La vita militare/Il figlio del reggimento
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IL FIGLIO DEL REGGIMENTO.
I.
Tra i fanciulli dell’uno e dell’altro sesso, fin che non v’è differenza apparente nelle forme, v’è comunanza di giocattoli e di sollazzi; ma quando, rimanendo alle bambine la soavità e la mollezza dei contorni infantili, cominciano nei fanciulli a pronunciarsi le forme dell’uomo, allora quella comunanza a poco a poco si rompe; l’un sesso si volge e si attiene definitivamente alle bambole; l’altro agli schioppi, alle trombette e ai tamburi. Insieme alla passione delle armi suol nascere nei fanciulli la passione dei soldati; in alcuni temperata e fugace; in altri violenta, irresistibile e duratura. Ed è in ciò appunto che prima e più notabilmente si manifestano diverse le due nature, chè, mentre la donna cerca ed ama tutto ciò che significa pace, debolezza ed amore, l’uomo si slancia con trasporto verso tutto ciò che rappresenta la forza, la potenza e la gloria.
Dopo le persone della famiglia e della casa, il nostro primo affetto, il nostro primo palpito d’entusiasmo è il soldato. Soldati sono i primi fantocci che rabeschiamo sulle pareti della scuola e sulla coperta dei libri; soldati le prime persone che ci voltiamo indietro a guardar per la via, fermandoci ed obbligando a fermarsi chi ci conduce per mano; il primo soldo che ci si regala lo spendiamo da un libraio per una stampa di soldatini coloriti; e tutto ciò che ai soldati appartiene, armi, assise, galloni, pennacchi, ciondoli, ciarpe, tutto diventa oggetto dei nostri desiderii più ardenti, dei nostri sogni, delle nostre speranze più care; a tal segno da farci fermar nell’animo che a prezzo di qualunque sacrificio e malgrado qualunque contrarietà, appena giunti all’età voluta, ci arroleremo soldati; sì, sì, soldati, soldati, assolutamente, a qualunque costo; la mamma piangerà, il babbo manderà fuori quel certo vocione che tiene in serbo per le scappatelle più ardite: non importa; la è decisa, soldati.
E qui comincia la manìa delle armi; e cerca, e fruga, e rimugina, non vi sarà in casa tua una canna, un bastone, o una gamba di tavola rotta, che, risparmiata dalla lama del tuo temperino, non t’abbia a fare per molto o per poco il suo servizio di stocco o di daga o di fucile. Chi di noi non passò lunghe ore a cavalcioni d’una seggiola, col petto contro la spalliera, dimenando le gambe come per ispronare un cavallo, agitando in alto il manico d’una granata, e mandando fuori certe voci lente, profonde, solenni come d’un generale che comandi una divisione? Chi non si ricorda della prima sciabola che ci regalò lo zio o il compare o qualche ufficiale in riposo, vecchio amico di casa, il giorno del nostro nome, o in premio dell’esserci fatti onore alla scuola? E intendiamoci, veh! non mica di quelle solite sciabole di legno, che si fasciano di carta argentata, roba da ragazzi piccini che non serve neppure a uccidere una mosca; chè! proprio una sciabola vera, una vera lama, di quelle che si adoperano alla guerra.... Oh! la prima sciabola è una grande felicità.
E quelle belle mattinate di primavera, (che fanno uscir la voglia dei libri, come dice il Giusti, e mettono la smania nelle gambe) quando, seduti a tavolino, sbadigliando e sonnecchiando sopra una favola di Fedro da voltare in italiano, sentivamo prorompere all’improvviso giù nella via un gran frastuono di tamburi o di trombe, e noi subito al diavolo quaderni e libri, e via a rompicollo giù per le scale, dietro ai soldati, fino alla piazza d’armi, a contemplare estatici quel vivo sfolgorìo delle baionette che appare e dispare come un lampo al di sopra delle teste dei battaglioni, e a sentire quel clamoroso e prolungato urrà degli attacchi, che già fin d’allora ci rimescolava il sangue e facea sì che stringendo involontariamente i nostri piccoli pugni ci sentissimo raddoppiate le forze; chi non le ricorda quelle belle mattinate? È vero che, tornati a casa, c’era da subire gli occhiacci del babbo o anche di peggio; ma quel poter dire: — sono stato in piazza d’armi — ah! gli era pure un grande sgravio di coscienza, e una ragione che si poteva addurre e s’adduceva in fatti senza umiltà e senza paura.
E il primo soldato con cui, a forza di ronzargli attorno, riuscimmo a stringere un po’ d’amicizia, chi non se lo ricorda? E chi non ricorda la prima volta che, in piazza d’armi o al tiro al bersaglio, abbiamo avuto l’onore di andargli ad attingere un po’ d’acqua alla fonte vicina colla sua stessa gamella? Noi gliela portavamo piena, ricolma, lì lì per traboccare al menomo moto; eppure non se ne versava una goccia, così attentamente cogli occhi, colle braccia, con tutta la persona, con tutta l’anima ci sforzavamo di riuscire degnamente nell’onorevole incarico! E poi, farsi vedere al passeggio con un caporale, per esempio, dei bersaglieri! Ma è una di quelle felicità, vedete, che quando io mi metto a pensarci su, vorrei ritornare fanciullo per poterla riprovare, o provarla, pur rimanendo un uomo, anche a costo di parer rimbambito. E noi, la sera, all’ora della ritirata, si accompagnava il nostro caporalotto sino alla porta del quartiere, e gli si dava e se ne riceveva la buona notte o la promessa d’un convegno pel domani, ad alta voce, perchè sentissero gli altri ragazzi ch’erano là attorno; e il domani si faceva assieme una bella passeggiata fuori di città, e giunti in un luogo solitario, pregavamo il nostro amico che ci facesse veder la daga, ed egli rispondeva che è proibito, e noi continuavamo a pregare ed egli: — no, — e noi: — sì, mi faccia il piacere, bravo, un momento solo, appena un momento; — e il povero caporale, data un’occhiata intorno se nessuno venisse, tirava fuori la daga dal fodero con una cert’aria di mistero, e la vista di quella bella lama nuda e luccicante ci metteva un fremito nelle vene, e ne toccavamo leggermente la punta col dito, e domandavamo se fosse affilata e se con un colpo avrebbe ammazzato un uomo.... Oh poi, l’amicizia d’un caporale vi porta di gran bei frutti! Quello, fra gli altri, di aver sempre in tasca qualche capsula bella e nuova, qualche volta anche della polvere, e fors’anco una bella croce d’una piastra vecchia, o dei bottoni di stagno ammaccati, e persino, — ma son fortune che capitan di rado, — è possibile persino che diventiate possessore d’un paio di galloni, un po’ logori forse, ma sempre tali da fare una stupenda figura sulle maniche della vostra giacchetta da casa. E tutta la ragazzaglia del vicinato vi porterà rispetto.
Il concetto che s’ha da fanciulli dell’autorità e della prevalenza fisica e morale dei soldati sugli altri cittadini è un concetto smisurato. Soldati che non siano prodigi di coraggio non ce ne può essere; soldati meno forti d’uno qualunque dei cittadini più forti, assolutamente non ve n’è; nessuno al mondo può correre quanto un bersagliere; le più belle barbe della città son quelle degli zappatori; nulla v’ha di più terribile in terra che un ufficiale colla sciabola sguainata, tanto più se la sia uscita poco prima dalle mani dell’arrotino. E di fatti, quando si facevano ballar le marionette e s’improvvisavano le commedie, ci poteva ben essere sul palco scenico una lotta accanita di dieci individui armati, potevano ben esserci anco dei principi e dei re a fare il chiasso colla spada in pugno; ma al solo apparire di due soldati collo schioppo a tracolla, tutte le altre teste di legno mettevan giudizio ad un tratto, e si quetavano, e qualche volta anche i re, sì signori, anche le corone s’inchinavano dinanzi ai cheppì. E quando la sera, a ora tarda, sentivamo tutto ad un tratto giù nella strada, presso alla porta d’una osteria, un gridìo confuso di voci irate e minacciose, e un risuonare di bestemmie, di pugni e di bastonate, e un pianger di donne e di bambini, e affacciatici alla finestra e vedute luccicar delle daghe, capivamo che s’era impegnata una rissa fra soldati e operai, non abbiamo noi sempre fatto voto che questi ne buscassero di molte, e quelli ne uscissero immuni? E se accadeva il contrario, oh che stizza, che rodimento! Quanto ad autorità poi, i fanciulli non ne suppongono alcuna al di sopra del colonnello o del generale comandante il presidio della città. È ben naturale. Una volta, non mi ricordo in occasione di che festa cittadina, mentre passavano per la via l’intendente e un luogotenente-colonnello dei bersaglieri con un lungo codazzo di impiegati e di ufficiali d’ogni grado, mio fratello che conosceva il mio debole e voleva pungermi sul vivo: — Guarda — mi disse indicandomi l’intendente — quell’uomo là vestito di nero comanda assai più dell’altro che ha tutto quell’oro addosso. — Chè! — io risposi scotendo sgarbatamente una spalla, — non è vero, è impossibile. —
E questo vivissimo affetto dei fanciulli è ricambiato dai soldati con un affetto meno entusiastico, ma non meno profondo. Coscritti, appena arrivati al corpo, o pur anco vecchi soldati, appena giunti in una città sconosciuta, dove li cercano, dove li trovano i loro primi amici, i loro primi conforti, i loro primi diletti? In quello sciame di monellucci che scorrazzano intorno ai tamburini quando il reggimento va in piazza d’armi. Da loro i primi sorrisi, le prime strette di mano; con loro i primi convegni, i primi colloqui confidenti e geniali, le prime passeggiate solitarie in campagna, i primi sfoghi di rancore contro i superiori prepotenti, e i primi lamenti sulle durezze della disciplina, e da loro le prime parole di conforto e le prime consolazioni. Si fanno scrivere e leggere le lettere di casa da loro, e raccontare tutte le particolarità più insignificanti della vita di famiglia, e le ascoltano con gran piacere, e tal volta con una certa tenerezza melanconica, perchè, lontani, come e’ sono, dai proprii parenti, quei discorsi ravvivano nel loro cuore un cotal sentimento, direi quasi, di casa, un sentimento delicato, soave, quale non si prova sempre nelle rumorose camerate della caserma. Per mezzo di quei fanciulli, essi a poco a poco stringono amicizia col portinaio, e per mezzo di questi riescono in breve tempo ad allargar la rete delle relazioni amichevoli, così che, a un bisogno, sanno a cui ricorrere, e, in ogni caso, con chi scambiare due chiacchiere alla buona, tanto più se fra le loro amiche vi sia qualche buona donna che abbia un figliuolo soldato. Quindi, nel loro cuore, alla simpatia e all’affetto pei fanciulli s’aggiunge la gratitudine; e per mezzo loro, anche i loro piccoli amici stringon nuove amicizie; a poco a poco in quella tal compagnia, in quel tal battaglione non v’ha più per essi una faccia ignota o indifferente, e il loro affetto, cessato il primo bollore dell’entusiasmo, mette radici profonde e tenaci. E quando il reggimento se ne va.... io l’ho provato; quando il reggimento se ne va, allora cerchiamo la mamma, ce le andiamo a mettere accanto e stiamo lì con un viso serio serio per farci fare una domanda, che provocherà uno sfogo al nostro dolore. — Che cos’hai, bambino? — Non si risponde; si stringon le labbra. — Che cos’hai? parla, bambino; diglielo che cos’hai a tua madre. — Non si risponde; vien giù una lagrima. — Oh in nome del cielo, non mi tenere in ansietà! Che cosa ti è accaduto? che cosa è stato? — Allora si scoppia in pianto e ci si getta nelle sue braccia e le si dice la cosa com’è, e la madre, commossa, ci passa la mano sulla fronte esclamando: — Oh povero ragazzo! Datti pace, ne verranno degli altri; — e allora noi sentiamo il nostro dolore tramutarsi a poco a poco in un sentimento di mestizia calma e rassegnata.
