Le tentazioni/Un piccolo uomo
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UN PICCOLO UOMO
ella catena di detenuti giunti la sera del 23 marzo al Penitenziario, eravi un giovane piuttosto distinto, vestito di grigio, con un gran cappello quasi bianco, l’ombra delle cui larghe falde orlate di nastro grigio oscurava un pallido volto scarno dal profilo aquilino e dalla barba nera a punta, accuratamente tenuta. Durante il viaggio aveva continuamente taciuto, con le lunghe ciglia nere chine, le sopracciglia aggrottate, e gli occhi costantemente fissi sulle mani scarne e nervose dalle unghie assai lunghe, serrate nel lucente ferro delle manette. Solo nel
Penitenziario sollevò le palpebre e fissò gli acuti occhi neri sul volto del Direttore che, a sua volta, lo guardava attentamente e freddamente. Per una bizzarra combinazione il detenuto e il Direttore avevano lo stesso nome, probabilmente causato dal cognome e dalla vanità dotta dei due padri rispettivi: Cassio Longino! E lo sapevano entrambi: e il detenuto a cui l’esotico nome aveva spesso, nel suo lontano paese d’oltremare, ove cassio significava sottana bianca, procurato più d’una caricatura, ora almeno provava l’amara soddisfazione di vedersi, per esso, distinto dai freddi occhi verdognoli del signor Direttore.
Sin dal primo sguardo i due uomini si dispiacquero: il Direttore, d’età incerta, era piccolo, un po’ curvo, con piccoli piedi e piccole mani magre che teneva costantemente nascoste entro le saccoccie del lungo soprabito di panno nero lucido. Nel suo viso terreo sbarbato una grande aria di sofferenza fisica che arricciava gli angoli della bocca pallida: negli occhi piccoli e verdi una fredda e quasi crudele indifferenza: sui capelli biondi perfettamente rasi due grandi orecchie erette.
Per tutto questo e perchè era Direttore del carcere dispiacque al n.° 245; e il n.° 245 dispiacque al Direttore per la sua aria sdegnosa, per lo sguardo fiero con cui osò fissarlo, e per la sua forte e sana giovinezza.
Durante la consegna dei nuovi arrivati il Direttore non aprì bocca, e per più giorni Cassio, rinchiuso in una cella a pagamento non lo rivide. La sua inferriata dava a levante: triste occhio aperto in una delle pallide facciate dello stabilimento, guardava il lontano Appennino ancora nevoso e la campagna Toscana a cui il marzo ridonava il verde lucente delle erbe e il verde pallido e quasi giallo delle prime foglie: nell’orto del Penitenziario, coltivato da reclusi in tenuta di tela e in berrettino rosso, Cassio, che per speciale permesso del Ministero teneva i suoi abiti signorili, vedeva i peschi fioriti d’un rosa intenso, e le delicate rose dei meli sparpagliate a mazzi sull’aria tiepida.
Egli rimaneva sempre presso l’inferriata, fremendo continuamente di dolore; i lunghissimi vespri velati lo lasciavano mortalmente stanco di angoscia; tuttavia non dormiva di notte, e sull’inspido giaciglio sentiva la percussione dolorosa del sangue tormentato. La mattina, quando la guardia, un lungo giovinotto la cui testa rossa spiccava sull’azzurro cinereo della brutta divisa, entrava per ripiegar la branda, Cassio era già in piedi, diritto davanti all’inferriata.
Fuori le prime rondini scendevano e salivano, con le ali e il petto brillanti al sole. Il detenuto non degnava la guardia d’una parola, non rispondeva ai continui richiami, ai piccoli fischi, all’agitarsi delle mani del suo vicino di destra, e, nell’ore di aria, quando veniva per un’ora portato al triste cortile, non badava a nessuno, con sdegnosa indifferenza passeggiando su e giù sul triste lastrico, umido di rugiada.
Nello stabilimento si sparse la voce che egli era un ricchissimo signore sardo, parente del Direttore, e siccome il Direttore era temuto ed odiato (nessuno dei detenuti sapeva però la cagione di questo odio e di questa paura, poichè l’ometto non aveva mai fatto loro del male tranne che col suo freddo sguardo indifferente), anche il n.° 245, dopo una settimana dal suo arrivo, era odiato e, strana cosa, temuto.
Avendo chiesto permesso di scrivere, il primo aprile egli fu chiamato in Direzione; una stanza grigia desolata, arredata rigidamente: dalla finestra inferriata penetrava un rettangolo di sole pallido e scaccheggiato, sul cui chiarore muovevasi l’ombra d’un ramo lontano. Il Direttore lavorava curvo più che mai su un tavolo grigio: non si mosse, non si sollevò che dopo lungo tratto di tempo durante il quale Cassio, ritto e rigido, con gli occhi fissi sull’ombra del ramo tremolante al sole, si rose di umiliazione.
Ah! davanti agli altri, davanti a quella turba di delinquenti e di vilissime guardie, egli almeno poteva darsi la soddisfazione d’una certa dignità sprezzante: era più forte di coloro che lo legavano, più grande di quelli che sdegnava chiamar compagni di sventura: ma dinanzi a quel piccolo uomo sofferente e sprezzante doveva curvarsi, rispondere, umiliarsi.
— Ella — gli disse bruscamente il Direttore, voltandosi senza levarsi, — condannato a tre anni di semplice detenzione per falso, può scrivere solo una volta al mese.
La sua voce era un po’ fessa, ma l’accento puramente toscano.
— Lo so — rispose Cassio, — ma non ho chiesto semplicemente di scrivere al mio paese, ma di poter scrivere per conto mio, nella mia cella.
— Impossibile, per ora. Perchè non chiede d’esser ammesso nell’ufficio degli scrivani?
