’haveria canosciuto pe figlio sujo». E, riguardo all’ortografia, ebbe un eccellente criterio: «M’è parzeto cosa conveniente, — egli dice — , lassarelo stare sto povero popillo co chella artocrafia, che l’aveva lassato lo [p. cxxx modifica]patre, azzoè, comme l’haggio trovato allo primmo livro, che fu stampato da deverze stampature a ghiornata a ghiornata, secunno che ghievano ascenno5».

Ma, pel resto, non fu egualmente felice. Il Sarnelli corresse una grande quantità di forme, che a lui parevano non ischiettamente napoletane. Talvolta, colse nel segno; tal’altra, fece una correzione superflua, perchè, in realtà, in napoletano esistono ambe le forme, quella del Basile, e l’altra sostituita da lui; tal’altra ancora, errò del tutto. Egli, non napoletano, era buon conoscitore del dialetto napoletano; ma la sua conoscenza, formata collo studio, non poteva esser mai piena e sicura, e pareggiar quella di chi abbia appreso la lingua dalla balia. Talvolta, benchè non frequentemente, egli sostituì parole e frasi sue a quelle del Basile. Non aggiunse, però, nè tolse nulla di sostanziale nel testo, ed io, nel riscontro che ho fatto, non ho trovato se non una sola, e curiosa, e scherzosa interpolazione, passata poi in tutte le edizioni seguenti. Ed è questa, che si trova nel trattenimento V della G. III, dove il Basile dice: «arrevato all’acqua de Sarno»; e il Sarnelli aggiunge: «chillo bello shiummo, c’ha dato nomme a la famiglia antica de li Sarnelli»!

Uno sguardo, che si dia alle prime cinque o sei pagine dell’edizione del Sarnelli. confrontandola coll’edizione originale, basta a fornire gli esempi dei varii generi di correzioni arbitrarie, che ho enumerati. Il Sarnelli ha ragione, quando crede forme più napoletane Zoroasto e [p. cxxxi modifica]Aracreto, che Zoroastro e Eracleto; masto, che mastro; cossì, che così; ajetate, che etate; rommenanno che romenanno; farrà, che farà; canosciuta, che conosciuta; cammenato, che caminato; solete, che solite; e simili. Ma ha meno ragione di sostituire ueglio, con uoglio; viento, votato, con biento e botato; sebetura, con sepetura; humane, con homane; recevute, con recepute; ecc. E sbaglia del tutto, quando in luogo di: se scoppasse a ridere, scrive: le scoppasse a ridere; o quando muta corzete in corzere; tanto composta che pareva acito in tanto composto; vusciola, con usciola; racecotena a la catarozzola, in a la cecotena, a la catarozzola; morrannose, essenno stracqua, in morrandose, essendo stracqua; ecc. Queste, ed altre osservazioni, si possono fare nelle prime cinque sei pagine dell’edizione del Sarnelli e continuarle per tutte le cinquanta novelle6.

Tuttavia, questa fatica, fatta dal Sarnelli sul testo del Basile, se fu dannosa come lavoro di editore, ha una certa importanza filologica, e, per chi studierà il dialetto napoletano, sarà utile l’interrogare questa lunga serie di osservazioni (chè tali sono), fatte dal Sarnelli, sul testo del Basile7. Peccato che il sistema di correzione non sia costante e rigoroso, e che la scorrettezza della stampa abbia ancor peggiorato questo difetto! [p. cxxxii modifica]Il Pentamerone dell’edizione del Bulifon fu dedicato all’Eletto del Popolo, Pietro Emilio Guaschi.

Cinque anni dopo, se ne ebbe un’altra ristampa a Roma, il 1679, per Bartolomeo Lupardi8. E, a Napoli, lo ristampava il 1697, Michele Luigi Muzio9.

Anche le Muse napoletane ebbero varie ristampe durante il seicento; cioè nel 164310, nel 1647 Martorana, Not. cit., p. 13., nel 166911, nel 167812, nel 169313.


Queste molteplici edizioni, ed altre probabilmente ora ignote, provano che il Cunto de li Cunti era in quel tempo letto e piaceva. «Galantissimo ed amenissimo libretto, il quale è per le mani di tutti», scriveva il 1683 [p. cxxxiii modifica]il Nicodemi nelle sue Addizioni alla Biblioteca Napoletana del Toppi14. E, colle ristampe e colle letture, vanno di pari passo le imitazioni: che non mancano mai alle opere, che hanno un’impronta nuova e originale, come è appunto questa del Basile.

Tra i lettori e gli ammiratori del Basile, c’era quel napoletano spirito bizzarro di Salvator Rosa. Ed è notissimo, che, quando Lorenzo Lippi prese a scrivere il Malmantile riacquistato, «grandissimi furono ancora gli stimoli, che ebbe a ciò fare da Salvator Rosa, non men rinomato pittore che ingegnoso poeta. Da questo ebbe poi il libro, intitolato Lo Cunto de li Cunti overo Trattenimiento de li Peccerille, composto al modo di parlar napolitano, dal quale trasse alcune bellissime novelle, e, messele in rima, ne adornò vagamente il suo poema»15.