O madri, lasciateli venir con noi i vostri ragazzi; noi li ameremo come fratelli, come figliuoli; usciti di mezzo a noi essi ritorneranno al vostro seno più amorosi e più forti, perchè fra i soldati s’impara ad amare, e di un affetto che fortifica precocemente la tempra dell’animo e del cuore.
In prova di ciò racconterò un fatto che seguì qualche anno fa in un reggimento del nostro esercito, e che mi fu narrato da un amico il quale v’ebbe molta parte; cercherò di richiamarmi alla memoria le sue stesse parole. Sentite dunque; ma, intendiamoci, è il mio amico che parla, non son’io.
II.
Una delle ultime sere di luglio del 1866, la nostra divisione, partita nel pomeriggio da Battaglia, grosso borgo situato alle falde orientali dei colli Euganei, entrava per porta Santa Croce nella città di Padova, che doveva attraversare per proseguire il suo cammino verso Venezia. Quantunque vari altri corpi dell’esercito fossero già passati per quella città e le vie da noi traversate fossero le più remote dal centro e d’ordinario le meno frequenti di gente, pure l’accoglienza che ci fece il popolo fu oltre ogni fede stupenda. Io però non me ne ricordo che come d’un sogno; ne serbo una memoria confusa come s’ha dei primi colloqui coll’innamorata, da giovinetti, quando tremano le gambe e si diventa bianchi nel viso come un cencio uscito di bucato e intorno intorno ci si fa buio. Già, nell’avvicinarmi a Padova, la prima grande città del Veneto che incontravamo sul cammino, il cuore mi batteva forte e i pensieri mi si cominciavano un po’ a confondere. Quando poi entrammo, e una moltitudine immensa, prorompendo in altissime grida, si precipitò fra le nostre file e le ruppe e ci avvolse e ci sparpagliò in men di un istante da tutte le parti, per modo che non rimase traccia dell’ordine di colonna in cui eravamo disposti, allora la mia vista si annebbiò e, più della vista, la mente. Ricordo d’essermi sentito stringere molte volte al collo e alla vita da due braccia convulse, e palpar le spalle e le braccia da due mani tremanti; d’essermi sentito baciar nel viso da molte bocche ardenti, con quella stessa furia che porrebbe una madre nel baciare il suo figliuolo al primo rivederlo dopo una lunga assenza; d’aver sentito il contatto di molte guancie umide di pianto; d’essermi fermato più d’una volta per liberare la mia sciabola dalle manine d’un fanciullo che me la scoteva con violenza perch’io mi volgessi ed avvertissi anche il suo umile evviva; d’aver camminato per un pezzo con una mezza serqua di mazzettini di fiori negli occhielli della tunica che parevo uno sposo di campagna; infine di essermi sentito sonare intorno un continuo ed altissimo evviva.... Ma che! Non erano evviva, erano grida inarticolate, rotte dai singhiozzi, soffocate dagli amplessi; erano gemiti come di petti oppressi e spossati dalla foga della gioia; voci di un tal accento che il mio orecchio non aveva inteso mai prima d’allora, ma che molte volte m’eran sonate nella mente, immaginando meco stesso l’espressione d’una gioia superiore alle forze umane. La folla si rimescolava con una rapidità vertiginosa, e ondeggiando ondeggiando portava i soldati di qua, di là, sempre però avanzando nella direzione che aveva presa la colonna in sull’entrare; e al di sopra delle teste della moltitudine si vedeva un grande agitarsi di braccia, di fucili e di bandiere, e quelli e queste raggrupparsi ed urtarsi con impeto e dividersi e sparpagliarsi subitamente a seconda dell’impetuoso abbracciarsi e del rapido svincolarsi che facevano cittadini e soldati; e i ragazzi afferravano i soldati per le falde del cappotto o pel fodero della baionetta e se ne disputavano gelosamente le mani per piantarvi sopra la bocca; e le donne anch’esse, giovani, vecchie, povere e signore alla rinfusa, stringevan la mano ai soldati e mettevan loro dei fiori negli occhielli del cappotto e domandavano soavemente se fossero venuti di molto lontano e si sentissero stracchi, e porgevano sigari e frutta, e offerivano la mensa e la casa, sdegnandosi con amabile affettazione dei rifiuti e rinnovando calorosamente inviti e preghiere; e non si vedeva in tanta moltitudine una faccia che dalla profonda emozione non fosse trasfigurata; occhi dilatati ed accesi, guancie pallide e rigate di lacrime, labbra frementi; e in ogni atto poi, in ogni cenno, in ogni movenza un che di convulso, di febbrile, che ti si trasfondeva nel sangue mettendoti un tremito violento per tutte le membra; tantochè ai saluti e alle benedizioni della gente tentavi più volte di rispondere e non potevi articolare una parola. Le case eran coperte di bandiere; ad ogni finestra un gruppo di persone addossate le une alle altre, le ultime ritte sopra una seggiola colle mani sulle spalle delle prime, queste pigiate contro il parapetto da averne rotto lo stomaco; e chi sventolava fazzoletti, e chi agitava le mani in segno di saluto, e chi gettava giù fiori; tutti poi col collo teso e la bocca splancata ad un continuo grido a somiglianza degli uccelletti nel nido all’apparir della madre. Certi bambini tenuti in braccio dalla mamma agitavano anch’essi le manine verso di noi e mandavano fuori di tanto in tanto qualche gridetto, che si perdeva a mezz’aria negli alti clamori della folla. Le imboccature delle vie a destra e a sinistra, le soglie delle officine, delle botteghe, delle case erano piene di gente. Vidi molti di quei buoni operai porre un sigaro nelle mani a uno dei propri ragazzi e accennargli un soldato e spingerlo verso di quello; vidi certe buone donne sporgere i bambini agli ufficiali perchè li abbracciassero come se quell’abbraccio fosse una benedizione del cielo; vidi qualche vecchio cadente stringersi contro il petto la testa d’un soldato e tenersela lì ferma come volendo che non se ne staccasse mai più.... In mezzo a tante e tali dimostrazioni di gratitudine, di affetto, d’entusiasmo, i soldati, poveri giovani, restavano come istupiditi e ridevano e lagrimavano ad un tempo e non trovavan parole a render grazie; o se pur le trovavano, non le potean mandar fuori, e s’ingegnavano a dire coi gesti: — È troppo! è troppo! Il nostro cuore non regge; voi volete farci morire di gioia. —
A misura che ci avvicinavamo alla porta per cui si doveva uscire, la folla si faceva men fitta e i soldati si andavano lentamente riordinando.
La porta per cui dovevamo uscire era quella che i Padovani chiamano il Portello. Fummo accompagnati fin sul limitare da moltissimi cittadini, la più parte di ceto signorile, frammisti ai soldati, stretti con loro a braccetto, e tutti assorti in un conversar vivo, clamoroso, rapido, rotto, poichè alla foga del primo entusiasmo, il quale non trovava che lagrime e grida, era seguito un gran bisogno di sfogarsi a parole, di farsi mille domande, mille proteste di affetto e di gratitudine, interrompendosi tratto tratto per guardarsi ben bene l’un l’altro nel volto, con un sorriso che voleva dire: — Dunque gli è proprio un soldato italiano che ho a braccetto! — Dunque ci siamo proprio in mezzo a questi benedetti Padovani! — e lì una gran stretta di mano e una scossa reciproca al braccio che significava: — Sei qui; ti sento; non ti lascio scappare. — In quella mezz’ora che si era impiegata ad attraversar la città, si eran già strette molte amicizie, s’eran già scambiate molte promesse di scriversi, s’eran già fatti molti proponimenti di rivedersi al ritorno, e stabiliti i convegni, e notati sul portafoglio i nomi e gli indirizzi. — Mi scriverà lei il primo! — Io il primo. — Appena arrivato al campo! — Appena arrivato al campo. — Me lo promette? — Non dubiti. — Grazie! — E un’altra gagliarda stretta di mano e un’altra scossetta al braccio. E a misura che il reggimento s’avvicinava alla porta, i dialoghi si facean sempre più rapidi, più caldi, più rumorosi, e i gesti più concitati, e più animata l’espressione dei volti, e si rinnuovavano gli evviva e le grida che già erano cessate da un po’ di tempo, e i soldati ricominciavano a sparpagliarsi, finchè, giunti che fummo alla porta, il grosso della folla si fermò. E lì di nuovo, figuratevi, una confusione e un gridìo da non potersi dire; un abbracciarsi, un baciarsi, uno sciogliersi dalle braccia dell’uno per gettarsi in quelle d’un altro, e da questi ad un terzo, e via via, ricambiandosi affollatamente augurii e saluti e benedizioni. Finalmente il reggimento fu fuor della porta, e si dispose in ordine di marcia, due file a destra e due file a sinistra della via. Per un po’ di tempo i soldati si volsero di tanto in tanto verso la porta, dove la folla, tuttavia ferma, andava agitando i fazzoletti e mettendo alte e lunghe grida di saluto; ma a poco a poco, cominciando a farsi buio, la folla non si vide più, le grida, che già giungean fioche fioche, tacquero affatto, i soldati ripresero a camminare in ordine, e gli ufficiali, che prima andavano a gruppi, ritornarono al proprio posto.
Eravamo in cammino da molte ore; prima di giungere a Padova si era già stanchi e si andava già lenti e disordinati; eppure, usciti dalla città, camminavamo come se pur allora ci fossimo mossi dal campo dopo un lungo riposo. I soldati procedevano ritti, sciolti, spediti; gli ordini erano serrati, e ferveva da ogni parte un vivissimo cicaleccio. Naturale; c’eran tante cose da dirsi!
Io stetti ancora un pezzo come trasognato. Ma quando ritornai interamente in me stesso, allora mi sentii crescere nel cuore una gioia, per dir così, pura, limpida, scevra di quella impressione di sorpresa e di meraviglia che prima me ne attutiva il sentimento; era la vera gioia, e piansi. Piansi tre volte in tutta la durata della guerra. La prima, e furon lagrime d’entusiasmo, il giorno che si passò il Mincio, il ventitrè giugno, quando, essendo ancora il mio reggimento sulla sinistra del fiume, presso al ponte di Ferri, già si vedevano lampeggiare sull’opposta sponda le baionette della settima divisione, e io mi sentiva fremere intorno i soldati impazienti e sonar nell’orecchio il rumor cupo del ponte tremante sotto il peso delle nostre artiglierie. La seconda volta piansi a Villafranca, e furon lagrime d’ira e di dolore. La terza volta piansi per te, o Padova cara, Padova illustre e generosa, e furono lagrime di gioia e di gratitudine; di gioia divina, di gratitudine eterna. — Oh perchè le città non si possono abbracciare! — pensai, fra le tante altre stranezze, quella sera.