— Se è possibile esservi ammesso!....
— Possibilissimo.
Cassio fece la domanda lo stesso giorno, e l’indomani fu ammesso all’ufficio, ove l’abbondantissimo lavoro era malamente sbrigato da altri tre detenuti. La stanza, attigua alla Direzione, era ancor più grigia e desolata di questa, e i tre scrivani, il primo grasso e calvo con piccoli occhi azzurri cisposi, il secondo biondo, pallidissimo e con un profilo quasi diafano, e il terzo un giovane alto, tarchiato, con una forte testa bruna ricciuta e un volto raso da imperatore romano, fecero cattiva impressione al nuovo venuto. Essi parevano rassegnati e quasi lieti della loro melanconica sorte: Cassio invece provò un disgusto profondo, accresciuto da quella stupida rassegnazione dei tre compagni di sventura, — uno schianto di impotente disperazione, e si pentì della sua domanda. Meglio restar nella sua cella, con le mani protese al sole dell’inferriata, davanti al lontano Appennino che gli ricordava le patrie montagne risuonanti del nitrito del suo puledro nero slanciato alla caccia del muflone, — solo con la sua condanna e col suo dolore.
Il detenuto dalla testa ricciuta, più ardito degli altri due che si contentavano di guardarlo alla sfuggita, cercò subito far conoscenza, in modo rispettosissimo. (Sapevano che aveva il nome del Direttore e la voce corsa fra gli altri detenuti).
— Ella è sardo?
— Sardo, — diss’egli freddamente.
— Poichè la sorte ci ha avvicinato in questo luogo, permetta....
— Bella sorte! — disse Cassio amaramente e troncò il complimento che il disgraziato voleva rivolgere al presunto gran signore sardo. E non disse nulla di sè, e non chiese nulla degli altri.
Tre giorni dopo arrivò per lui dalla Sardegna una lettera quadrata ed elegante, in busta avorio; la scrittura era alta e sicura, una indefinibile fragranza esalava dai fogli grandi e lucenti. Il Direttore l’aprì e la lesse con una certa trepidanza, non confessandosi che l’aveva aspettata.
Dopo tutto egli era uomo, giovine ancora; aveva molto sofferto e molto amato, e se i suoi dolori particolari gli avevano lasciato quella profonda indifferenza, che passava per crudeltà, per le infinite miserie su cui gli toccava dominare, un pezzetto di cuore e di sentimento umano gli restava ancora. Se il n.° 245 fosse stato un povero diavolo come quasi tutti gli altri detenuti, nonostante l’omonimia interessantissima, il Direttore dopo il primo giorno avrebbe lasciato correre; ma il bel giovane fiero e distinto che veniva quasi circondato da una leggenda, attirava l’attenzione di tutti, e quindi anche la sua.
E le bizzarre voci correnti per le lugubri celle e nei tristi ambulacri dello Stabilimento, erano giunte anche a lui.
Il dubbio che in esse ci fosse qualcosa di vero — Longino, infatti, non era un cognome sardo, — aveva per un momento fatto sfavillare la verde indifferenza dei piccoli occhi: ed ora essi s’animarono di nuovo leggendo la lettera.
Ma nulla di particolare essa conteneva: era una sorella, nata da un secondo matrimonio della madre di Cassio, che scriveva. Un affetto intensamente pietoso vibrava nei quattro fogli, una dolcezza senza nome, una suggestione soavissima di conforto e di rassegnazione.
“Fatti coraggio, Cassio, non disperare, non soffrire troppo: pensa che siamo soli nel mondo, soli ad amarci e a sperare l’uno nell’altro. Il tempo passerà, e quando Dio vorrà riunirci io saprò ricompensarti dell’immenso sacrifizio che tu facesti per me. Non umiliarti, non disperarti; i buoni sanno che la tua colpa è stata un eroismo....„
— Anche? — pensò il Direttore. — Tutti i condannati sono innocenti, sono vittime, ma che siano anche eroi?....
Eppure quella lettera, tanto diversa dalle volgari epistole che giungevano al Penitenziario, così buona, fine, delicata e amorosa, lo fece pensare.
Lo prese una curiosità morbosa di sapere, di conoscere, contro cui invano tentò lottare. E contro la sua volontà riluttante, nonchè contro i Regolamenti di cui era scrupolosissimo, fece chiamare il n.° 245 per consegnargli la lettera in Direzione. Occorrendo una scusa gli consegnò prima un uggioso lavoro da eseguirsi nell’ufficio, poi gli disse, fissandogli in volto gli occhi nuovamente immersi in egoistico raccoglimento:
— C’è una lettera per Lei.
Cassio non disse nulla, ma sollevò la testa e una rossa vampa di commozione gli colorì il volto e le orecchie.
E, per la seconda volta, accadde un fenomeno; il Direttore del Penitenziario ebbe invidia del detenuto. Perchè al detenuto, nella sua profonda miseria, giungeva una voce di conforto e d’affetto che doveva illuminargli tutto il buio orizzonte d’un fulgore d’aurora lontana che riflettevasi sul suo volto; e a lui, libero e padrone, solo e perduto nell’infinita tristezza di mille profonde miserie, non arrivava mai, nè da vicino nè da lontano, una voce di affetto, un raggio di luce.
Nella sua commozione Cassio intravide qualche cosa d’anormale nell’animo del Direttore e ne profittò, da astuto sardo ch’egli era, chiedendo arditamente il permesso d’aver tosto la lettera e poterla leggere in Direzione.
Meglio lì, sotto la mal celata indifferenza dei piccoli occhi verdi, che nell’orrendo ambiente dell’ufficio, tra la volgare curiosità dei tre rassegnati scrivani.