Il Malmantile fu pubblicato, postumo, il 167616. Il Lippi aveva avuto, tra gli altri scopi, uno simile a quello del nostro Basile: come questi del napoletano, egli voleva mostrare la ricchezza del parlar volgare fiorentino. Ma quanto è inferiore, nel resto, la sua opera al Cunto de li Cunti! Opera fredda, insignificante, che pareva scritta pel solo scopo d’essere aggravata, come fu poi, dalle note linguistiche di Paolo Minucci17. [p. cxxxiv modifica]

Parrà strano che il Lippi avesse bisogno di ricorrere al Cunto de li Cunti per cavarne la materia delle fiabe popolari, che introdusse nel suo poema. Le fiabe, che racconta il Basile, — si dirà giustamente — , sono una ricchezza comune a tutti, un patrimonio d’ogni popolo, e che nel seicento vivevano certo a Firenze, come a Napoli. Ma il Basile col suo libro rivolse l’attenzione del pubblico, distratta in altro, su quelle fiabe, e dette, a molte di esse, una forma definita ed artistica. Cosicchèé, parvero una novità, ed erano certo una rivelazione.

Nessuno ha indicato finora precisamente e completamente le imitazioni del Lippi dal Cunto de li Cunti. Esse si riducono a tre punti. Il secondo cantare del Malmantile è una versificazione esattissima del T. IX della G. I del Cunto de li Cunti. In questo Trattenimiento si racconta come, non potendo una regina aver figli, un sapientone indicasse al re un rimedio per produrre la gravidanza; che era di far mangiare alla regina un cuore di dragone, cucinato da una donzella. La regina s’ingravida, ed anche la donzella, e hanno due figli, similissimi, ai quali mettono nome Fonzo e Canneloro. L’odio della regina costringe Canneloro a spatriare; ma, nel partire, egli indica, al suo quasi gemello, il modo di venire a conoscere se egli stesse bene, o se incontrasse perigli, o se, addirittura, fosse morto. Canneloro va; vince una giostra, alla quale era posto per premio la mano della figliuola del re; e sposa costei. Ma, andando a caccia, prende a seguitare una cerva fatata, ch’era viceversa un orco; che lo tira dietro sè, e lo rapisce. Fonzo ha notizia del pericolo di Canneloro; si mette in viaggio; [p. cxxxv modifica]ingannaed uccide l’orco, e libera l’amico. — Come saggio del modo, nel quale il Lippi mette in versi la prosa del Cunto de li Cunti, indico il luogo, nel quale il Basile, descrivendo i meravigliosi effetti del cuore di drago, dice: «lo re...... lo dette a cocinare a na bella dammecella. La quale, serratose a na cammara, non cossì priesto mese a lo fuoco lo core, e scette lo fummo de lo vullo, che non sulo sta bella coca deventaje prena, che tutte li mobele de la casa ntorzaro. E, ncapo de poche juorne, figliattero, tanto che la travacca fece no lettecciulo, lo forziere fece no scrignetiello, le seggie facettero seggiolelle, la tavola no tavolino, e lo cantaro fece no cantariello mpetenato, accossì bello, ch’era no sapore!» E il Lippi verseggia così questa bizzarra fantasia del Basile:

          Ed egli, preso il prelibato cuore,
          Lo diede al cuoco; al qual, mentre lo cosse,
          Si fece una trippaccia, la maggiore,
          Che ai dì dei nati mai veduto fosse.
          Le robe e masserizie, a quell’odore,
          Anch’elle diventaron tutte grosse,
          E in poco tempo a un’otta tutte quante
          Fecer d’accordo il pargoletto infante.
          
          Allor vedesti partorire il letto
          Un tenero e vezzoso lettuccino;
          Di qua l’armadio fece uno stipetto;
          La seggiola di là un seggiolino;
          La tavola figliò un bel buffetto;
          La cassa un vago e picciol cassettino;
          E il destro un canterello mandò fuore,
          Che una bocchina avea tutto sapore!18

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Tutto composto di riminiscenze del Cunto de li Cunti è il racconto, che fa nel IV cantare Psiche, venuta a cercar lo sposo in Malmantile. Il principio d’esso è formato da un pezzo del T. V della G. II. Nella parte di mezzo, c’è qualche riscontro coll’ introduzione, col T. V della G. III, e anche col T. I, G. IV. La conclusione, infine, è tolta di peso dall’introduzione del Cunto de li Cunti 19.

La novella di Nardino e Brunetto, nel VII cantare20, è una contaminazione delle novelle del Basile Lo Cuorvo (IV, 9), e Le tre cetre (V, 9), non senza mescolanza di alcuni nuovi particolari.