Essendo oramai buio fitto, si accessero le lanterne. L’apparire della luce richiamò a ciò che mi circondava la mia mente, che fino allora non era per anche uscita da Padova, e, guardando subitamente qua e là cogli occhi dilatati, come quando ci si sveglia in una stanza di albergo e non si raccapezza sull’istante nè dove si sia nè perchè nè come, vidi al dubbio lume d’una lanterna due ragazzini condotti per mano da due soldati. Mi volsi dalla parte opposta, ne vidi un altro. Guardai più in là, altri due, e via via, ve n’era di molti; e tutti venivan condotti per mano dai soldati e parlavan basso basso e si nascondevano, quanto era possibile, nell’ombre, per non essere scorti dagli ufficiali, che forse, chi lo sa? avrebbero potuto rimandarli a casa, e bruscamente, chè quella non era ora d’allontanarsi dalla città e di tenere in pensiero la mamma. La più parte di quei ragazzi, si vedeva ai panni, erano poverelli; ma ve n’era pure, e non pochi, di condizione agiata, e si conoscevano alla cera e ai modi peritosi e ai vestitini puliti. Ad ogni dieci o dodici passi se ne fermava qualcuno, e data e ricevuta qualche stretta di mano e qualche saluto affettuoso, se ne tornava. È impossibile significare quanta dolcezza, quanta effusione di cuore e che delicato senso di mestizia si sentiva in que’ comiati. E poi, l’accento particolare del dialetto che si presta tanto all’espressione degli affetti soavi, e poi la commozione profonda di poco prima, e poi la notte, e il silenzio che si cominciava a diffondere nelle file;... insomma, ogni parola di quei ragazzi mi toccava nel più vivo dell’anima. Ho sempre in mente uno di essi che, accomiatandosi e salutando intorno intorno tutti i soldati, esclamò con una certa vocina sottile e tremola, in cui si sentiva proprio il cuore: — Dio ve salva, fioi, tuti!
— Oh grazie, caro! — io dissi tra me; — possa tu essere benedetto da Dio d’ogni bene; possa non morirti mai la madre; possa tu godere ogni giorno della vita una felicità com’è questa di cui mi trabocca l’anima questa sera. Addio, buon ragazzo. —
Ma a poco a poco tutti que’ ragazzi se ne tornarono a casa, primi i più piccini e più timidi, ultimi i già grandicelli e più arditi, e nel reggimento rimasto solo si diffuse un silenzio profondo; unico rumore quello dei passi stanchi e strascicati e il monotono ticcheticche dei puntali delle baionette contro i puntali delle daghe. E si cominciava a sonnecchiare e a camminare barcollando di qua e di là urtandosi l’un l’altro violentemente come segue agli ubriachi che vanno a braccetto. Ed io sonnecchiava e barcollava più di tutti.
Tutto ad un tratto, mi sentii urtare in un braccio, mi voltai, era un ragazzo. — Chi sei? — gli chiesi, fermandomi, con una voce piena di sonno. Esitò a rispondere, dormicchiava anch’egli. — Carluccio, — rispose poi con voce bassa e tremante. — D’onde vieni? — Da Padova. — E dove vuoi andare? — Coi soldati. — Coi soldati! E sai tu dove vadano i soldati? —
Non rispose; io ripigliai: — Torna a casa, via, torna a casa; te ne sei dilungato già troppo. Chi sa tuo padre e tua madre come staranno in pensiero per te, a quest’ora. Da’ retta a me, torna a casa. — Non rispose e non si mosse. — Non vuoi tornare? — No. — E perchè? — Non rispose. — Hai sonno? — Un poco.... — Qua la mano, dunque. —
Lo presi per mano, raggiunsi la mia compagnia che era già passata oltre un buon tratto, e, pensando che il rimandarlo a casa per forza e fargli rifare tutto quel cammino di notte e solo gli era un esporlo a qualche grossa paura, decisi di condurlo meco fino alla tappa. Quivi giunto, avrei trovato modo di farlo ritornare.
— Abbiamo una recluta — dissi a un mio compagno, passandogli accanto. Egli mi si accostò, e dopo lui alcuni altri che avevano intese le mie parole; e mentre si facevan tutti intorno al ragazzo e mi domandavano chi fosse e dove l’avessi trovato, s’udì uno squillo di tromba e il reggimento si fermò. Mentre le file si rompono e i soldati si mettono a giacere, io, traendomi dietro il piccolo fuggitivo, passo nel prato a destra della strada, e gli altri mi seguono. Giunti a un dieci passi dal fosso, ci fermammo; sopraggiunse un soldato con una lanterna, ci stringemmo attorno al ragazzo, e facendogli batter la luce sul viso, ci chinammo a guardarlo. Era bello; ma smunto, pallido, e avea negli occhi, — un par di begli occhi grandi e scuri, — una espressione di mestizia assai strana per un fanciullo della sua età che non poteva passare i dodici anni. Col suo aspetto dilicato e gentile facevano un brutto contrasto i panni logori, rappezzati e male adatti. Un cappelluccio di paglia cui mancava gran parte della tesa, un fazzoletto turchino attorno al collo, una giacchetta di frustagno fatta al dosso d’un uomo, un par di calzoni che non gli arrivavano fino alla noce del piede, due grandi scarpaccie allacciate collo spago: così era vestito. Ma lindo, e senza stracciature; il fazzoletto che portava al collo era annodato con un certo garbo; e aveva i capelli ravviati, e il viso, le mani e la camicia, tutto pulito. L’osservammo in silenzio per qualche momento. Egli guardava in faccia ora l’uno ora l’altro cogli occhi spalancati ed immobili.
— Ma non sai che sei solo? — io gli domandai.
Mi guardò fiso e non rispose.
— Tutti gli altri ragazzi se ne sono già andati, — gli disse un mio amico, — e tu perchè non sei tornato con loro? —
E un altro: — Che cosa vuoi fare qui con noi? Dove vuoi andare? —
Egli guardò prima l’uno e poi l’altro, sempre con un par d’occhioni stralunati; poi chinò lo sguardo e tacque.
— Parla, su, di’ qualche cosa, — ripigliò un di noi scotendogli leggermente la spalla; — o che hai perso la lingua? —
Ed egli zitto, e sempre cogli occhi fissi a terra, duro e cocciuto che metteva dispetto. Tentai ancora una prova: gli presi il mento tra l’indice e il pollice, e, sollevandogli la testa dolcemente, gli chiesi:
— Che cosa dirà tua madre che non ti vede tornare? —
Alzò gli occhi e mi guardò, non più con quella cera attonita e quasi stupidita di prima, ma colle sopracciglia aggrottate e la bocca aperta come se in quel punto soltanto ei cominciasse a capire le nostre parole e aspettasse che, interrogandolo ancora, gli facessimo dire quel che aveva bisogno, e non coraggio, di dire.
— Perchè sei fuggito da casa? — gli domandai di nuovo.
Strinse le labbra, battè celere celere le palpebre, fece un moto della testa e del collo come se trangugiasse qualcosa, e mi ripiantò gli occhi nel viso.
— Ma via, ma parla una volta, dicci la cosa com’è, fatti coraggio. O che hai paura di noi? Perchè sei fuggito da casa? —
Stette muto un momento, e poi diede in uno scroscio di pianto, e tra singhiozzo e singhiozzo mormorò:
— Mi.... pic.... chia.... no!
— Oh povero bambino! — esclamammo tutti a una voce ponendogli le mani sul capo e sulle spalle e accarezzandogli il mento e le guancie; — oh povero bambino! E chi ti picchia?
— La.... mamma.
— La mamma? — gli chiedemmo tutti insieme guardandoci in volto meravigliati. — O come mai?
— Ma.... non è.... la mia mamma.
Qui il povero ragazzo, pregato e ripregato ancora, ci disse che suo padre era morto da un pezzo, ch’egli non aveva più altri che la matrigna, la quale voleva bene soltanto ai suoi bimbi, e non poteva veder lui, e lo trattava male, molto male, e ch’era un pezzo ch’egli soffriva, e che era fuggito da casa per venire con noi. Non aveva ancora finito di parlare, che noi l’affollammo di carezze e di conforti: — Verrai con noi, buon ragazzo; non ti dar pensiero di nulla. Avrai tanti babbi quanti sono i soldati. Ti vorremo bene per tua madre, per tuo padre, per tutti; sta’ tranquillo. — E volendo rasserenarlo e farlo sorridere, io gli soggiunsi: — E a chi ti domanderà di chi sei figliolo e donde sei venuto, tu risponderai che sei figlio del reggimento, e che noi ti abbiamo trovato nel fodero della bandiera; hai inteso? —
Egli, sorridendo lievemente, fe’ cenno di sì.
— E intanto, — io continuai, — appena ci metteremo in cammino, tu verrai con me o con un altro qualunque di noi, e gli starai sempre accanto, e camminerai fino che le gambe ti reggano, e quando ti sentirai stanco lo dirai, hai inteso? e noi ti faremo salire sopra un carro. —
Il povero Carluccio, che non potea credere a tante dimostrazioni di benevolenza e temea di sognare, accennava di sì abbassando e rialzando la testa e guardandoci cogli occhi pieni di stupore.
— E adesso come stai? — Ti senti stanco? — Hai sete? — Hai bisogno di mangiare? — Vuoi un po’ di caffè? — Vuoi un po’ di rosolio? Di’, amico, dove hai messo la fiaschetta del rosolio? — Eccola, — To’, bevine un sorso.
— No, grazie, non ho sete; — e faceva atto di respingere la fiaschetta colla mano.
— Bevi, bevi; ti farà bene, ti ridarà un po’ di forza. — Bevve.
— Vuoi mangiare? Per ora non c’è altro che un po’ di pane. — Oh! lanterna, porgi un pezzo di pane. —
Il soldato che tenea la lanterna trasse premurosamente un pezzo di pane dalla tasca e glie lo porse.
— No, grazie.... non ho mica fame.
— Mangia, mangia; è molto tempo che cammini; hai bisogno di rinvigorirti lo stomaco, mangia. —
Esitò un momento; poi afferrò il pane con tutte e due le mani e lo addentò coll’avidità d’un affamato.
Ci guardammo tutti in faccia. — Di’ la verità: quanto tempo è che non mangi?
— È da questa mattina di buon’ora.
— Oh! —
In quel punto s’udì uno squillo di tromba; ci rimettemmo in via. Dopo poco più d’una mezz’ora Carluccio fu colto un’altra volta dal sonno. Gli domandammo ripetutamente s’ei volesse coricarsi sur uno dei carri del vivandiere, ed egli ripetutamente ricusò dicendo: — Non son mica stanco io.... non ho mica sonno. — Ma tratto tratto gli si chiudevan gli occhi irresistibilmente, e si soffermava, e, rimasto un istante immobile come una statua, ripigliava poi l’andare a passi ineguali, descrivendo sulla strada dei lunghi zig-zag e andando talvolta a dar colla testa nel gomito dei soldati.... — Animo, Carluccio, vieni con me. — Lo presi per mano e lo condussi alla coda della colonna, dove, scambiata una parola col vivandiere, lo feci coricare sopra un carro, mentre ei mi andava tuttavia ripetendo: — Non sono mica stanco, io.... non ho mica sonno.... voglio camminare ancora.... voglio.... — E s’addormentò d’un sonno profondo mormorando che non aveva bisogno di dormire e che voleva camminare. Poco più di un’ora dopo il reggimento si fermò di nuovo per qualche minuto. Appena sonata la tromba, i soldati dell’ultima compagnia, che mi avevano veduto condurre Carluccio dal vivandiere, accorsero e si affollarono intorno al carro. Un d’essi staccò la lanterna dal fucile e l’avvicinò al volto del ragazzo; gli altri si chinarono a guardarlo. Seguitava a dormire placidamente; teneva la testa appoggiata sopra un sacco di pane, ed aveva ancora gli occhi rossi e la guancia molle di lagrime. — Che bel bambino! — disse sottovoce un soldato. — Come dorme di gusto! — mormorò un altro. — Un terzo allungò la mano e gli strinse una guancia tra l’indice e il medio. — Giù quelle manaccie! — gridarono tutti gli altri. — Lascialo stare. — Lascialo dormire. — Carluccio si svegliò, e lì sul momento, a vedersi tutti quei soldati davanti, ebbe un po’ di paura; ma si tranquillò tosto, e sorrise. — Di chi sei figlio? — gli domandò un soldato. Carluccio esitò un istante e poi, sovvenendosi del mio consiglio, rispose serio serio: — Sono il figlio del reggimento.
Tutti i soldati si misero a ridere. — Chi ti ha condotto con noi? Dove fosti trovato?