Da quel giorno egli parve più socievole, più rassegnato, e il signor Direttore gli mostrò qualche deferenza che, non sfuggendo agli altri detenuti, confermò la voce della presunta parentela. Tuttavia non ottenne il permesso di scrivere prima d’esser compiuto un mese dal giorno del suo arrivo nello stabilimento, ma il giorno in cui potè finalmente scrivere ottenne due fogli. E la sua lettera non fu meno affettuosa di quella della sorella, ma meno dolce, meno delicata: fra le righe nervose fremeva il dolore dell’impotenza.
“Sono qui da un mese, ma mi pare d’esservi da trent’anni. Comincio a rassegnarmi; mi hanno messo nell’ufficio degli scrivani, con tre sconosciuti antipatici; (il Direttore cassò queste quattro parole), il lavoro è molto, quasi opprimente, ma fa passare meno dolorosamente il tempo. Sulle prime non potevo assuefarmi: ora sono meno disperato. Il signor Direttore è assai buono con me.
“Sì, sì, il tempo passerà, il tempo passa, ma intanto io ho l’impressione che la mia condanna sia eterna: che i 987 giorni che ancora mi restano da scontare sieno infiniti come le rene del mare. Mi opprime più di tutto il pensiero del tuo dolore.
“Ma pensando a te mi conforto. Tu sei tanto buona. Purchè, nella mia assenza, non ti mariti e ti dimentichi di me! L’ho detta grossa; perdonami, cara Paola; ciò che ho detto non è possibile. Come la buona sorella può dimenticare il fratello infelice? Eppure, alle volte, quando non posso dormire, accresce il mio affanno anche questo pensiero. Chi poteva credere che le cose andassero così?
“Io ero rassegnato a tutto, ma in fondo speravo nella giustizia degli uomini. Che cosa hanno fatto di me! Scrivimi presto, non dimenticarmi: se ciò fosse saprei trovare un termine fatale al mio soffrire. „
E non salutava nessuno, non si ricordava di nessuno, tranne che di lei. La risposta giunse a volta di corriere, con pacchi di roba, libri e denaro.
Il signor Direttore provò nuovamente uno strano fascino di dolcezza e di invidia leggendo la buona ed elegante lettera di Paola. Ella non rimproverava il disgraziato per la poca fede che mostrava nel suo affetto, ma si diceva accorata nel sentirlo tanto triste, lo assicurava che non si sarebbe maritata prima del suo ritorno, e aveva una buona parola anche per il signor Direttore. “Amalo e rispettalo: egli può farti molto bene, può esserti un padre: (un fratello, signorina! — pensò il Direttore): io prego per te e per lui: (grazie! egli disse fra se, un pò amaramente).
Nella terza lettera, avendole Cassio chiesto cosa ella faceva e come passava il tempo, Paola scrisse:
“I giorni passano tristissimi nella tua lontananza: io sbrigo come posso gli affari e vado spesso in campagna con la balia e il balio. Poveretti, essi mi sono di tanto aiuto. Andiamo a cavallo, e queste cavalcate sono il mio unico divago. A casa nulla di nuovo: lavoro attorno all’arazzo che cominciai in collegio, quando i miei sogni erano così diversi dalla presente realtà, copio in esso certi vecchi ricami sardi scovati dalla balia. Non vedo quasi mai nessuno; penso a te contando i giorni.„
— Perchè questa gente che sembra ricca e intelligente non pensa a chieder la grazia? — si domandò il Direttore; e passeggiando nell’orto, ove la primavera toscana trionfava con splendide fioriture di rose bianche, gialle e vermiglie, e dove fra l’intenso verde degli erbacci i berrettini rossi degli ortolani reclusi fiammeggiavano come papaveri, pensò assai stranamente alla soave e forte sorella del n.° 245. Se la figurava alta e bruna come il fratello, col pallido viso arabo marcato da quella fatale fisonomia che distingueva il detenuto; e la vedeva curva sul suo arazzo pazientemente istoriato, e slanciata al trotto d’un piccolo cavallo sardo, con gli occhi socchiusi al dardeggiante sole del maggio isolano. Poi si meravigliò, si vergognò della sua puerile romanticheria e provò una di quelle sorde e occulte collere che spesso violentando la sua naturale freddezza gli ribollivano nel sangue scarso, lasciandolo poi esausto e più che mai indifferente.
Passò la primavera e vennero altre tre o quattro lettere di Paola; nell’ultima ella prometteva di mandar il ritratto, purchè fosse sicura che avrebbero permesso a Cassio di riceverlo.
— È permesso — scrisse nervosamente in calce alla lettera il Direttore, prima di farla consegnare al detenuto.
Per una, due, tre lunghe settimane vi furono nello stabilimento — sotto il gran cielo azzurro pervaso da un sole ardente che cangiava le celle in fornaci snervati — due anime che attesero passionatamente, sebbene in diversa aspettazione, quel ritratto di donna.