Come poi il Lippi imiti il fare del Basile, lo provi questa descrizione dell’uom selvatico Magorto, eco delle tante felicissime grottesche descrizioni di orchi, che si trovano nel Cunto de li Cunti:


          Ma io ti vuò dar adesso un’abbozzata,
          Qui, presto presto, della sua figura.
          Ei nacque d’un Folletto e d’una Fata,
          A Fiesol, ’n una buca delle mura:
          Ed è sì brutto poi che la brigata,
          Solo al suo nome, crepa di paura.
          Oh questo è il caso a por fra i Nocentini
          A far mangiar la pappa a quei bambini!

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          Oltre ch’ei pute come una carogna,
          Ed è più nero della mezzanotte,
          Ha il ceffo d’orso e il collo di cicogna,
          Ed una pancia, come una gran botte:
          Va sui balestri, ed ha bocca di fogna,
          Da dar ripiego a un tin di mele cotte:
          Zanne ha di porco, e naso di civetta,
          Che piscia in bocca, e del continuo getta.
          
          Gli copron gli ossi i peli delle ciglia.
          Ed ha cert’ugna lunghe mezzo braccio:
          Gli uomini mangia, e, quando alcun ne piglia,
          Per lui si fa quel giorno un Berlingaccio,
          Con ogni pappalecco e gozzoviglia;
          Ch’ei fa prima col sangue il suo migliaccio,
          La carne assetta in varii e buon bocconi,
          E della pelle ne fa maccheroni!
21

Queste imitazioni sono, a dir vero, abbastanza infelici, e nè conservano l’intonazione dell’originale, né lo variano con una nota nuova e sentita.

Ma l’efficacia che ebbe il Basile a Napoli, sugli scrittori napoletani, fu anche maggiore. Egli fu, come a dire, il Dante del nostro dialetto: e fissò la varia e ricca lingua napoletana; cosicchè gli scrittori posteriori, — come capita spesso di riconoscere — , mostrano aver studiato piuttosto le sue opere che il vivo linguaggio del popolo22 [p. cxxxviii modifica]Un solo però, tra gli scrittori, imitò propriamente il genere dell’opera del Basile; e, dopo lui, si mise a narrare dei cunti. E fu questi il suo editore del 1674, Pompeo Sarnelli, che, dieci anni dopo, pubblicava un volumetto, intitolato: La Posilecheata de Masillo Reppone de Guanopoli.23

«Se be millanta valenthuommene hanno scritto, dapò lo Cortese, vierze napoletane, nesciuno, dopo Giannalesio Abbattuto, ha scritto cunte!», egli dice. E si mise lui all’opera, e mandò innanzi il libriccino, coll’intenzione, se piacevano, di farne no libro gruosso. La cornice della Posilecheata è, come dal titolo, una scampagnata a Posilipo. Masillo Reppone, invitato dal suo amico Petruccio, va a passare con lui una giornata, in una villa di [p. cxxxix modifica]Posilipo. E con lui fa un gran pranzo, rallegrato dalla compagnia e dalla cooperazione del Dottor Marchionno, ghiottone e buongustaio di prima forza, che divora da solo tre quarti del pranzo, e chiacchiera sempre lui, indiavolatamente, senza arrestarsi un istante; e, ad ogni cibo che gli si presenta, ha il suo proverbio pronto, il suo motto, la sua erudizione; e chiede ora questo, ora quello, con la massima franchezza, o sfacciataggine che si voglia, nella certezza di far cosa grata all’amico, e nell’alta coscienza alla sua riputazione di ghiottone da mantenere! Dopo il pranzo, vengono cinque donne del popolo, e ciascuna d’esse racconta una novella.

Le cinque novelle del Sarnelli, quanto all’argomento, non trovano riscontro in quelle del Basile24. E hanno questa novità, che, nel loro insieme, costituiscono una specie di mitologia di alcuni più famosi monumenti di Napoli: del Gigante di Palazzo, del Nettuno di Fontana Medina, della così detta Capa de Napole, dei Quattro del Molo, ecc., giacchè, neanche novellando, il Sarnelli obliava del tutto d’esser lui l’autore della buona e notissima Guida di Napoli25.

Nel resto, il Sarnelli imita, e imita bene, il fare del Basile; del quale piglia il metodo del racconto, le [p. cxl modifica]introduzioni, i movimenti delle narrazioni, gli scherzi e i giochetti, e solo deve riconoscersi che in certo modo lo avanza nella facilità del dire e nella correttezza della forma. È un’imitazione intelligente ed elegante.


Anche nel secolo XVIII il Cunto de li Cunti ebbe non poche edizioni. Il monopolio di queste ristampo fu, per la prima metà del secolo, degli stampatori Muzio, che ne fecero un buon numero. E Michele Luigi Muzio lo ristampava il 1714 e 1722, e Gennaro Muzio il 1728. Poi, la Stamperia Muziana il 174926. In tutte queste edizioni continuò la correzione arbitraria del testo, iniziata da quella del Sarnelli.