Altra esitazione, e poi colla più gran serietà: — Mi hanno trovato nel fodero della bandiera. —
I soldati diedero in una risata più forte di prima. — Qua la mano, camerata! — gridò un caporale porgendogli la mano. Carluccio gli porse la sua e se la strinsero. — Anche a me! — disse un altro soldato, e Carluccio strinse la mano anche a lui. E così l’un dopo l’altro tutti gliela porsero ed egli la strinse a tutti. L’ultimo gli disse forte: — Amici per la pelle, non è vero, bambino? — Ed egli rispose gravemente: — Amici per la pelle. — In quel momento sonò la tromba, i soldati s’allontanarono ridendo, ed io, comparso tutto ad un tratto dinanzi a Carluccio, gli domandai: — Ebbene? Che cosa m’hai da dire di bello? — Mi guardò, sorrise, e rispose: — I soldati mi vogliono bene. —
III.
Arrivammo al campo intorno alla mezzanotte; non mi ricordo quante miglia si fossero fatte da Padova in poi, nè in che punto, presso a poco, si spiegassero le tende. Qualche villaggio, in vicinanza del campo, v’era di sicuro; ma per quanto si guardasse in giro non appariva cima di campanile nè vicino nè lontano. Il cielo, già nuvoloso e scuro che non ci si vedeva una stella, si era fatto sereno. Il prato dove il reggimento doveva piantar le tende era tutto rischiarato dalla luna e circondato d’alberi grandi e folti, che gli facevano intorno intorno un’ombra scurissima; vi regnava un silenzio e una quiete di cimitero; era un luogo pieno di bellezza cupa e severa; e l’animo nostro ne fu in tal modo colpito che si entrò nel campo tacitamente, e tacitamente ci si schierò, guardando attoniti di qua e di là, come se ci trovassimo in un giardino incantato.
In poco d’ora si piantò il campo, si condussero i carri al loro posto, si posero le sentinelle; le compagnie si riordinarono, senz’armi, in mezzo alle proprie tende; e i sedici furieri cominciarono ad alta voce l’appello, ciascuno ritto dinanzi alla sua compagnia, con da un lato gli ufficiali e dall’altro un soldato colla lanterna a illuminargli il taccuino. Intanto Carluccio, ricondottomi dal vivandiere, era corso a nascondersi in mezzo a due tende e stava là tra impaurito ed attonito a contemplare quello stupendo spettacolo che è un campo illuminato dalla luna. Quella moltitudine di tende biancheggianti in lunghe file fino a perdersi nell’ombra degli alberi lontani; quei cinquecento fasci di baionette luccicanti; tutta quella gente e pur quella sì profonda quiete; e quelle voci monotone dei furieri gradatamente men distinte e più fioche, dalla compagnia li accosto giù giù fino all’ultima, là in fondo, dove la lanterna appare appena appena come una lucciola; e poi il tacersi successivo anche di queste voci, e il misterioso silenzio, e, a un segno di tromba, il subito rompersi delle file e lo sparpagliarsi rumoroso; e sotto le tende, al buio, quel confuso gridìo e quell’affaccendarsi frettoloso a comporre i letti co’ cappotti, le coperte e gli zaini, finchè a poco a poco in tutto il vasto campo si ristabilisce la quiete e una tromba non vista impone con prolungati e quasi lamentevoli squilli il silenzio.... è uno spettacolo che commove. Carluccio non aveva mai veduto un campo, e ne rimase profondamente ammirato e quasi intenerito. E ci sarebbe di che intenerirsi davvero, chi potesse vedere dentro tutte quelle tende! Quanti moccolini accesi segretamente in mezzo a due zaini, accanto a un foglio di carta da lettere sgualcito, dinanzi a una faccia in cui si palesano ad un tempo e la fatica del lungo cammino e la paura dell’ufficiale di guardia, che pover’a noi se si avvede del lume, e la lotta penosa fra l’affetto che prorompe impaziente e la parola che s’ostina a non venir fuori! Quello è il luogo e quella è l’ora dei ricordi melanconici. Là, sotto quelle tende, quando tutto tace all’intorno, là s’affollano le immagini dei parenti lontani e degli amici del proprio paese, immagini vive e parlanti; care, su tutte, quelle delle madri che vengono ad accomodar lo zaino sotto la testa al figliuolo pregando dentro al core: — Dio mio! fate che non sia questo il suo ultimo sonno! — Chi non ha versato una lagrima, la sera, sotto la tenda, a quell’ora?
— Vieni qua, Carluccio. —
Venne, e io lo condussi sotto la tenda conica della mia compagnia, dove m’avevano preceduto gli altri due ufficiali subalterni (il capitano era malato); due di que’ giovani pieni di cuore, che, sotto l’apparenza d’un’indole dolce e mansueta, racchiudono un’anima capace di grandi cose; di quei bravi soldati che, ignorati o indistinti dai più nelle congiunture della vita ordinaria, giganteggiano improvvisamente sul campo di battaglia, e si rivelano eroi, e fanno dire dalla gente: — chi l’avrebbe mai detto! — Gente che ama la vita soltanto per questo, che, quando occorre, si può spenderla a un buon fine.
La tenda era illuminata da una candela confitta in terra, e i miei due amici stavan seduti uno di qua e l’altro di là, colle gambe incrociate sopra uno strato di paglia che le nostre ordinanze aveano frettolosamente raccolta in una scappatella dal campo. Appena entrati, ci sedemmo anche noi e si cominciò a chiacchierare.
Carluccio teneva gli sguardi bassi e appena appena, quand’era interrogato, osava levarceli in volto un momento per riabbassarli subito dopo. Aveva ancora gli occhi gonfi e rossi dal gran piangere, e gli tremavano le mani e la voce, e quelle non sapea come muovere o dove tenere, e questa gli usciva rauca e fioca, che era una pietà a sentirlo; imbarazzato e confuso come un colpevole, povero ragazzo! A forza d’interrogarlo e di pregarlo e di fargli coraggio a parlare, riuscimmo a snodargli la lingua e a cavargli di bocca qualcosa di più particolare intorno alla sua famiglia. Poi a poco a poco egli pigliò animo e s’infervorò nel discorso, confortato dagli atti d’assentimento e di pietà che andavamo continuamente facendo alle sue parole, per modo che, a un certo punto, noi pendevamo dal suo labbro, meravigliati e commossi.
— Non è mia madre vera — egli diceva — ecco perchè non mi vuol bene. L’altra che era mia madre vera e che è morta, l’altra mi voleva bene, e molto; ma questa che ho adesso.... È lo stesso come se non ci fossi, io, in casa; mi dà da mangiare, questo sì, e anche da dormire; ma non mi guarda quasi mai, e quando mi parla mi parla sempre come se fossi un.... come se avessi fatto qualche gran male; e io invece non faccio mai niente di male a nessuno, e tutti possono dirlo, e i vicini di casa mi vogliono più bene di lei.... Gli altri due ragazzi che sono più piccoli di me, oh quelli lì non c’è caso che li faccia piangere! Sono sempre ben vestiti, ed io paio uno di quelli che vanno a domandare l’elemosina....
— Poverino! — gli disse uno dei miei amici facendogli una carezza.
— E poi essa non mi conduceva mai a passeggiare cogli altri due. Certe volte mi lasciava chiuso in casa, solo, quelle sere di domenica che si vede passare tanta gente nella strada, e io stava alla finestra ad aspettare che essi ritornassero, ed essi non tornavano mai e io mi addormentavo colla testa sopra il davanzale. Poi, quando tornavano, essa mi sgridava; io era rimasto chiuso in casa, e loro erano andati al teatro o al caffè, e gli altri due ragazzi me lo venivano a dire nell’orecchio: — Noi siamo andati, e tu no, e tu no, — e poi mi facevano anche le corna perchè io mi arrabbiassi, e se io mi metteva a piangere, essi mi burlavano e la mamma non diceva niente. E a me quelle cose lì mi facevano dispiacere, ecco, perchè io a loro non avevo mai fatto niente di male, e tutte le volte che l’uno o l’altro mi veniva a far le belle e mi pigliava la voglia di lasciargli andar giù qualche.... mi trattenevo sempre e avevo pazienza. V’era delle volte che la mamma, quando avevano finito di mangiare, mi faceva portar via i piatti, e mentre li portavo via i ragazzi mi dicevano: — Guattero. — Oh Dio! Se mi avessero dato un pugno sulla testa non mi sarebbe rincresciuto tanto come sentirmi dire quella parola.... Una volta, la sera d’un giorno di festa, la mamma tornò a casa tardi tardi e aveva il viso tutto rosso e gli occhi tutti lustri lustri e parlava e rideva forte cogli altri due, e tutti e tre si posero a cenare e la mamma bevve tutta la bottiglia del vino. E dopo che ebbero finito, mi chiamò, mi pose tutti i piatti tra le mani, e mi disse: — To’, porta via, mariuolo; è il tuo mestiere. — E mi diede un calcio e si misero a ridere tutti e tre. Io non dissi niente; ma quando fui in cucina posai i piatti e mi gettai sopra una seggiola e stetti lì a piangere come un disperato, al bujo, fin che se ne andarono a dormire. Se non era Giovannina, una giovane che stava di casa vicino a noi e faceva la sarta e mi voleva bene, io sarei stato sempre tutto stracciato....
— Povero bambino! ripetè il mio amico. Io gli domandai in che modo s’era risoluto a fuggire.
— Da principio — egli rispose — io volevo scappare con una compagnia di ciarlatani, di quei che fanno i giuochi e che quando trovano dei ragazzi che nessuno li vuole, se li pigliano con sè; ma poi mi hanno detto che c’è dei giuochi che per insegnarli a fare i ciarlatani bisogna che sloghino le ossa delle spalle, e che bisogna averle slogate fin da piccoli, e io era già troppo grande, e non sono scappato. La mamma intanto continuava a trattarmi male e a darmi poco da mangiare. Ma un bel giorno cominciarono a passare i soldati dell’Italia, e tutta la gente faceva una gran festa a quei soldati, e i ragazzi li accompagnavano fuori di città e ce n’era di quelli che li accompagnavano anche per molte miglia; e anzi io ho saputo che ce n’erano scappati da casa due o tre, ed erano stati via due o tre giorni, e poi se n’erano tornati, e dicevano di aver mangiato del pane dei soldati e dormito sotto le tende. Io pensai subito a scappare. Mi ci provai due o tre volte; ma quando cominciava a farsi buio, mi pigliava un po’ di paura, e tornavo a casa. Ma ieri mattina mia madre mi picchiò con una verga e mi fece molto male; guardino qui i segni nelle mani, e poi me ne ha date anche nel viso, e tutto questo perchè io avevo risposto: — Crepa, — a uno dei ragazzi che mi burlava dicendo che ho le scarpe che sembrano barche; e non mi diedero nemmeno un pezzo di pane, e po’ la sera mi lasciarono solo in casa. Io stava alla finestra colle lagrime agli occhi ed ero proprio disperato, quando tutto ad un tratto ho sentito suonar la musica, sono uscito subito di casa e appena vidi che erano i soldati del re che c’è adesso, di quello che è venuto a liberare, mi sono gettato in mezzo a loro, e non li ho più lasciati... Poi lei mi parlò.... (e mi guardava). Poi mi hanno detto che non avessi paura, mi hanno dato da mangiare... Io avevo una fame! E mi dissero poi ancora che mi volevano tenere con loro.... Ma io non voglio mica star qui come un povero a mangiare il pane per niente; io voglio lavorare.... spazzolerò i panni.... (e mi toccava la tunica), porterò da bere, andrò a prendere la paglia per dor.... —
Ci alzò gli occhi in volto, fece un atto di sorpresa e rimase attonito a guardarci. Uno dei miei amici gli gettò le braccia al collo e se lo strinse sul petto, mormorando: — Povero ragazzo! —
E stettero tutti e due immobili così.