L’attesa di Cassio era dolce e profonda: nella rassegnazione dolente che l’abitudine e la speranza cominciavano a infondergli nel cuore, l’attesa di quel ritratto gli dava quasi un sentimento di felicità: si svegliava prestissimo pensando che quel giorno avrebbe forse ricevuto; e in attesa della guardia che venisse a condurlo all’ufficio, tornava all’inferriata e protendeva ancor fuori le bianche mani, quasi volendo raccoglier entro le palme tutta la frescura del mattino: e pensava sempre al ritratto. Fuori le rondini scendevano e salivano sempre, gorgheggiando, con le ali e la coda periate di vividi riflessi di luce: la campagna gialla circondava di aurei tappeti il verde lucente dei lontani vigneti; e in fondo l’Appennino vigilava fra le cerule luminosità del mattino. Il detenuto ricordava le rosse aurore delle sue montagne fulgenti di ginestre fiorite, pensava al ritratto e provava un vago sentimento di gioia. Il Direttore s’alzava da letto col volto più che mai terreo e pensava anch’egli al ritratto, ma la sua attesa era composta di inquietudine, di amarezza, di collera contro sè stesso che non sapeva vincere la sua sciocca curiosità, il suo sciocco sentimentalismo, lo sciocco interesse che quella gente gli destava. (Così egli dicevasi). E scendeva negli orti, e risaliva in Direzione, e faceva il suo dovere, e sbrigava il suo arido lavoro, e passava con gli occhi freddi e le mani nelle tasche del soprabito estivo (anche nei giorni più ardenti indossava un leggero soprabito nero), attraverso quegli uomini dalla fronte marchiata sotto il sanguinante vergognoso berretto, ma aspettava il ritratto. In fondo in fondo, sotto la sua collera nascosta, sotto il suo crudele malumore, gli brillava un punto di dolcezza, una scintilla come quella che brillava smarrita nella fredda trasparenza dei suoi occhi verdi, vaga e incerta, sì, ma scintilla. E questa scintilla, questo punto di luce occulto e indefinito raggiò altamente all’arrivo del ritratto. Un ritratto vivo, splendido, non parlante ma sorridente d’un affascinante sorriso.
Ella non era come la fantasia se la figurava: era bionda, non bruna, bianca e delicatamente bella: negli occhi oscuri, non molto grandi ma graziosamente obliqui, nella bocca lunga ed infantilmente arcuata e nel mento diviso da una profonda fossetta, ardeva e scintillava un sorriso ineffabile. Quel sorriso era la bontà e la dolcezza delle sue lettere, era l’indefinita fragranza che le sue parole esalavano, era il misterioso e suggestionante fascino che aveva preso e conquistato da lontano la piccola anima di quell’ometto taciturno che passava per crudele ed era temuto e odiato solo perchè era un povero sognatore.
La lettera che accompagnava la fotografia era, al solito, buona e dolce: a un certo punto diceva:
“Mi ho fatto il ritratto pensando a te, e sorridendoti: che il mio sguardo e il mio sorriso ti rechino un po’ di gioia e ti confortino a sperare in giorni migliori di questi. Leggi nei miei occhi quanto ancora vorrei dirti.„
Il Direttore, a questo punto, guardò ancora gli occhi del ritratto, poi finì di legger la lettera, poi guardò nuovamente la fotografia, volgendola alla luce: e nel riflesso della luce l’immagine ebbe quasi parvenza di realtà, i begli occhi splendettero, le pure labbra sorrisero.
— Oh Dio, come sono sciocco! — disse a se stesso il signor Longino; ma in fondo all’anima pensava: — come scriverà al suo innamorato, questa creatura elegante e fine, se scrive così ad un fratello? — E tosto, tristemente, pensò ch’egli era piccolo, brutto, apparentemente vecchio, odiato e temuto da tutti quei disgraziati che il freddo suo occhio dominava.
Rilesse la lettera, tornò a guardare la lucente figura di Paola e.... per quel giorno nè l’una nè l’altra furon consegnati al detenuto.
Di notte il signor Direttore ebbe un sogno bizzarro: gli sembrava avvenisse una rivolta fra i reclusi; alcuni urlavano contro di lui, spezzavano le catene e gli si avventavano sopra.
Egli teneva fra le mani il ritratto di Paola, e non poteva muoversi, nè difendersi, perchè ciò facendo il ritratto sarebbe caduto per terra e il n.° 245 si sarebbe accorto dell’appropriazione indebita del signor Direttore. Ma mentre stava per esser soffocato dagli artigli dei reclusi, appunto Cassio si gettò fra loro gridando: Lasciatelo, perchè egli sposerà mia sorella! Allora diverrà buono con voi perchè ella è tanto buona!....
Si svegliò sudato e commosso, nè potè riattacar sonno nè trovar riposo.
Cassio, intanto, continuava nella sua attesa alla cui dolcezza cominciava però a frammischiarsi una vaga inquietudine: aspettò ancora una settimana, e il ritratto non giunse. E non giunse neppure alcuna lettera; ed era tanto tempo che aspettava! quanto tempo? quasi un mese. Che accadeva laggiù, dietro il mare arso dal sole, laggiù, fra le montagne ove il timo olezzava nei purpurei tramonti solitari? Paola doveva esser malata, se taceva così a lungo: o lo dimenticava? Cassio ricadde nella indicibile disperazione dei primi giorni: chiese il permesso di telegrafare, ma non l’ottenne; a mala pena gli fu concesso di scrivere due giorni prima che spirasse il mese dacchè ultimamente aveva scritto.
La sua lettera era così triste e scorata che il Direttore sentì più che mai acuto rimorso del suo reato: da due settimane egli viveva una vita infernale, e mentre ai reclusi pareva più odioso e crudele di prima, egli li fissava con insolita profondità umana nei piccoli occhi verdi. Sapeva, capiva finalmente come l’uomo può, contro la sua volontà, esser trascinato al reato. Leggendo la lettera dolente del n.° 245 si domandò ancora:
— Ma perchè non chiedono la grazia? — E questa volta non s’adirò per questo pensiero, anzi vi ritornò sopra, formulandolo meglio. Respinse però l’idea che la pietà per il n.° 245 non gli venisse destata solo dal rimorso ma da un sentimento più occultamente egoistico, dalla speranza di poter presto parlar liberamente col detenuto — non più tale, — e dirgli:
— Signore, io sono un sciocco, e perciò, non so come nè perchè, in sì breve tempo, mi sono stoltamente innamorato di vostra sorella, sebbene non abbia la fortuna di conoscerla. “Volete darmela in isposa?„
Paola telegrafò, e rispose tosto mandando in raccomandata un secondo ritratto. Nella sua fine bontà, per non destar inutili collere nel povero detenuto, fece vedere di non aver spedito altra fotografia e di non aver potuto scriver prima per molte ragioni che pazientemente addusse: principale quella di non essersi potuta fotografare prima.