Le Muse Napolltane ebbero ristampe il 1703 e il 171927, e poi di nuovo nel 174528.

E, nella prima metà del secolo, si faceva del Cunto de li Cunti la prima traduzione, che fu di dialetto in dialetto, cioè dal napoletano nel bolognese. Furono le traduttrici le illustri donne Maddalena e Teresa [p. cxli modifica]Manfredi, sorelle di Eustachio, e Teresa e Angiola Zanotti, sorelle di Giampietro e di Francesco29. La loro traduzione è intitolata: La Chiaqlira dla Banzola o per dir mii fol dìvers Tradôtt dal parlar napulitan in leingua bulgneisa; e fu stampata la prima volta a Bologna il 1713.30

In questa traduzione sono tolte le divisioni in cinque giornate, le introduzioni alle giornate e ai singoli conti, le quattro egloghe. L’introduzione è anche abbreviata, e seguono poi, senz’altro legature, le cinquanta novelle, meglio le 49, perchè la 50.a serve da conchiusione.

Le traduttrici hanno fatto anche cadere molti dei fronzoli, coi quali il Basile capricciosamente le adornava: cosi le descrizioni dell’alba, del tramonto, della notte, ecc., cosi le lunghe parlate, e, in generale, la loro traduzione è più compendiosa dell’originale. «An poss negar, — dicono nell’avvertenza — , ch’ l’ gli avvn pers purassà d’ quel grazi, ch’ gli an in tla so lingua natural; e se ben ch la sostanza dia fola è l’istessa, an’ i è però una somma fedeltà in tla traduzion, part pr n’aver cattà di pruverbi in bulgnes, ch’avvn l’istess significat di napolitan, e pò mi i n ho miss di nusti, ch fors ben n vran brisa dir quel, ch’dseva qui; part anch pr assri multissm cos, ch’ mi n’ intendeva, e ch’ ai ho pò cumpost alla piz, e quest ara cavsà, ch’ l’ sinn armas, in zà e in là, più [p. cxlii modifica]secchi. Chi lizrà l’ Napolitan’, vdrà anch, ch’ai è dLa robba, ch’ n’è tradutta brisa, e quest, perchè gli in digression ch’ai ho stimà, ch’ s’ possn tralassar senza ch’ s’ guasta la sostanza dla fola»31.

Certo, a questo modo, le novelle hanno perduto un po’ l’impronta originale. Ma, così abbreviate e sfrondate, esse sono anche belle, e, se han perduto da una parte, hanno acquistato, dall’altra, qualità, che prima non avevano. Le traduttrici raccontano con vivacità e garbo, e con semplicità, e con intonazione tutta popolare.

E la loro opera fu fortunata, perchè ebbe ristampe del 1742, 1777, 1813, 183932 e 1872. Essa «fissò le regole e l’ortografia del dialetto, e divenne il codice del bel parlare bolognese, e si ristampa ancora, e, per quanto conti un secolo e più di età, non mostra di essere invecchiato, nemmeno nelle forme esteriori ed ortografiche del dialetto»33.

Cosi si potessero fare le stesse lodi a un traduttore italiano, che ebbe il Basile, il 1754! Un’artistica [p. cxliii modifica]traduzione italiana sarebbe stata pel Cunto de li Cunti una nuova vita. Ma non era fatica da poterla fare uno scrittore del secolo XVIII colla sua ammiserita lingua italiana! Del resto, questa traduzione italiana è tanto cattiva, che non è il caso di dar di essa nessuna colpa al secolo XVIII; la colpa va tutta intera al pessimo anonimo traduttore.

Il quale, anche, tolse via le egloghe, e, inoltre, intere novelle34 e abbreviò e sfrondò le altre, e si dette finanche il gusto di mutare infelicemente i nomi dei personaggi, ed altre circostanze. Ma, lasciando stare i grossi spropositi che vi sono35, con quale goffaggine sia fatta la traduzione, lo dice quest’esempio, ch’è tolto dal principio della prima novella:


Eravi nella Città di Biserta una dama dabbene chiamata Drusilla, la quale, oltre a sei figlie femmine, avea un figlio maschio tanto sciocco e scimonito, che la povera madre perciò ne stava scontentissima; nè v’era giorno che non l’avvertiva, ora correggendolo dolcemente, ed ora al dolce delle correzioni, vi mescolava l’asprezza delle invettive, od anche, se v’era di bisogno, delle bastonate; con tutto ciò non furono queste cose bastanti a far sì che Rodomonte si fosse riavuto dalla sua dapocaggine; per la qual cosa, vedendo Drusilla non esservi speranza, che suo figlio ravveduto si fosse dalla sua sciocchezza (quasichè il difetto di natura fosse stato in lui cagionato per colpa sua), un giorno fra gli altri con un bastone lo battè di maniera, che poco vi mancò a non romperle tutte le ossa, ecc. [p. cxliv modifica]Questa traduzione fu ristampata il 1769, il 1784 e il 186336


Circa lo stesso tempo, il Cunto de li Cunti, servì da fonte a Carlo Gozzi per alcuna delle sue fiabe, rinnovandosi cosi il caso di Lorenzo Lippi.