IV.
Sul far del giorno, prima ancora che si sonasse la sveglia, ci destò il rumore d’una pioggia fittissima e un violento scoppio di tuono. Misi io pel primo la testa fuori della tenda. Nel campo, all’infuori delle sentinelle, non si vedeva anima viva; ma tutti o quasi tutti i soldati eran già desti. Di fatti, allo sfolgorar d’ogni lampo, sonava da tutte le parti dell’accampamento un acutissimo e prolungatissimo brrr, come fanno i burattinai per annunziar l’apparire e lo sparire del diavolo; e ad ogni scoppio di tuono un altro fragoroso e prolungato grido ad imitazione di quello scoppio. Indi a poco fu sonata la sveglia, e il capitano di guardia chiamò gli ufficiali di settimana al rapporto per annunziare che dentro tre ore ci saremmo rimessi in cammino. Questo annunzio mi fece subito pensare a Carluccio. Io non m’ero ancora domandato che cosa alla fin fine avremmo fatto di quel ragazzo. — Il figlio del reggimento! Son due belle parole e presto dette; ma avevamo noi il diritto di tenerlo lontano da casa? E chi si sarebbe addossata questa responsabilità, poichè qualcuno avrebbe pur dovuto addossarsela? — Parlai di questo agli amici e tutti convennero ch’era necessario provvedere al rinvio di Carluccio, scrivendo al Sindaco di Padova e rivolgendosi alle Autorità del villaggio più vicino. Era una decisione dolorosa codesta; ma come farne a meno? Mi restava però una speranza: e se da Padova non rispondessero? E se la matrigna non rivolesse più il suo figliastro? L’incarico di scrivere a Padova me lo assunsi io stesso e a gran malincuore e a stento, scrissi; ma l’altro incarico, quello di condur Carluccio al villaggio e di consegnarlo alle Autorità, oh questo poi non me lo volli proprio addossare. — Ci pensino gli altri — dissi tra me; — io la mia parte l’ho fatta. — E cercai e pregai uno per uno i miei amici perchè facessero quel che restava da farsi. — Che c’entro io? — mi fu risposto da ognuno di loro. — Ed io? — domandavo alla mia volta. — Ebbene, non c’entriamo nessun dei due. — E il dialogo si troncava così. Tornai alla tenda indispettito.
— Carluccio!
— Che cosa vuole, signor ufficiale?
Bisogna che tu venga con me fino al villaggio, a pochi passi di qua. —
Un subito sospetto gli attraversò la mente; si fece serio serio, e mi guardò fiso negli occhi. Io non aveva saputo dissimulare il mio disegno nè col suono della voce nè coll’espressione del viso; mi voltai da un’altra parte, e finsi di cercar qualcosa nella mia borsa da viaggio.
— Mi vogliono mandare a casa! — egli gridò tutt’ad un tratto; ruppe in un pianto disperato, si gettò in ginocchio ai miei piedi, e ora giungendo le mani, ora afferrandomi per la tunica, cominciò a dire con impeto vivissimo di passione: — No, no, signor ufficiale, non mi mandino a casa, per pietà, per pietà; io non posso tornare a casa, io piuttosto vorrei morire; mi tengano qui, mi diano da fare tutto quello che vogliono chè io farò tutto, e al mangiare ci penserò io.... Per pietà, signor ufficiale, non mi facciano tornare a casa....
Io mi sentiva straziare il cuore; mi contenni un istante e poi proruppi anch’io: — No, no, datti pace, Carluccio, non piangere, non aver paura, non ti rimanderemo a casa, no; resterai con noi, sempre con noi, ti vorremo sempre bene...; te lo prometto, stanne sicuro, non piangere, povero ragazzo; non pianger più....
A poco a poco si quietò.
— Non sono proprio nato per far le parti terribili, via, — dissi tra me uscendo dalla tenda; — non c’è altro che aspettare la risposta da Padova, e poi.... e poi vedremo ciò che sarà da fare. —
Due giorni dopo ci accampavamo in vicinanza di Mestre, dove restammo fermi quasi un mese, fino alla stipulazione dell’ultimo armistizio, vale a dire fino a quando ritornammo indietro verso Ferrara.
Passano cinque giorni, ne passano sette, ne passano dieci, e la risposta da Padova non arriva. Si scrive un’altra volta, s’aspetta altri cinque giorni, altri sette, altri dieci, e nessuna risposta. — Che si siano smarrite le lettere? io pensava. Niente di più facile con questo bel servizio di posta! O che l’abbiano ricevute e, assorti in cure più gravi, non se ne sian dati per intesi? Anche questo è possibile. O che, bandita la voce del fatto, la matrigna, pur riconoscendo dai contrassegni che il ragazzo in quistione era il suo, abbia fatto orecchie da mercante, contentona che l’esercito liberatore abbia liberato anche lei da un ospite importuno? Ah! questa è la più probabile. Anzi la dev’essere andata così di sicuro. E in questa certezza non si scrisse più nè a Padova nè altrove. E con che pro si sarebbe scritto se non eravamo riusciti nè colle buone, nè colle cattive a strappar dalla bocca di Carluccio nè il cognome suo, nè quello della matrigna, nè la casa, nè il mestiere, nè qualsivoglia altro indizio per cui riuscisse possibile di scuoprire la sua famiglia?
V.
Carluccio continuò a restare con noi. Si provvide subito a rinnovargli i vestiti, perchè i suoi, già dapprima ricisi e rattoppati da tutte le parti, oramai gli si erano sciupati del tutto in quei due o tre giorni di marcia, e gli cadevano a brani. Un cappelletto di paglia, una giacchettina e un par di calzoni di tela, una bella cravatta rossa, due scarpette ben adatte al suo piccolo piede: oh povero ragazzo, come fu contento quando gli presentammo tutta codesta roba! Pareva che non credesse ai suoi occhi; si fece rosso, voltò la testa da un’altra parte, aveva quasi il sospetto che gli si volesse fare una burla, fece molte volte col gomito l’atto di respingere da sè quell’insperato regalo, e tenne lungamente il mento sul petto. Ma quando vide che noi cominciavamo a stizzirci un poco di quella sua restìa incredulità e facevamo l’atto di andarcene dicendo: — Vestiremo un altro ragazzo; — allora alzò all’improvviso la testa, fece un passo verso di noi, accennò colla mano che ci fermassimo ed esclamò con voce di pianto: — No! no! — Ma si vergognò tosto di quel suo pregare, e chinò un’altra volta la testa e stette là immobile cogli occhi bassi e pieni di lagrime. Quando poi ebbe i suoi panni in dosso ne fu tanto imbarazzato che non sapea più nè camminare, nè gestire, nè parlare.
— Cospetto, Carluccio! — gli dicevano i soldati facendogli largo quando passava furtivamente in mezzo a loro; — cospetto che lusso! — Ed egli diventava rosso, e via di corsa.
Ma in capo a poco più d’una settimana si fe’ vispo, disinvolto e arditello come un tamburino; divenne amico di tutti i soldati della nostra compagnia e di gran parte dei soldati delle altre, e di tutti gli ufficiali del reggimento, e d’allora in poi prese a condurre una vita continuamente operosa e utile a sè ed agli altri. Dormiva sotto la nostra tenda. La mattina, al primo rullo di tamburo, era in piedi e spariva. Non eravamo ancora ben desti, che già egli era tornato dalla cucina del nostro battaglione col caffè, col rum, o con altro che fossimo assuefatti a pigliare, e: — Signor ufficiale, — diceva con quella sua vocina rispettosa, — è ora.... — Ora di che? — si brontolava noi con voce aspra e arrantolata, soffregandoci gli occhi. — Ora che si levino. — Ah! sei tu Carluccio? Qua la mano. — E gli davamo una stretta di mano che lo metteva di buon umore per tutto il giorno.
Contendeva il compito alle nostre ordinanze, voleva spazzolar panni, lustrar bottoni e sciabole e stivali, lavar camicie e pezzuole: volea far tutto lui, e pregava umilmente ora l’uno ora l’altro soldato che per piacere gli dessero qualcosa da fare, che lui avrebbe fatto tanto volentieri, e che si sarebbe anco ingegnato di far bene, e che a ogni modo bisognava ch’egli imparasse, che aveva bisogno d’imparare, che voleva imparare. Qualche volta noi eravamo costretti a levargli gli oggetti di mano, e a dirgli con una certa severità: — Fa quel che ti si dice di fare, e non cercare più in là. — E bisognava fare i severi perchè in buona coscienza non potevamo permettere ch’ei pigliasse l’uso di farci il servitore. Perchè, povero ragazzo? L’avevamo forse condotto con noi a tal condizione? Egli aveva un gran timore che a poco a poco lo pigliassimo in uggia, comunque non si facesse che colmarlo di carezze e circondarlo di cure e di cortesie; gli pareva che, a non lavorare, ei dovesse finire col parerci un aggravio inutile, e però si sforzava di mostrarci ch’era pur buono a far qualcosa o che, se non altro, aveva del buon volere. Pure il timore di parerci importuno qualche volta lo assaliva e gli dava pena. Tratto tratto, mentre mangiava con noi seduto in terra attorno a un tovagliolo steso sull’erba, accorgendosi improvvisamente d’esser guardato, si vergognava di mangiare, diventava un po’ rosso, abbassava gli occhi, faceva dei bocconi piccini piccini, e se non si badava noi ad empirgli il bicchiere, egli non ardiva di farlo, e stava a bocca asciutta magari per tutto il tempo del desinare. Talvolta sotto la tenda, mentre si stava pigliando sonno, egli, all’improvviso, si vergognava di occupar tanto spazio e di giacere sopra tanto strame, e si levava a sedere e lo sparpagliava di qua e di là verso i nostri posti, riserbandone una piccola parte per sè, e coricandosi poi tutto rannicchiato rasente la tela della tenda, a rischio di pigliar qualche malanno per causa della brezza. Non mi sfuggiva pur uno di tutti questi suoi atti, nè uno de’ suoi pensieri, e mi affrettavo sempre a dissipare le sue vergogne o apostrofandolo allegramente: — Ebbene, Carluccio? — o stringendoli la guancia fra l’indice e il medio con quel fare che significa: — Vivi in pace, ti proteggo io. — Ed egli subito si rassicurava. Oh che mesta e amorosa pietà mi metteva in cuore quella sua delicata vergogna! — Povero Carluccio, — pensavo io, quando, ardendo ancora il lume sotto la tenda, lo vedevo dormire quieto e tranquillo, tutto ravvolto nel mio cappotto e colla faccia nascosta per metà dentro il berretto d’un soldato; — povero Carluccio! Perchè non hai più madre, tu ti credevi solo sopra la terra, e non ti immaginavi che alcuno ti potesse voler bene! No, Carluccio; pei fanciulli senza madre e senza padre ci sono i soldati; essi non hanno che un pezzo di pane in tasca; ma in compenso chiudono molto tesoro d’affetto nel cuore, e dispensano generosamente l’una e l’altra cosa a chi n’ha bisogno. Dormi tranquillo, Carluccio, e sogna tua madre; ella certo ti guarda di lassù, ed è ben lieta che tu sia fra noi, perchè sa che sotto i nostri ruvidi cappotti batte il suo cuore.