— Com’è buona! — pensò il Direttore, ammirando tanta finezza; e in un impeto di entusiasmo fu per scriverle e rivelarle ogni cosa. Ma naturalmente non lo fece, ed ebbe molte tristi idee. — “Mi crederà un matto, e avrà paura per suo fratello.„
Passò anche il rimanente estate e s’inoltrò l’autunno: reclusi partivano e reclusi arrivavano: nell’ufficio degli scrivani i tre continentali sembravano più che mai rassegnati, talvolta anche allegri, destando un maledetto disgusto nel sardo che pure, in fondo in fondo, era rassegnato anche lui. Solo, nella dolcezza dell’autunno, nelle roride aurore dal cielo ineffabilmente puro, nei lunghi tramonti che sbattevano il loro riflesso d’oro rosso fin sulle lugubri pareti dell’ufficio, egli sentiva tormentosa la nostalgia della patria e della libertà. E fremeva come puledro tolto ai liberi pascoli e chiuso in mefitica prigione: ma sapeva domare le sue intime ribellioni, e talvolta s’immergeva così profondamente nella speranza e nel sogno dell’avvenire che il presente gli pareva già passato. Però quando giunse l’inverno e dagli Appennini neri di nebbia salirono a torme le nuvole, e la pioggia sgranò le sue incessanti lagrime irose contro le facciate dello Stabilimento, Cassio sentì i suoi nervi tendersi dolorosamente come corde indurite dal freddo. Di giorno, nella luce livida dell’ufficio, le tre teste degli scrivani, i tre volti grigi di freddo, i piccoli occhi azzurri cisposi, il profilo diafano del biondo, la testa da imperatore romano, gli apparivano come in tormentosa visione, destandogli un desiderio istintivo, brutale, di afferrare qualche cosa e percuoterla con tutte le sue forze contro quegli occhietti in modo da creparli, contro quel profilo in modo da schiacciarlo, contro quella testa in maniera da spaccarla. Questo desiderio cresceva di giorno in giorno: talvolta era così intenso che Cassio provava la strana, brutale sensazione di averlo realizzato; i muscoli delle sue braccia si rallentavano, un leggero brivido di orrore gli ondeggiava per le vertebre. Poi, rientrato in cella, rideva amaramente fra sè della strana ossessione, e capiva di odiare i tre disgraziati scrivani perchè gli rappresentavano, in quei terribili giorni invernali, tutta l’umanità e tutta la natura che lo torturavano e contro cui il suo organismo si rivoltava. Di notte, anche non dormendo, riposavasi alquanto. Fuori il vento scrosciava colla suggestionante sonorità di torrenti lontani. Nel perfetto buio, in quell’armonia selvaggia, Cassio perdeva la percezione del tempo e ricordava e sperava. Nel lettuccio, alla cui asperità le membra s’erano adattate, alitava un grato tepore, e, almeno, era cessata, col venir dell’inverno, la straziante molestia di certi animaletti rossi. Buone visioni rasserenavano l’infelice: la sonorità ondulata del vento gli delineava le care montagne lontane; la traccia del cinghiale tra le felci verdi; poi il fiume glauco, le pernici saltellanti fra gli oleandri in fiore: e fra ogni cosa tremolava il nitrito del suo puledro nero e sopra ogni cosa splendeva il sorriso di Paola.
Ma al grigio riapparir del giorno la dolcezza dei sogni notturni rendeva più amara la realtà: egli avrebbe finito con lo sfogarsi morbosamente contro i tre disgraziati compagni, se un giorno non l’avessero provvidenzialmente chiamato in Direzione.
Il signor Direttore si degnava chiedergli un favore: gli avevano regalato una pianticella aromatica, un ciuffetto di filamenti duri e secchi qua e là rinverditi da microscopiche foglioline d’un’acuta e caratteristica fragranza; proveniva dalla Sardegna, e quindi chiedevasi al detenuto se la conosceva e poteva indicarla perfettamente.
Cassio immerse le sue magre e bianche dita tra i filamenti castanei e aggrovigliati della pianticella, e l’annusò chiudendo un po’ gli occhi. Ebbe, dal profumo, la visione dei grandi pascoli montani del Gennargentu: un fremito di triste nostalgia gli tremò fra le sopracciglia.
— È il tirtillo, — disse.
— Il tirtillo. L’avevo immaginato. Il prezioso segreto dei pascoli sardi, che dà al formaggio sardo quello speciale aroma.
Cassio accennò di sì.
— Il famoso tirtillo; — disse inoltre il Direttore, — la nuova cura per l’epizoozia.
— Conosciuta da secoli in Sardegna — disse Cassio umilmente. — Molte cose che al continente passano per scoperte sono popolarissime nell’isola.
Il Direttore non protestò. Volse le spalle e si rimise a scrivere, e tutto pareva finito, quando improvvisamente rivolgendosi disse a Cassio, senza guardarlo:
— È stata chiesta la grazia, per lei?
— Sì: da appena fu respinto l’appello in Cassazione e mi trovavo ancora nelle Giudiziarie di Cagliari.
— A chi è stata chiesta?
— Al Ministero.
— Male. Il Ministero, anche se sollecitato, non definisce mai. Spesso il detenuto ha finito il suo tempo prima che sia definita la pratica.
Cassio si rattristò profondamente.
— Bisognerebbe volgere la domanda alla Regina; si ottiene più presto.
