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56 | g. deledda |
sull’inspido giaciglio sentiva la percussione dolorosa del sangue tormentato. La mattina, quando la guardia, un lungo giovinotto la cui testa rossa spiccava sull’azzurro cinereo della brutta divisa, entrava per ripiegar la branda, Cassio era già in piedi, diritto davanti all’inferriata.
Fuori le prime rondini scendevano e salivano, con le ali e il petto brillanti al sole. Il detenuto non degnava la guardia d’una parola, non rispondeva ai continui richiami, ai piccoli fischi, all’agitarsi delle mani del suo vicino di destra, e, nell’ore di aria, quando veniva per un’ora portato al triste cortile, non badava a nessuno, con sdegnosa indifferenza passeggiando su e giù sul triste lastrico, umido di rugiada.
Nello stabilimento si sparse la voce che egli era un ricchissimo signore sardo, parente del Direttore, e siccome il Direttore era temuto ed odiato (nessuno dei detenuti sapeva però la cagione di questo odio e di questa paura, poichè l’ometto non aveva mai fatto loro del male tranne che col suo freddo sguardo indifferente), anche il n.° 245, dopo una setti-