Di giorno era continuamente in faccende. Andava fuori del campo a prender acqua pei soldati quando era proibito d’uscire; e lo si vedeva in giro in mezzo alle tende tutto carico di borraccie e di gamelle, rosso in viso, sudante, accompagnato da una folla di assetati, che gli si stringevano ai panni e gli facevano ressa. — Carluccio, la mia gamella; — la mia borraccia, Carluccio; — voglio prima la mia; — no, la mia, te l’ho data prima di lui; — e no, — e sì. — Ed egli a far cenno che si quetassero e a sospingerli indietro: — Uno alla volta, da bravi; fatemi il piacere; tiratevi un po’ in là; lasciatemi respirare. — E si asciugava la fronte e pigliava fiato, chè proprio gli era stanco e sfinito da non poterne più. Di quando in quando qualche soldato lo ricercava per farsi scrivere una lettera a casa, o per farsene leggere e spiegare una ricevuta. Questo favore ei lo faceva con molta gravità. Stava un momento sopra pensiero e poi diceva serio serio: — Vediamo. — Si sedevano sotto la tenda e, dopo aver molto ragionato tutti e due coll’indice teso verso il foglio scritto o da scriversi, finalmente Carluccio, rimboccate le maniche della giacchetta, si metteva all’opera agrottando le sopracciglia, stringendo le labbra e mandando fuori un suono inarticolato che voleva dire: — È un affar serio; ma via, farò tutto quel che potrò. —
Aiutava poi ora l’uno ora l’altro ad accomodare le tende, e ci aveva un garbo a tirare quelle cordicelle e a conficcare in terra quei piuoli, da far credere ch’ei non avesse fatto mai altro in vita sua.
Quando si facevano gli esercizi egli si ritraeva in un angolo del campo, e di là ci guardava estaticamente per tutto il tempo che gli esercizii duravano. Quando tutto il reggimento era schierato e faceva il maneggio dell’armi, quel povero ragazzo andava in visibilio. Quel battere sulla terra di mille e cinquecento fucili, in un colpo solo, come un solo fucile; quel lungo ed acuto tintinnìo di mille cinquecento baionette inastate, tolte, rimesse e ringuainate in un momento; quel poderoso tonar dei comandi, e quel profondo silenzio delle file e tutte quelle faccie immobili ed intente come statue; lo spettacolo di tutte queste novità lo accendeva d’entusiasmo, gli metteva addosso una irrequietezza, una smania di fare, di gridare, di correre, di saltare, e tutto questo egli faceva sempre e subito appena il reggimento aveva rotto le righe; prima no. Prima si contentava di pigliare degli atteggiamenti eroici e di guardarci colla testa alta e l’occhio fiero, senza accorgersene, notate; assecondava inconsapevolmente i moti dell’animo, come quando qualcuno, narrando, ci commove, e noi esprimiamo coi moti del volto intento il senso e gli affetti delle cose narrate.
Quando poi sentiva la musica del reggimento, pareva matto.
Quelle sere che qualcuno di noi doveva andare agli avamposti, egli si mostrava di un umore un po’ men gajo del consueto. — Buona notte, signor ufficiale! — ci diceva, con un lungo sguardo, quando partivamo; e, uscito fuor della tenda, stava a guardarci fin che non eravamo spariti.
Questi modi affettuosi e così spontaneamente gentili ei li usava con tutti, ufficiali e soldati; e però tutti lo amavano. Quando passava in mezzo alle tende d’una compagnia qual si fosse, era un chiamarlo da tutte le parti, un tender di braccia per trattenerlo, un alzarsi e un corrergli dietro dei soldati con le lettere in mano: — Carluccio, un momento, un momento solo, una parola, solamente una parola. — Gli ufficiali li salutava militarmente e con un’espressione di più o meno profondo rispetto a seconda de’ gradi, che egli aveva imparato a distinguere fin dai primi giorni. Aveva una gran paura del colonnello. Quando lo vedeva di lontano o se la dava a gambe o si rannicchiava dietro una tenda; il perchè non lo sapeva neanco lui. Ma un giorno, mentre egli stava a chiacchiera con due o tre soldati presso alla tenda d’un aiutante maggiore, eccoti sbucare all’improvviso il colonnello. Tremò da capo a piedi; non era più in tempo a nascondersi; bisognava guardarlo e salutarlo; alzò gli occhi timidamente e portò la mano al cappello. Il colonnello lo guardò, gli passò la mano sotto il mento e gli disse: — Addio, buon ragazzo. — Carluccio andò a un pelo dall’impazzare; volò subito da noi, e, ansando e balbettando, narrò l’accaduto.
Cosa strana in un ragazzo della sua età, egli non abusò mai menomamente della famigliarità con cui si trattava. Sempre docile, umile, rispettoso, come il primo giorno in cui lo raccogliemmo sulla via. E di quel fortunato giorno tratto tratto ei ce ne soleva parlare; non mai però senza che gli luccicasse qualche lagrima negli occhi. Aveva anche le sue ore melanconiche, specialmente i giorni di pioggia, quando tutti i soldati stanno raccolti sotto le tende, e il campo è tacito e deserto. In quell’ore egli stava seduto sotto la tenda colla faccia verso l’apertura e gli occhi immobili a terra come se contasse le goccie di pioggia che venivano dentro. — Carluccio a che cosa pensi? — gli domandavo. — Io? a niente. — Non è vero, vieni qua, povero Carluccio, vieni qui accanto a me; io non sono che uno fra i tanti che ti vogliono bene; ma ti voglio bene per tutti. Siediti qua; discorriamocela fra noi altri due, e via dal cuore tutte le malinconie. — Egli piangeva. Ma eran malinconie che svanivano presto.
VI.
In un angolo del campo v’erano due piccole case, abitate da una buona famigliola di contadini, nelle quali si era stabilito il quartier generale delle cucine di tutti gli ufficiali dei quattro battaglioni. Figuratevi che confusione! V’erano da sei a otto soldati, tra cuochi e guatteri, per ogni cucina; un continuo litigarsi dei primi che non sapevano far niente e volevano insegnarsi l’un l’altro a far tutto; un continuo bisticciarsi degli altri che rivaleggiavano per diventar cuochi; un continuo va e vieni di ordinanze a prendere il desinare per gli ufficiali agli avamposti, e contadini, e venditori, e ragazzaglia dei dintorni: una babilonia.
In una nuda stanzaccia di quelle case fu ricoverato Carluccio quando lo colse la febbre. La quale da molti giorni infieriva nel reggimento a tal segno che, ogni giorno, n’eran colti da tre a cinque a sette soldati per ogni compagnia. Carluccio l’ebbe tanto forte che si temeva ne morisse. Il medico del reggimento lo curò con una sollecitudine che non si poteva maggiore; tutti noi gli femmo un’assistenza più che paterna.
Fra le tende e la porta della sua stanza era un incessante andirivieni di soldati. Entravano in punta di piedi, s’avvicinavano adagio adagio al suo letticciuolo, lo guardavano negli occhi ch’ei moveva intorno gravi e socchiusi o teneva lungamente immobili sul volto delle persone senza dar segno di conoscerle; lo chiamavano per nome, gli posavano una mano sulla fronte, si facevano l’un l’altro certi cenni per dirsi il proprio parere sullo stato del piccolo infermo; poi si allontanavano tacitamente, si soffermavano sul limitare della porta per guardarlo ancora una volta, e uscivano scotendo la testa in atto di dire: — Poveretto!
— Carluccio, come stai? — gli chiesi un giorno quand’ei cominciava a star meglio.
— Mi rincresce.... egli rispose, e lasciò la risposta a mezzo.
— Che cosa ti rincresce?
— Non posso....
— Ma che cosa non puoi?
— .... Far qualche cosa. — E abbassò gli occhi e mi guardò le scarpe e i calzoni, e soggiunse: — .... Fanno tutto gli altri....
Voleva dire delle ordinanze che ripulivano tutta la nostra roba esse sole, senza che egli le potesse aiutare.
— E io son qui...., disse ancora con voce di pianto,... son qui.... a non far niente.... d’imbarazzo.... Voglio.... — E fece uno sforzo per levarsi a sedere; non ci riuscì e ricadde colla testa sul guanciale e si mise a piangere. — Che bell’anima! — io esclamai, e dissi e feci quanto seppi per consolarlo.
VII.
— Come si fa a far le ritirate i giorni delle battaglie? È vero che i soldati non camminano più al loro posto e vanno ognuno dove gli pare? — Questa domanda dirigeva Carluccio, una sera, ad uno degli ufficiali della mia compagnia, il quale, seduto accanto al suo letto, lo svagava con que’ fantastici racconti di guerre e di battaglie, che si soglion fare ai fanciulli. L’interrogato sorrise, certamente pensando quanto una tale domanda avrebbe potuto parer sottile e furbesca dove non l’avesse fatta un fanciullo di quell’età, ed anco beffarda se non l’avesse fatta un amico.
E sorrisero pure altre due persone che si trovavano là, sedute anch’esse accanto al letticciuolo; l’una delle quali era un consigliere comunale d’un paesello vicino; l’altra il proprietario di quegli stessi terreni che il nostro reggimento occupava; due ometti di mezza età, molto gioviali, molto panciuti e, ben inteso, molto sviscerati della causa italiana; soliti a venir la sera in quella stanzuccia per istare un po’ a chiacchiera coi «valorosi» ufficiali dell’esercito italiano; gente di campagna, alla buona, cui si leggeva il buon cuore sul viso, e che ogni giorno, prima di accomiatarsi da noi, non tralasciavan mai di ripetere molto enfaticamente che con de’ soldati come i nostri la fortezza di Malghera si poteva pigliarla addirittura con un assalto alla baionetta. — Ma credano, — dicevamo noi; — la cosa non è poi tanto facile come pare a loro! — Oh! — rispondevano sorridendo con molta dignità, — lo slancio del soldato italiano.... — E compivano la frase con un gesto che voleva dire: — Eh, eh, ben altri miracoli può fare.
— Come si fa a far le ritirate? — domandò alla sua volta l’uffiziale interrogato. — È una domanda un po’....
— Vaga, — suggerì il consigliere.
— Appunto. —
Carluccio tacque e si diede a pensare qualcos’altro da domandare. Intanto il Consigliere, che era stato un momento sopra pensiero, uscì fuori a dire:
— Eppure, a pensarci su, ha da essere un gran doloroso spettacolo quello d’una ritirata.
E tacque in atto di aspettare una risposta.
— Sentano, — rispose l’ufficiale facendosi tutto ad un tratto pensieroso.
Gli altri due, presentendo un discorso lungo, avvicinarono le loro seggiole a quella del mio amico, e composero anch’essi la faccia a un’intenta serietà.
— Sentano, — ripigliò l’ufficiale con voce vibrata; — v’è un dolore appetto al quale la morte dei nostri più cari, la perdita delle nostre più belle speranze e i più inattesi e più fieri disinganni della vita non sono che una mestizia sfuggevole, un turbamento leggero, un nonnulla; e questo dolore è quello che ci strinse l’anima quella sera.... Il mattino felici, ebbri di gioia, ardenti di un entusiasmo che ci cavava le lagrime e ci faceva prorompere in grida da forsennati, impazienti della battaglia, certi, si può dire, della vittoria; e poche ore dopo.... ecco quell’esercito tanto fresco di gioventù, tanto pieno di vita, tanto forte di ardimento e di fede, quell’esercito idolatrato dalla patria, frutto di tanti sacrifici, oggetto di tante cure, argomento di tante trepidazioni e di tante speranze; eccolo, poche ore dopo, vinto, disordinato e sparpagliato per la campagna, rifar mestamente le vie percorse il mattino quasi in sembianza di vincitore.... Ah! gli è uno spettacolo che strazia l’anima, che atterra, che schiaccia; è un dolore che nessuna parola umana basta a significare. — Chi ci renderà, — domandavamo desolatamente a noi stessi, — chi ci renderà il nostro cuore di stamane, il nostro orgoglio, la nostra fede, la nostra forza? Chi ci richiamerà negli occhi quelle lagrime d’entusiasmo? Chi rialzerà l’edifizio su queste dolorose rovine? E che dirà il paese?... Oh, il paese! — Il pensiero ne rifuggiva atterrito; ci pareva di risentire le grida e gli applausi con cui le popolazioni delle città ci avevano accompagnati alle porte, e quegli applausi e quelle grida ci scendevano nel cuore e gli davan delle strette terribilmente dolorose. — Oh tacete! — dicevamo dentro di noi — tacete, siamo soldati, e il nostro povero cuore si spezza! —
Seguì un minuto di silenzio. Il consigliere esclamò mestamente:
— E che scompiglio, figuriamoci, dev’esservi stato quella sera!... —
L’ufficiale rispose con un cenno del capo. Altro minuto di silenzio.