— Perdoni — disse Cassio curvando il volto — ma si otterrà? ma si otterrà?
— Se la domanda sarà fatta da sua sorella, si otterrà.... — rispose quasi stizzosamente l’altro, e volse di nuovo le spalle, di modo che non vide il rossore del detenuto, e questi non scorse il rossore del signor Direttore.
Questa volta il discorso era finito davvero; dopo un minuto Cassio fu ricondotto nell’ufficio. Ma era già un altr’uomo: la presenza dei tre infelici compagni gli riusciva compassionevole ma non più odiosa; le sue pallide dita conservavano la fragranza aromatica del tirtillo e accostandosele alla bocca egli sentiva tutta la fresca dolcezza delle sue alte praterie soffiargli nell’anima.
E per la prima volta, forse, il Direttore fu amato sinceramente da uno dei suoi detenuti. Cassio scrisse a Paola raccomandandole di chieder la grazia alla Regina.
“La domanda puoi farla tu stessa, senza ricorrere di nuovo all’arida e venale prosa di un avvocato. Esponi le cose come andarono. Io spero, e benedico la persona che mi consigliò.„
Passò anche l’inverno. Nelle albe ancora tarde ma limpidissime di febbraio Cassio tornava all’inferriata; il volto era esangue e le vene verdastre diramavano un ramo nudo sulla diafana epidermide della sua fronte, ma gli occhi brillavano di speranza. Dall’Appennino che sfumava le sue creste bianche sull’azzurro cristallino del cielo calava un gelido, ma sano odor di neve; lunghe strisce d’erba d’un verde umido vivissimo solcavano il paesaggio, e nell’orto gli albicocchi si filogranavano già di gemme rossastre.
Cassio sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, nella misteriosa attesa d’un lieto evento; tutto il preludio di quel lembo di primavera gli si rifletteva nell’anima.
Un altro uomo, libero nelle sue fredde e melanconiche stanze, provava la stessa irrequieta eppur dolce sensazione; i verdi occhi riflettevano il tenero splendore dell’erba rinascente, e una gemma vermiglia schiudevaglisi in cuore. Un giorno finalmente giunse la richiesta del Ministero sulla condotta tenuta nel Penitenziario dal detenuto Cassio Longino fu Isidoro, ecc. La relazione del Direttore fu splendida; egli ignorava per quali cause il n.° 245 aveva falsificato delle cambiali, ma lo riteneva un giovine onesto, d’ottime qualità morali, signorilmente educato. Per poco non aggiungeva la qualifica che un giorno lo aveva fatto ironicamente sogghignare nelle lettere di Paola. Non lo fece, ma assieme alla relazione partì per il Ministero, diretta a uno di quegli amici burocratici che non mancano mai alle persone come il signor Longino, una lettera assai ben fatta.
Fosse o no per effetto di questa lettera, fatto sta che il decreto di grazia e l’ordine di scarcerazione arrivò ben presto; all’anno preciso in cui Cassio era giunto.
Egli fu ancora una volta chiamato in Direzione; fuori l’aria era tiepida e fragrante, il cielo d’un turchino intensissimo, quasi in color di solfato di rame: ma all’orizzonte dalla inferriata della Direzione scorgevansi lunghe linee parallele, mollemente bianche, distese su quel vivissimo sfondo; pareva una gradinata d’alabastro saliente verso ignote altezze.
Dentro, nel sole dell’inferriata, tremolavano di nuovo le vaghe ombre di lontani rami. Il Direttore sedeva al suo tavolo; ma questa volta vedendo Cassio s’alzò premurosamente. Il giovine s’avvide; e non osò formulare la stolta speranza che gli balenò nell’anima, ma sentì il cuore battergli con violenza e quasi con angoscia.
— È giunto il decreto — disse il Direttore, tenendosi fermo con una mano aperta sulle carte del tavolo.
— Il decreto?
— Il decreto di grazia.
— Per chi? — chiese Cassio affannoso.
Il Direttore s’impazientì.
— Per chi? Ma per lei! — Poi si rallegrò dell’intensa commozione del giovine. Tanto meglio: se la cosa era così grande da sembrar impossibile; tanto più grande sarebbe la riconoscenza. Poi si rattristò della sua gioia, Se i suoi sforzi riuscivano a nulla? Se, come era da prevedersi, nell’impeto della riconoscenza Cassio gli desse speranze vane?
— Per me, per me? — balbettava il giovine. — Per me? Per quanto tempo?
— Per tutta la restante pena. È libero.... cioè no, non subito, ma tra una formalità e l’altra, fra una settimana sarà libero....
Lentamente Cassio si rinfrancò: sino a quel momento aveva fissato il Direttore senza vederlo; ora cominciò a distinguerlo, a guardarlo. Vide che il volto terreo era colorito, che l’aria di sofferenza fisica era sparita dalla bocca sottile, che i piccoli occhi verdi brillavano.
Egli invece era disfatto, bianchissimo in volto e nelle mani; le palpebre livide per una fittissima rete di vene violacee gli calavano languidamente sugli occhi.
— Quest’uomo è perfetto poichè si rallegra sinceramente dell’altrui bene; io l’avevo mal giudicato; — pensò, ma poi si chiese:
— Perchè?
Il perchè lo seppe ben presto.
Il Direttore lo pregò d’accomodarsi; gli porse il decreto e profittò dell’istante in cui Cassio pareva più assorto nella contemplazione della firma del Re, per cominciare.
— Ora avrei da comunicarle un’altra cosa. Mi ascolti e non mi giudichi male. Attendevo da molto questo giorno, e la cosa mi pareva facile; ora m’accorgo invece che ho bisogno di gran coraggio, io, e lei di grande indulgenza per intenderci. — Un sorriso triste gli sfiorò le labbra, ridonandogli quell’aria sofferente che caratterizzava il suo volto. Cassio lo guardò un po’ stupito, ancor confuso della sua gioia, ma già abbastanza padrone di sè. L’altro capì che si lasciava sfuggire il momento ottimo e s’affrettò: e nonostante i suoi sforzi interni la voce tremava alquanto.