Anzi, proprio le due prime fiabe del Gozzi furono tolte dal libro del Basile. L’Amore delle tre melarance fu, come è noto, recitata la prima volta il 25 gennaio 176137; e ce ne avanza una sorta di scenario, disteso dallo stesso autore. Il terzo atto è tolto di peso dalle Tre cetre (V, 2) del Basile. Nel primo atto, si trova un’altra reminiscenza del Cunto de li Cunti nell’espediente, al quale ricorre Truffaldino per indurre al riso il principe Tartaglia.

E anche di peso è tolta dal Cunto de li Cunti la seconda fiaba del Gozzi: Il Corvo, che fu rappresentato prima a Milano, poi a Venezia, nell’autunno del 1761.

Oltre a queste, il Gozzi non fece altre imitazioni del Cunto de li Cunti38. Il Gozzi, tra gli elaboratori artistici [p. cxlv modifica]delle fiabe, è uno dei più notevoli. Anch’egli, come il Basile, non espose le fiabe, con la sola intenzione artistica di riprodurre in forma conscia l’inconscia produzione popolare. Che, anzi, le fece servire a tutto un complesso di teorie e polemiche letterarie. Ma anch’egli, come il Basile, pure profanando, e in misura molto maggiore, la creazione popolare, non la corresse, e non la svisò, e il sentimento popolare sopravvive in quelle elaborazioni teatrali, ragione del fascino, che hanno esercitato su molti critici di questo secolo. I fini letterarii che si propose il Gozzi, furono, — come disse stupendamente Francesco de Sanctis — , fini transitorii, «i quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo lavoro». Ma la parte viva della sua opera è «il concetto della commedia popolare in opposizione alla commedia borghese..... Il contenuto è il mondo poetico, com’è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto»39.

Nella Bibliothéque des romans furono dati alcuni estratti del Cunto de li Cunti del Basile. E, da questi estratti, il Wieland, nel 1778, desunse la materia di un

[p. cxlvi modifica]suo racconto in versi, intitolato: Peruonte (sic) oder die Wünsche, che corrisponde al Peruonto, T. III della G. I del Cunto de li Cunti40.

Il racconto del Wieland, nelle due prime parti, segue a passo a passo l’esposizione del Basile, solo adornandola di nuovi particolari e svolgendo le varie situazioni. L’intonazione è scherzosa, ma non vi manca la punta di un significato morale. C’era un re di Salerno, che aveva una bellissima figliuola, chiamata Vastola (sic), ammirata, corteggiata, che, tuttavia, non pensava a maritarsi:


          Blieb mitten in den Flammen,
          Nach wahrer Salamanderart,
          Stets unversengt, eiskalt, und felsenart!


Intanto, un giovanotto, chiamato Peruonto, brutto e sciocco e sgraziato, mandato dalla madre al bosco a far legna, trova tre fate, che dormono al sole, e le ricopre, formando sopra i loro corpi una pergola ombrosa. Le tre fate si svegliano, e, per gratitudine, gli danno la fatazione, che ogni desiderio, ch’egli formi, diventi subito realtà. Peruonto, fatto il suo fascio di legna, pensa tra sè: — se questo fascio, invece di farsi portare, mi portasse a casa! — Ed ecco il fascio si mette in movimento come un cavallo. E Peruonto, via! E, seguito dalla gente che rideva e schiamazzava, va così verso casa, e passa innanzi al palazzo del Re, dove Vastolla, ch’era alla finestra, esclama:

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          Das lohnt sich auch der Müh, dass cine ganze Stadt
          Um einen solchen Bärenhäuter
          So narrisch thut!
          Sein Pferd ist schlecht, und, doch, für solchen Reiter,
          Den Wechselbalg, den Unhold, noch zu gut!


Peruonto, irritato, le augura che possa esser gravida di lui e partorire due gemelli. — Così avviene, e segue, come nel Basile, il racconto dell’ira del Re al veder gravida la figlia, il parto, i conviti, e le feste fatte per iscoprire tra i convitati il padre dei bambini. E, in tal modo, si scopre Peruonto. Il Re, fatta la vergognosa scoperta, subito lo fa mettere con Vastolla e i bambini in una botte e gittare a mare. E lì, nella botte, alla mercè delle onde, comincia un dialogo tra loro, dal quale Vastolla viene finalmente a sapere del mirabile dono, che Peruonto aveva ricevuto dalle fate, e dell’augurio, che le aveva fatto. Peruonto, indettato da Vastolla, si augura che la botte diventi una bella barca, e così sono salvi. E, subito dopo, si augura di approdare in un luogo delizioso, di avere un grandioso castello, e poi di diventare bello; finalmente, di essere dotato di quell’intelletto, che non aveva. Colmi di tutti questi doni,