— E la sua divisione — interrogò con molta dolcezza il padrone di casa — a che ora, presso a poco, cominciò a ritirarsi? —
L’accento della domanda e l’atteggiamento del volto esprimevano apertamente il suo vivo desiderio di sapere come le cose fossero veramente andate, e non come le dicevano o l’avevano dette i giornali. L’ufficiale capì, e, come egli era un molto facondo parlatore, cominciò subito così:
— Se la memoria non m’inganna, la mia divisione cominciò a ritirarsi dal campo poco dopo il tramonto. I diversi corpi giungevano a passi concitati dalle diverse parti della campagna sullo stradone che mette in Villafranca; quivi le file si disfacevano, i reggimenti si mescolavano, ogni apparenza di ordine scompariva, e una turba tumultuosa si versava di corsa nella città, allagando rapidamente la via principale e la piazza e i vicoli e i cortili di gran parte delle case. Arsi dalla lunga sete, una gran parte dei soldati si slanciò ai pozzi con un’avidità rabbiosa e con certe grida di gioia selvaggia che mettevano spavento. Dieci, venti, trenta, i primi col ventre sul parapetto, gli altri col petto sulla schiena dei primi, si spenzolavano sopra la bocca d’un pozzo, co’ piedi sollevati da terra, a gran rischio di cader giù a capo fitto, e si contendevano colle mani convulse la fune, il secchio, la manovella, respingendosi l’un l’altro a colpi di gomito, a fiancate, a pedate, minacciandosi di por mano alle baionette e urlandosi nell’orecchio imprecazioni e bestemmie; finchè il secchio, tirato su da dieci braccia vigorose, cominciava a vedersi luccicare; e allora le ire e le grida e le percosse raddoppiavano, tutte le braccia si protendevano all’ingiù per afferrarlo le prime; su, su, ancora un tratto, ancor un altro, eccolo; venti mani lo afferrano, dieci bocche infocate gli s’inchiodano agli orli, tira di qua, tira di là, l’acqua agitata trabocca e si spande sulle faccie e sui panni e sul terreno; chi ha bevuto? nessuno; così da per tutto. La più parte dei soldati si erano sparpagliati pel paese; qualche battaglione, fraintesi gli ordini ricevuti, non era nemmeno entrato in Villafranca, e s’era diretto verso la strada di Goito pei sentieri dei campi; ond’è che dei corpi non restava più, si può dire, che il nucleo; il colonnello, il portabandiera, gran parte degli ufficiali e pochi soldati; delle bande, nessuna. La folla di cui eran piene le strade mandava un gridìo assordante; era un chiamarsi ad alta voce, un fender la calca a spintoni, un correre di ufficiali qua e là ad agguantare soldati pel braccio e riunirli e spingerli intorno alla bandiera, un via vai di aiutanti di campo e di staffette a cavallo; nel centro della piazza un aggrupparsi frettoloso di colonnelli e di ufficiali di stato maggiore, un interrogare ansioso, un dare e rivocare concitato di comandi; tutti ansanti, co’ volti accesi; gli sguardi, gli atti, gli accenti improntati d’un abbattimento, d’una costernazione profonda: uno spettacolo desolante. Finalmente, come Dio volle, seguìto da una trentina di soldati, che dovettero sfilare uno a uno fra una colonna di carri e le ultime case del paese, fui fuori all’aperta campagna, sulla strada che mena a Goito. Ritrovai il mio battaglione, ridotto a uno sciame di poco più di duecento soldati, e con esso proseguii il calmino. A poco a poco si fece buio perfetto; non ci si vedeva di qui a lì; mezza la strada ingombra di carri d’artiglieria e di provianda che si fermavano ad ogni tratto, così che s’aveva un gran da fare a non rompersi il viso contro la punta di qualche sbarra e a guardarsi i piedi dalle ruote; fossi a destra e a sinistra della via; paracarri e mucchi di pietre ad ogni passo; di tratto in tratto carri rovesciati nel bel mezzo della strada, e sacca aperte ed ogni maniera di provvisioni da bocca sparpagliate; ad ogni po’ di cammino il carretto d’un vivandiere fermo, con suvvi un lumicino e attorno una grossa turba di soldati che impedivano il passo ai sopravvegnenti; di tempo in tempo un qualche maggiore o ufficiale di stato maggiore a cavallo che ti capitava alle spalle mentre men te ’l pensavi, e pover’a te se non eri lesto a scansarti; da tutte le parti gruppi di soldati che ti obbligavano a serpeggiare sulla via come una saetta; ad ogni momento canne di fucili che venivano a un pelo dal cavarti gli occhi e violenti urtoni di addormentati; un polverio denso e continuo che t’empiva gli occhi e la bocca; un incessante vociare di soldati d’artiglieria contro i carrettieri borghesi, che, storditi in mezzo a tanto scompiglio, ingombravano malamente la strada; un gridar rabbioso d’ufficiali che s’affaccendavano invano a rannodare gli sparsi avanzi del proprio pelottone; soldati che salivano e scendevano continuamente dalla strada nei campi e da’ campi sulla strada, precipitando e rotolando giù per le sponde dei fossi; in somma una confusione, un frastuono, uno stordimento da non potersi ridire; una notte d’inferno. Oh! gli è un gran tristo spettacolo quello d’una ritirata!
Gli stenti della giornata, e più ancora le tante e sì varie e sì violente commozioni dell’animo in così breve spazio di tempo, avevano stremate le mie forze; io era stanco morto; adocchiai un carro d’artiglieria dove c’era un posto vuoto, colsi il primo momento in cui si fermò, salii, gli artiglieri mi fecero largo, sedetti, mi appoggiai e presi sonno. Mi svegliai sul far del giorno. Eravamo a pochi passi dal ponte di Goito. Pioveva. Mi toccai i panni; erano fradici. Guardai in su; il cielo era tutto velato da un nuvolone scuro, eguale, che prometteva la pioggia per tutta la giornata. Guardai intorno, pei campi; sempre soldati a stormi che procedevano lentamente, coi capi dimessi, cogli sguardi a terra. Molti di essi avevan sciolto la tela della tenda e se l’eran posta in dosso a guisa d’uno scialle per ripararsi dall’acqua; molti che avevan perduto lo zaino e la tela si ricoveravano sotto quella d’un compagno e andavano così due a due, stretti a braccetto, colle teste avviluppate; altri, perduto il cheppì, s’era posto in capo il fazzoletto; altri; buttato via lo zaino, portava la sua roba in un involto appeso alla baionetta; tutti poi camminavano a gran fatica, zoppicando e inciampando ad ogni momento. Qualcuno di tratto in tratto si arrestava e si appoggiava a un albero o si adagiava in terra, e si levava faticosamente poco dopo, e ripigliava la via. Passai sul ponte; quel ponte su cui, poche ore prima, stavan di fronte una sentinella austriaca e una sentinella italiana squadrandosi in cagnesco; entrai in Goito; svoltai a destra nella strada principale.... Quale spettacolo! A destra e sinistra della strada, sui canti, rasente i muri, sotto le gronde, sulle soglie delle botteghe e delle porte di casa, dappertutto soldati rifiniti dal cammino e dal digiuno, chi in piedi colle spalle appoggiate al muro, chi accosciato, raggricchiato, colle mani sulle ginocchia e il mento sulle mani e gli occhi vaganti qua e là con uno sguardo stanco e pieno di sonno; altri sdraiati e dormienti colla testa sullo zaino; qualcuno che sbocconcellava un tozzo di pane tenendolo stretto con tutte e due le mani e girando intorno uno sguardo sospettoso, come se altri minacciasse di venirglielo a strappare dai denti; qualcun altro che riassestava gli oggetti nello zaino, o lento e svogliato rasciugava colla falda del cappotto le armi. E intanto la strada formicolava di soldati che si avviavano verso Cerlungo; molti, guardando di qua e di là con un viso tra l’attonito e il disgustato, passavan oltre; altri si fermavano accanto al muro, gettavano trascuratamente lo zaino a terra e vi si lasciavan cadere su con una specie d’inanimato abbandono; di tratto in tratto qualcuno di que’ che giacevano, appuntellando i gomiti in terra, si levava con grande sforzo in piedi, e il primo soldato del suo reggimento che gli venisse fatto di veder passare, con quello s’accozzava e si rimetteva in cammino. Alle porte delle poche botteghe ch’erano aperte, un continuo affacciarsi di soldati, a tre, a sette, a dieci alla volta, e un chiedere insistente se vi fosse qualcosa da mangiare, ch’essi l’avrebbero pagato, s’intende, e tendevan le braccia e allargavan le mani per far vedere i quattrini. — No, giovanotti, — rispondeva dal fondo della bottega una voce tutta pietosa, — mi rincresce, non c’è più niente. — A un’altra bottega dunque; niente neanco a questa; via, ad un altra; lo stesso. E via così. Passando dinanzi a certe tane di caffè, si vedevano molti ufficiali dormire colle braccia incrociate sul tavolino e la testa appoggiata sulle braccia; sopra ogni tavolino tre o quattro teste, e in mezzo bicchieri e bottiglie e tozzi di pane sbocconcellati. Qualcuno, la testa abbandonata sulla mano, guardava nella via coll’occhio fisso e stralunato; erano faccie triste, pallide, stravolte come dopo una malattia. Il caffettiere, ritto in fondo alla bottega, colle braccia incrociate sul petto, stava osservando gli uni e gli altri, tacito e pensieroso. Gli sbocchi delle vie laterali erano ingombri di carri e di cavalli, intorno ai quali si affaccendavano in silenzio alla rinfusa soldati del treno e carrettieri borghesi. Intanto passavano per la strada principale alcune batterie di artiglieria; quell’andare lento e grave, quel rumore monotono e cupo dei carri che facea tremare i vetri delle finestre, e quei robusti artiglieri pensosi, seri, ravvolti nei loro grandi mantelli grigi; tutto, insomma, l’assieme di quel tremendo convoglio metteva nell’animo una profonda mestizia. Molte carrozze, con entro ufficiali feriti, venivan dietro l’artiglieria adagio adagio, fermandosi ogni volta che la colonna ond’eran preceduti si fermava. Comunque vi formicolasse una tanta e tale moltitudine, pure, all’infuori del rumore dei carri e delle carrozze, regnava in Goito un alto silenzio come di città disabitata.
I corpi della mia divisione s’erano accampati sulla sinistra della strada che conduce da Goito a Cerlungo e va oltre fiancheggiando la destra sponda del Mincio. I campi avevano un aspetto melanconico. Non vi si vedevano che pochi gruppi di soldati sparsi qua e là, che spiegavano le loro tende fradice e ripulivano i panni e le armi; tutti gli altri stavan sotto le tende; ad ogni momento nuovi soldati sopraggiungevano, erravano incertamente pel campo in cerca della loro compagnia, e, come la più parte avevan perduto lo zaino ed i bastoni e la tela, stavan poi là in piedi accanto alle tende dei compagni, colle mani in mano, mortificati, imbronciti, a guardarsi attorno con quella cera di chi non sa che pesci si pigliare. In quei campi non si sentiva alcuna voce, alcuno strepito; vi regnava una quiete stanca e severa.
Raggiunto il campo del mio reggimento, andai a gettarmi subito sotto la tenda e sedetti, senza parlare, accanto ai miei compagni, che da più d’un’ora erano là. Non ci salutammo, non iscambiammo una parola, non ci guardammo neppure in viso; stemmo là muti e immobili come smemorati.