— Non so come esprimermi per farle comprendere intensamente ogni cosa; ma ella è abbastanza intelligente, ella capirà lo stesso. Senta. Mi sono adoprato a tutta possa per farle ottenere quel pezzo di carta lì, — indicava col dito il decreto, e Cassio, seguendo la direzione del dito chinò gli occhi sulla carta, — e anzitutto lo feci perchè sentivo che la meritava. (Sa egli la mia storia? chiese a sè Cassio, sentendo che i suoi meriti in carcere eran stati ben pochi). Non le chiedo alcun ringraziamento, ed anzi mi spiacerebbe immensamente se, su quanto sto per dirle, influisse per nulla il sentimento di riconoscenza. Desideravo parlarle come a gentiluomo: — (Diavolo! Che mi creda anch’egli un gran signore e voglia chiedermi del denaro? pensò Cassio. Non faccio torto alla mia riconoscenza; ma cosa egli vuole da me?) — come a gentiluomo e uomo libero, appunto perchè la domanda che sto per farle venga svolta da pari a pari. Ella ora è libero, e quindi padrone di accoglierla come più crederà conveniente.
— Parli, — disse l’altro con impazienza quasi dolorosa. — Tutto ciò che sta in me....
— Non so se sta in lei; ad ogni modo....
— Dica, dica....
— Senta, e, le ripeto, non mi giudichi male, non mi pigli per matto. Leggendo le lettere di sua sorella ho intraveduto in essa una così buona e nobile creatura che.... — (Oh, Dio mio, o Signore! Egli se ne è innamorato! gridò Cassio fra sè, e tornò a veder buio) — me ne innamorai. Non sorrida di me; son giovine ancor io....
Oh no, Cassio non sorrideva:
— Le ha scritto? — chiese rudemente.
— No, non si offenda; non mi sono permesso tanto. Solo a lei....
— Ma è impossibile, ma è strano, ma è impossibile! — proruppe Cassio come parlando fra sè, battendo un pugno sul decreto steso sul suo ginocchio. La carta frusciava e strideva.
— Pare impossibile davvero, eppure è così; è un fatto strano, ma non è la prima volta che accade. Tant’è, signor Longino. La mia domanda è seria. Può sua sorella accettarla?
— Quale domanda?
L’altro pensò: questo giovine è troppo commosso; forse ho fatto male a parlargli subito; è troppo tutto in una volta.
— La mia domanda di matrimonio.
Cassio non rispose subito: fece uno sforzo, si dominò; tornò a veder chiaro, tornò a fissare il Direttore e lo vide come il passato, pallido e sofferente e brutto. E nel suo immenso affanno calò una stilla di conforto. — Ella non lo accetterà — pensò.
— Ma, — domandò, — ha ella ben riflettuto? Ha scritto al mio paese, ha assunto informazioni? In simili casi....
— Non ho scritto: a che pro? Sapeva sua sorella signorina, giovine e buona: non volevo di più. Io sono così solo.
— Ella è troppo, troppo buono. Son io che ora non so esprimerle la mia riconoscenza. Non abbia timore di non esser compresa: la comprendo benissimo e ammiro il suo animo. La sua domanda mi onora altamente e per me.... se stesse in me.... Ma le assicuro, farò di tutto. Speri.
Si sollevò, arrotolò con le dita esangui la carta del decreto, guardandola con occulta amarezza: e dominò la piccola persona del Direttore che gli si avvicinò tendendogli la mano e ringraziandolo. Chiese di poter rientrare nella cella e di spiegargli la branda; gli fu concessa ogni cosa. E si gettò sull’ispido giaciglio gemendo. Paola non era sua sorella, ma sua fidanzata. Per lei aveva spezzato il suo onore, compromesso tutto il suo avvenire, rotto ogni relazione con la famiglia. Ella sola gli restava, e pietosamente eraglisi finta sorella per potergli scrivere. Doveva ora perderla? Egli era povero oramai e disonorato: l’altro occupava una splendida posizione sociale, era buono e di nobile cuore. Aveva egli il diritto di togliere a Paola una possibile felicità? Egli le aveva sacrificato il suo onore e quasi due anni di libertà: ma il sacrifizio non era chiesto da lei e non era giusto che egli in cambio le chiedesse tutta la vita. Ad ogni modo ella sarebbe stata arbitra; — e in fondo egli sentivasi sicuro di sè, — ma lo opprimeva il dolore di avere ingannato e d’ingannare ancora quell'uomo stranamente buono e nobile.
— Io gli dirò tutto, avvenga che può — pensò sollevandosi dopo lunga ora d’affanno; ma ritto che fu il suo buon proposito sparve.
— No, non dirò nulla. Ha egli il diritto di sapere? No. Gli scriverò dal mio paese; dopo tutto egli ha operato il bene per conto suo, per egoismo. I suoi occhi felini non mi rassicurano; ora potrebbe farmi qualche torto.
Ma poscia si vergognò del suo dubbio; urlò fra sè:
— Sarei vile? — e s’aggirò nella cella come belva rinchiusa.