          Prinzessin, — spricht Peruonto — , wir haben
          Der Wünsche nun genug. Der Feen Gütigkeit
          Ist gross; doch immer neue Gaben
          Expressen, wäre Geize und Unbescheidenheit!
          Nichts ist nunmehr uns Noth als die Begnügsamkeit;
          Allein mit dieser muss der Mensch sich selbst begaben.
          Lass durch Genuss uns nun verdienen, was wir haben!
          Uns lieben, Vastola, und Alles um uns her
          Mit unserm Glück erfreuen und beleben,
          Sei unser Loos! Was könnten wir noch mehr
          Uns wünschen, oder was die Feen mehr ims geben?

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A questo punto il Wieland cessa di seguire il Basile, il quale conchiude coll’andata del Re, padre di Vastolla, al castello degli sposi, e col riconoscimento tra di loro colla pace e la felicità di tutti. La terza parte del racconto del Wieland narra, invece, come, dopo qualche settimana, quella vita di piena e tranquilla felicità cominciasse ad annoiare Vastolla. E, facendo fare a Peruonto un continuo uso del dono delle fate, ora vanno al festino del Re a Salerno, ora corrono a Napoli a menare gran pompa di vita, ora si trovano a Venezia per la festa del Bucintoro, ora invitano una gran società al loro castello, tra la quale Vastolla ha occasione d’innamorarsi d’uno degl’intervenuti, e procurarsi un amante. Finalmente, Vastolla domanda a Peruonto di poter fare da sola un viaggio a Sorrento, e gli chiede una borsa di denaro, che non s’esaurisca mai. Peruonto acconsente; ma, appena restato solo, si volge alle fate, supplicandole di riprendere il dono, che gli avevano fatto:

 
                              Hort mich, ihr gute Feen,
          An denen ich, trotz meinem bessern Sinn,
          So oft durch Wünschen mich vergangen,
          Hört meinen letzen Wunsch! Nehmt Alles wieder hin
          Was ich von euer Huld empfangen,
          Und jetzt in diesem Augenblick
          Mich, in den Stand, worin ich war, zurück,
          Als ich zu wünschen angefangen!


Le fate acconsentono, e tutto sparisce, e Vastolla si ritrova alla Corte del padre, come se niente fosse, e Peruonto di nuovo colla vecchia madre, solo restandogli, di tutto ciò che aveva ottenuto, l’intelletto. [p. cxlix modifica]

Il Wieland, — dice un suo critico — , volle in questo racconto adombrare il concetto espresso dallo Schiller nei versi:


          Was kein Verstand der Veslandigén sieht
          Das ubet in Einfalt ein kindlich Gemùht!


Ma, forse, sbagliò nel rappresentare dapprima il suo eroe, non come uomo d’animo semplice, ma come persona rozza e goffa. È felicissima, invece, la mescolanza della più profonda serietà colla più furbesca malizia, e l’esecuzione mostra la maestria del poeta nell’esporre le singole situazioni.41.



Si è vista la polemica, alla quale il Cunto de li Cunti dava luogo nel 1779-80 fra il Galiani e il Serio. E, pochi anni dopo, lo stampatore Porcelli, nel pubblicare la sua Collezione dei poemi in lingua napoletana, nei volumi XX e XXI ristampò, il 1788, le opere napoletane del Basile, cioè il Cunto de li Cunti e le Muse; e questa è stata l’ultima edizione, che se ne sia fatta nel dialetto originale. In essa il testo del Basile, già segno di tante arbitrarie correzioni, è rovinato nel peggior modo, specialmente per ciò che riguarda l’ortografia. Questa edizione è la più facile a trovarsi42. [p. cl modifica]Il Galiani, cogli stretti ideali del secolo XVIII, disconobbe, come abbiamo visto, l’importanza artistica del Basile. E, quantunque fosse iniziato a tutti i progressi dello spirito scientifico del secolo XVIII, non presentì l’importanza scientifica, che il nostro secolo avrebbe trovato in quell’opera. Ma gli studi filologici e mitografici sono di quelli, che è tutta gloria del nostro secolo l’avere incominciati, e portati a tanta altezza.

Fu Jacopo Grimm, il padre della nuova filologia e della nuova mitografia, quegli che doveva scoprire nel Cunto de li Cunti, semplice libro di diletto per un paio di secoli, un nuovo importantissimo aspetto.

Note

  1. Per Camillo Cavallo MDCXLIV, ad istanza di Salvatore Rispolo, un vol. di pp. 654 Passano, Novell. ital. in prosa, Bol., 1868. I, 43-8). Ma la ded. ha la firma del 2 febbraio 1654. Sbaglia il frontespizio, o la dedica? Da una parte, parrebbe, il frontespizio, essendo molti gli esempi di questi sbagli di decine d’anni in numeri scritti in cifre romane. Ma in questo caso credo che vi sia sbaglio nella data della dedica, perchè ho visto un’edizione delle Muse napolitane, del 1643, anche pel Cavallo, fatta anche ad istanza del Rispolo.
  2. In Napoli, Per Camillo Cavallo, MDCXLV, ad istanza di Gio. Antonio Farina. La ded. è in data 30 ottobre 1645. Il Cavallo dice che l’opera del Basile «è si fattamente stata gradita dall’universo, che sono forzato a darla in luce in questa terza impressione»
  3. Nel Celano (Avanzi delle poste, pp. 318 sgg.) c’è un dialogo, nel quale apparisce il Sarnelli, che andava «alla stampa del Bulifon» a correggere i fogli di un poema, che pubblicava un tal De Notariis.
  4. II Pentamerone del Cavaller Giovan Battista Basile, overo lo Cunto de li Cunte, Trattenimiento de li Peccerille di Gian Alesio Abbattutis Novamente ristampato e co tutte le zeremonie corrietto. All’Illustriss. ecc. Pietro Emilio Guaschi, Dottor delle leggi e degnissimo Eletto del Popolo della fedelissima Città di Napoli, In Napoli, ad istanza di Antonio Bulifon, Libraro, all’insegna della Sirena, MDCLXXIV, di pp. 653 num., più 12 inn. al princ. e 3 alla fine.
  5. Di questo punto una severa critica fa l’Oliva nella sua cit. Gramm. ms. Ma di ciò più avanti.
  6. V. App. H, nella quale ho fatto il confronto delle varianti delle due edizioni, per un’intera novella, la X della G. I.
  7. Un vocabolarista napoletano potrebbe forse citare come due opere distinte il Cunto de li Cunti del Basile e il Pentamerone secondo la lezione del Sarnelli.
  8. Il Pentamerone ecc. (come nell’ed. 1674), all’Illustrissimo Sig. e Patron. Coll. il signor Giuseppe Spada, in Roma MDCLXXIX, nella stamperia di Bartolomeo Lupardi, stampatore Camerale (pp. 633 num., e 10 inn. a princ., e 3 in fine).
  9. Passano, l. c., che dice esservi un esemplare di quest’edizione nella Biblioteca Comunale di Bergamo.
  10. Le Muse Napoletane, Egloghe di Gian Alesio Abbatutis, In Napoli, per Camillo Cavallo, 1643, ad instanza di Salvatore Rispolo allo Spitaletto; pp. 141 num.
  11. In Napoli, per Gio. Francesco Paci, 1669. Ad istanza di Francesco Massari e Domenico Antonio Parrino Librari (pp. 143 num). È ded. a Peppo Monte, «miedeco azzellentissimo, e Poeta famosissimo».
  12. In Nap. ad istanza di Francesco Massaro, 1678. Ded. al signor Ciccio Montecorvino (pp. 136 num., più 8 inn. a princ).
  13. Pel Mollo, 1693. Ved. Martorana, o. c.,, p. 23.
  14. Nicodemi, Addizioni copiosissime, ecc., In Napoli, 1683, p. III
  15. F. Baldinucci, Vita di Lorenzo Lippi (a capo dell’ediz. napol. del Malmantile riacquistato, a cura di Gabriele de Stefano, Napoli presso Gabriele Sarracino, 1854).
  16. II Lippi era morto nel 1664.
  17. L’edizione colle note del Minucci fu pubblicata il 1688.
  18. Malmantile, II, 16-17.
  19. Malmantile, IV, 2982.
  20. Malmantile, VII, 27-105. Quantunque erroneamente citando, a questa imitazione credo che alluda il Passano, quando dice che la nov. 9, IV, e 9, V del Cunto furono imitate nel C. III del Malmantile (cfr. l. c.).
  21. Malm., VII, 53-5.
  22. Ciò osservava anche l’Oliva nella sua Grammatica ms.: «Non essendovi altri più accreditati e migliori scrittori, che gli avvisati Cortese e Basile, sono essi in cotanta riputazione giunti, che a taluno sembra temerità dare un passo fuori le di loro pedate in iscegliere il soggetto delli componimenti e servirsi della lingua; perchè stimano errore l’allontanarsi dalle persone, azzioni, e parole plebee, nè approvano cosa, che in quelli non sia; quasi che tutta la lingua fosse nei di loro libri, che sono due, pur troppo piccoli rispetto alla vastità di quella, e non veggono o veder non vogliono che una menoma parte delle voci e delle maniere non contengono del parlare di quella.....» (ms. c., p. 12)