Fermandosi presso l’inferriata rivide le nuvole bianche e diafane stese ancora all’orizzonte; conservavano tuttora l’illusione d’una scalinata d’alabastro conducente ad altezze ineffabilmente pure, ma i vaporosi gradini si erano assotigliati e illuminati; sembravano profilati d’argento e svanivano e degradavano con indicibile dolcezza. Cassio fissò gli occhi lassù, pensando con profonda nostalgia alla patria lontana; e improvvisamente si sentì buono e puro come se si trovasse nell’alta luce dell’estremo di quei gradini e al di là e al di sotto dei suoi sguardi si stendessero le dolci terre natie. Pensò:
— Senza di lui io dovrei per altri lunghissimi mesi languire quà dentro: forse ne morrei o commetterei qualche pazzia. Gli dirò tutto, avvenga che può.
Aspettò ansiosamente l’ora di ricomparirgli davanti, e quando potè vederlo gli disse con voce ferma:
— Senta, signor Direttore, ho ben riflettuto su quanto stamattina si degnò comunicarmi.
— Benissimo — rispose l’altro mentre pensava la parola contraria.
— Prima di riparlarne, giacchè è necessarissimo riparlarne, mi permetta dirle in poche parole come andò la strana facenda della mia condanna. Poichè — aggiunse con triste sorriso — oso credere che Ella non mi abbia creduto colpevole come per disgrazia sembro.
L’altro stette zitto.
— Senta. Da circa dieci anni amo una ragazza del mio paese. Era ricca, ma orfana d’ambi i genitori e sotto tutela. Fu messa in collegio e anch’io stetti lunghi anni assente dal paese. Al ritorno seppi che benchè avesse raggiunto l’età maggiore, ella, la povera fanciulla, tornata pur essa in paese, giaceva sotto l’opprimente tutela dello zio che la maltrattava e s’impossessava di tutto. La ridusse povera; la teneva chiusa e le minacciava orribili cose. Io giunsi tuttavia sino a lei e in cambio del suo amore le promisi ridonarle la sua fortuna e l’indipendenza. — Sposami — diss’ella — fuggirò con te. — Ma siccome sul mio progetto gravava un fosco avvenire, io preferii operare liberamente. La convinsi rifugiarsi presso una famiglia amica, e quando la vidi al sicuro operai. E sa cosa feci? Forse se lo immagina; falsificai la firma del tutore e siccome egli, ricchissimo, era conosciuto e aveva credito illimitato ottenni molto, in paese e fuori. Acquistai al nome della fanciulla terre e rendita, e attesi. Alla scadenza fu nota la colpa; io speravo romanticamente di passare per un eroe; invece fui preso, condannato, vilipeso: i miei pochi beni andarono in aria, la mia famiglia mi rinnegò. Ella sola mi resta, ed essa signor Direttore, è Paola.
Il signor Direttore stette ancora zitto. Che poteva dire? Tutto ciò che sentiva, la storia di Cassio unita alla sua, pareva una cosa inverosimile; eppure era dolorosamente vera, Cassio parve seguirne il pensiero.
— È strano, non è vero? È inverosimile. Se venisse narrato non sarebbe creduto.
— La vita è così; — disse l’altro, lentamente, guardandosi le unghie delle dita ripiegate; — il destino ha infinite trame misteriose.
— È rassegnato — pensò Cassio, e azzardò un’altra considerazione:
— La vita è spesso un terribile romanzo.
Ma guardando bene il Direttore vide così straziante sul suo volto l’abituale aria di sofferenza, che tornò di botto al pensiero che l’aveva ricondotto là dentro.
— Volevo dirle, ecco; nonostante tutto io farò di tutto per dimostrarle la mia gratitudine.
— Che dice, lei?....
— Mi lasci dire. Avevo il dovere di spiegarle come in realtà stanno le cose; però giacchè Ella è stata tanto buona con me le dò la mia parola di gentiluomo che farò di tutto....
— Che dice, che dice.... — ripeteva l’altro; e intanto pareva intento non alle parole di Cassio, ma a voci lontane.
— Dopo tutto, Paola sola è arbitra; io mi comporterò come se davvero fossi fratello, null’altro che fratello.
— Ma no! ma no! Che dice mai!
— Anzi, se ella desidera, posso scrivere oggi stesso; aspetteremo la risposta. Giacchè, veda, secondo questa risposta è poi inutile ch’io faccia ritorno al mio paese.
— Che dice! — ripetè il Direttore, ma ora la sua voce vibrò cosciente. Si guardò l’unghia del pollice eretto sul pugno stretto, poi sollevò gli occhi e cercò lo sguardo di Cassio.
— Ella non scriverà: ella tornerà al suo paese, ed io le auguro ogni miglior felicità.
Dal profondo del cuore. Scusi, sa, ma chi poteva pensare? Ella ha ragione; la vita è un terribile romanzo....
Cassio insistè. “Lo lasciasse scrivere; era un favore ch’egli stesso gli chiedeva. Vedrebbe. La sua gratitudine era senza limiti, e prima dell’amore era in lui più forte il dovere. Paola sarebbe certo più fortunata col Direttore che con lui, ed egli doveva sopratutto voler il bene e la felicità di lei.„
L’altro lo ascoltò pazientemente; a momenti una vivida luce gli brillava negli occhi, ma fu irremovibile.
— Senta — conchiuse dopo aver ringraziato Cassio — se il suo dovere è di credersi riconoscente verso di me e generoso verso la signorina, il dovere di questa, oramai, è di renderla felice e ricompensarle ogni sacrifizio.
— Pure....
— Favorisca.... mi lasci finire. Se la signorina operasse altrimenti non sarebbe più la nobile e ottima creatura ch’io sognai.... E la mia domanda non avrebbe più ragione d’esistere.... Mi capisce. Ho sì o no ragione?
Cassio non rispose nè sì nè no: il Direttore s’avvicinò all’inferriata. E due supremi sentimenti dilagarono nell’anima dei due uomini: Cassio si sentì felice, e il Direttore pensò amaramente che, in ogni caso, il suo sogno era inesorabilmente perduto.