  23. Ded. ad Ignazio de Vives. — In Napoli presso Giuseppe Roselli, 1684, a spese di Antonio Bulifon. — Ristampò quest’edizione Vittorio Imbriani (Nap., Morano, 1885), corredandola di larghissime illustrazioni. Fatica da lui fatta tra le fiere sofferenze della sua ultima malattia; ed è forse appunto per questo che vi si trovano esagerate alcune bizzarrie del suo ingegno. Tuttavia, l’edizione è importante, il testo correttissimo; e, nelle illustrazioni, è raccolto molto prezioso materiale folk-loristico.
  24. II Köhler e l’Imbriani indicarono i riscontri di queste novelle, nell’Illustrazioni XXXI, XLI, LI, LXX, LXXI, della ed. cit.
  25. Della vanità e dell’impopolarità di questi tentativi individuali d’invenzioni mitologiche, discorre molto bene l’Imbriani, conchiudendo: «Nella formazione dei miti ben poco o nulla può l’impeto sacrilego di una fantasia individuale». Cfr. una mia recensione dell’ed. dell’Imbriani, in Rassegna Pugliese, II (1885), n. 18.
  26. Queste edizioni (che io ho sott’occhio), sono descritte dal Molinaro del Chiaro, art. cit., e dal Passano, l. c. Un amico m'indica un suo appunto di un’altra ed. del Muzio del 1708 (?). Il Passano cita anche una edizione stampata nel 1747, e un’altra Nap., s. n., in 8. (?).
  27. Nap., per Giacinto Musitano, — Martorana, o. c., p. 23.
  28. Le Mmuse napoletane ecc. Ded. a D. Giovanni Columbo, A Napoli, MDCCXLV, Per Dommineco Langiano e Dommineco Vivenzio compagne (pp. 131 num., e 10 inn. a princ.).
  29. Cfr. Quadrio, o. c., I, 210. Che la traduzione del Cunto de li Cunti sia delle donne Manfredi e Zanotti, afferma il Fantuzzi, Notizie degli scritt. bologn.., (Bol., 1781-9), V, 201-2.
  30. Passano, o. c., pp. 46-7. La prima edizione, che cita il Fantuzzi, è quella del 1742.
  31. Cito dall’ed. Bulogna MDCCCXIII, per Gasper de’ Franceschi alla Clomba.
  32. Quella del 1839 è intitolata: Al Pentameròn d’Zvan’ Aléssi (sic) Basile, osia zinquanta fol dette da dis donn in zeinqu giornat; ed ha molte varietà sulle precedenti, perchè riveduta sull’originale napoletano, le novelle divise in cinque giornate, e fattevi molte aggiunte di passi tralasciati, come anche delle quattro egloghe, che vi sono esposte in prosa. L’ed. del 1872, presso Priori, è cit. dal Pitrè (Fiabe popolari sic., Palermo, 1875. I, p. LIII n.).
  33. O. Guerrini, La vita e le opere di Giulio Cesare Croce, Monografia, In Bologna, presso Nicola Zanichelli, 1879; pp. 134-5.
  34. Mancano i racconti: I, 9; II, 3; V, 4, 5, 6, 7, 8, 9.
  35. Uorco, per es., è tradotto sempre in Orca, cosicché il Re dà in isposa la figlia all’Orca! La Gatta Cennerentola è tradotto: Il gatto, benchè si tratti di una femmina!, ecc.
  36. II Passano cita l’edizione; Il Conto dei Conti, trattenimento de’ fanciulli. Trasportato dalla napoletana all’italiana favella, ed adornato di bellissime figure, In Napoli, si vendono (sic) nella libreria di Cristoforo Migliaccio, 1754, in 12.° (pp. 264, oltre l’antip. e il front.). Secondo l’Imbriani (XII Conti pomigl., Nap. 1876, p. 24), questa deve essere una seconda edizione. Per quella del 1769, v.Pitrè, l. c. Per quella del 1784, v. Molinaro, art. cit. Per quella del 1863, (che ho sott’occhio), anche Passano, l. c..
  37. Le Fiabe di Carlo Gozzi, ed. cit. del Masi; I, Pref., pp. LXXVII, e sgg.
  38. Ne fece, bensì dalla Posilecheata del Sarnelli, a sua confessione; l’Augel Belverde, infatti, è tratto dalla Ngannatrice ngannata (c. III della Posil.), cosa non notata né dal Magrini (I tempi, la vita e gli scritti di Carlo Gozzi, Nap., l887, p. 221), né dal Masi (l. c.); e che veggo ora notato dal Rua, Intorno alle Piac. notti, l. c., XVI, 238.
  39. F. De Sanctis, Storia della letter. ital., Nap., 1879, II, 39l.
  40. Wieland’s Werke, hgg. von II. Kurz, Leipzig, s. a., Einleitung, p. xxiii.
  41. Kurz, Einleitung, cit., p. xxiii
  42. Il Pitrè (l. c.) menziona anche un’ediz. di Roma, 1797. Ma credo si tratti d’un equivoco.