All’improvviso, sentiamo un grido acuto a pochi passi fuor della tenda; un altro grido più lontano; un terzo più presso: dieci, cento, mille voci prorompono come di concerto da tutte le parti del campo, e s’ode un rumor diffuso di passi concitati. Che è questo? Ci slanciamo fuor della tenda. Oh che magnifico spettacolo! Tutto il reggimento affollato correva di rapidissima corsa verso la strada di Goito; e non solamente il nostro, ma quel che avevamo a destra, e quello di sinistra, e gli altri più lontani, tutti volavano verso la strada colla furia d’un assalto. Guardai in faccia ai soldati; eran faccie mutate, convulse, radianti; e mandavano alte grida di gioia, e fragorosi e prolungati scoppi di battimani si elevavano al cielo da tutte le parti del campo. Volammo verso la strada; passarono due carabinieri a cavallo colle sciabole nude; apparì una carrozza...; tutte le teste si scoprirono, tutte le braccia si sollevarono, un solo e poderosissimo grido proruppe dalle mille bocche della moltitudine accalcata; la carrozza passò; i soldati se ne tornarono.... Ma il campo mutò aspetto improvvisamente; si riaccese in tutti la speranza e la fede; nessuno rientrò nelle tende; in ogni angolo del campo si levò e durò fino a sera uno strepito pieno di gaiezza e di vita; le bande risonarono le note marcie, vecchie e care compagne dei nostri entusiasmi, e il nostro cuore risentì per un momento i divini palpiti di due giorni prima. — Oh si combatterà ancora! noi dicevamo; si combatterà ancora!
— Chi c’era in quella carrozza? — domandò Carluccio con viva curiosità.
— Il Re. —
VIII.
— Signori miei, — ci disse il medico la prima volta che Carluccio si levò, — sono in dovere di dirvi che questo ragazzo ha assolutamente bisogno di tornarsene a casa. È guarito; ma il menomo strapazzo gli può riuscire fatale. Forse tra pochi giorni, fatta la pace, volteremo le spalle a Venezia, ce n’andremo a Ferrara, e da Ferrara Dio sa dove; ci metteremo in corpo la piccola bagattella di quindici o venti giorni di marcia, o anco di più, ed è impossibile che questo ragazzo ci segua; egli ha bisogno di quiete, di riposo, e non di marciar sette ore al giorno e di dormire sull’erba. Questa non è vita per un fanciullo convalescente; ne converrete anche voi. —
E ci lasciò. Restammo qualche tempo soprapensiero. Ma alle parole del medico, per quanto si scavizzolasse a cercarle, non c’era ragioni da opporre. Ch’egli ritornasse a casa era una necessità evidente, imperiosa; ma come farlo tornare? Ma a qual casa ei tornerebbe, povero infelice? Alla sua, per morirvi di crepacuore? No, certo; e dove dunque? Si pensò, si consultò, si discusse, e non si riusciva a concludere nulla, e si era già quasi in procinto di non far caso dei consigli del medico, quando un ufficiale padovano, un giovanotto di tanto cuore che a darne un po’ per uno a tutto il reggimento gliene sarebbe avanzato, uscì fuori a dire:
— Me ne incarico io, solo ch’io sappia il suo cognome e dove sta di casa. Lo metterò sotto la protezione della mia famiglia; scriverò a casa oggi stesso. Protetto dai miei potrà tornare colla matrigna, e se ci sarà bisogno ce lo piglieremo in casa e ce lo terremo fin che occorra; ve ne do parola; va bene? —
La proposta fu accolta con un generale «benissimo» e un gran batter di mani sulle spalle al proponente che gli fece sollevare dalla tunica tutta la polvere presa alla manovra.
— Ora viene il difficile però! — egli soggiunse liberandosi da noi con un paio di pizzicotti ben’azzeccati.
— Che cosa? si domandò.
— Persuaderlo. —
Risolvetti d’incaricarmene io, e ci separammo.
La sera di quello stesso giorno, prima del calar del sole, mentre stavamo in dieci o dodici a chiacchierar di bubbole accanto alla baracca del vivandiere, quello stesso ufficiale padovano di cui dissi poco fa, levò la voce sopra il cicalìo della brigata, ed esclamò:
— È stato concluso un nuovo armistizio; possiamo allontanarci dal campo; chi viene a veder Venezia?
— Io — risposero tutti ad una voce.
— Andiamo subito?
— Andiamo subito. —
E tutti si mossero.
— Carluccio, vieni con noi, andiamo a veder Venezia. —
Dal nostro campo, situato in vicinanza di Mestre, Venezia non si vedeva; ma in assai meno d’un’ora potevamo condurci in un punto di dove ell’era visibilissima; quel punto, voglio dire, in cui dalla grande strada che corre fra Padova e Mestre si dirama, dalla parte di Venezia, una piccola via, la quale sopra un argine assai rilevato giunge sino a Fusina, sulla spiaggia della laguna. In quel luogo v’è un gruppo di case di campagna e una locanda nota e cara per due dei più graziosi visini ch’io m’abbia mai veduto dacchè porto questi occhi. Pigliamo la via di Padova e ci dirigemmo a quelle case. Appena oltrepassata la locanda, che delle case era l’ultima, ci si doveva presentare allo sguardo, tutta ad un tratto, Venezia. La più parte di noi non l’aveva mai veduta; e però, come fummo giunti presso al casale, ci cominciò a battere il cuore molto forte. La vedremo finalmente, si pensava, la vedremo codesta benedetta città; ancora cinquanta passi; ancora quaranta; ancora.... oh come mi tremano le gambe! Ancora venti passi, dieci.... Qualcuno si soffermò e si guardò intorno sorridendo come per dire: — Oh vedete un po’ come sono ancora ragazzo! Ancora cinque passi.... Eccola! — Un fremito mi corse da capo a piedi, e il sangue mi si rimescolò precipitoso. Restammo tutti immobili e senza parola.
Dinanzi a noi si stendeva un vasto spazio di terreno incolto e nudo, sparso qua e là di guazzi e di larghi pantani, dopo il quale si vedeva in lontananza luccicare un tratto di lacuna e al di là di questo, Venezia. Essa ci appariva, come a traverso di una nebbia rada, in un lieve colore azzurrino, che le dava un non so che di delicato e di misterioso. A sinistra, quel suo ponte immenso, stupendo; a destra, lontano lontano, il forte di San Giorgio, e più in là molti altri forti sparsi per le lagune, che apparivano appena come punti neri. Era uno spettacolo maraviglioso. Il luogo intorno intorno era deserto, e tirava una brezzolina che faceva stormir forte gli alberi vicini; unico rumore che si sentisse.
Nessuno parlava, tutti contemplavano attonitamente Venezia.
— Orsù! — gridò all’improvviso uno de’ miei compagni, un bell’umore, amico un po’ troppo tenero, se si vuole, delle bottiglie e del baccano; ma buon ragazzo quanto altri mai. — Orsù, non istiamo qui a fare i sentimentali. Chi lo beve un dito di vino? —
Qualcuno gridò di sì, altri assentirono coi cenni, Carluccio corse alla locanda, e noi ci sedemmo lungo il ciglio dell’argine vôlti dalla parte di Venezia.
— Ecco l’amico dei galantuomini! — esclamò quel mio amico accennando il vino che giungeva. — Mano alle bottiglie, su i bicchieri! — Si sa, noi militari, in campagna, non si sta lì alla goccia; si tracanna a occhi chiusi, e però non è a maravigliarsi se dopo qualche minuto vi fu qualcuno che si sentì in vena di cantare.
— Di’, tu, padovano, insegnaci una bella barcarola, tu che ne sai tante e ce le urli nell’orecchio dalla mattina alla sera, volerti o non volerti sentire. —
E tutti gli altri: — Sì, insegnaci una bella barcarola. —
— Rivolgetevi a lui, — rispose il padovano appuntando il dito verso un suo vicino, che pizzicava di poeta e di tenore. — Fategli improvvisare una romanza a lui, che è del mestiere.
— Bravo! Sicuro! — esclamarono tutti gli altri in coro. — Animo, signor poeta, fuori la romanza, fuori la musica, fuori la voce, e presto, e senza farsi tanto pregare, com’è uso di voi altri accozzatori di strofe. —
Credo che il mio amico, a cui erano rivolte queste parole, avesse già una poesia bella e fatta nella testa, perchè accettò l’invito troppo prontamente e con un troppo aperto sorriso di compiacenza. Ad ogni modo però, egli non tirò fuori che dei versi dozzinali; versi da campo, che vuol dire roba da strapazzo.
— Ci vorrebbe una chitarra....
— O dove s’ha da pigliarla qui una chitarra? Mi fai ridere.
— Aspetta, aspetta, — gridò un terzo e si diresse di corsa verso la locanda. Indi a poco, tornò con una chitarra in mano: — Voleva ben dire io che non s’avesse a trovare una chitarra qui a poche miglia dalla città delle gondole e degli amori notturni. To’! —
Il poeta (scusate) prese la chitarra, si pose in atto di sonare: tutti gli si strinsero attorno, tacquero, e stettero aspettando.
— Sentite. Prima vi recito i versi, strofa e ritornello; poi la strofa la canto io e il ritornello lo cantate voialtri; va bene?
— Benissimo. Animo, cominciamo. —
Ed egli incominciò:
Pur ti saluto anch’io, |
— Ma che! ma che! — interruppe schiamazzando quello stesso originale che avea fatto la proposta di bere; — cos’è cotesta roba? Non vogliamo delle malinconie noi, vogliamo star allegri; ci vuole una barcarola, ci vuole; ma che «immortale» ma che «disìo» ma che «fremito», ma che mi vai fantasticando, caro il mio poeta? Ti paion musi questi da fare i sentimentali? —
Tutti quelli che aveano alzato il gomito più del dovere approvarono clamorosamente.
— Bel gusto, — io risposi, — fare i buffoni! Oh ne abbiamo proprio di che, con questa probabilità che c’è in aria di dover rimetter la sciabola nel fodero, e ripigliar gloriosamente la via di Ferrara e tornarsene chi sa dove a menar la vita papaverica della guarnigione! Oh abbiamo proprio di che fare i buffoni! —
I «sentimentali» si dichiararono dalla mia, i bevitori insistettero, il poeta tenne duro, e la brigata si divise in due. Una metà si scostò da noi di alcuni passi, e aci sigari, seguitò a trincare col miglior gusto del mondo; l’altra metà ripigliò il canto interrotto.
— Vi canteremo un ritornello anche noi, signori poeti piagnoloni! — gridò uno dei baccanti alzando il bicchiere: tutti gli altri risero.
— Cantate pure! — si rispose dalla nostra parte.
E il poeta (scusate) ripigliò:
Che divino m’assale
Entusiasmo d’amor!
E il coro:
Sì, Venezia immortale,
T’abbiam tutti nel cor.
E i baccanti:
Che poeta bestiale!
Che cane di tenor!
E lì una gran risata. — La vocina di Carluccio si sentiva distintamente in mezzo a tutte l’altre, sottile, tremola, armoniosa.
Da capo:
Ma pur mentr’io ti miro
E canto e ti sorrido,
Perchè un lieve sospiro
Come di mesto amor,
E non di gioia un grido
Prorompe dal mio cor?
Il coro:
Ti guardo, ti sorrido,
Ma non ho lieto il cor.
E i baccanti:
Invece io me la rido,
È il partito miglior.
E qui un gran frastuono di bicchieri e un altro rumoroso scoppio di risa; il sole era scomparso, e la brezza alitava fresca più che mai.
Ahi! da questa contrada
Che in noi si affida e spera
Ahi! non la nostra spada,
Non l’italo valor,
Ma una virtù straniera
Caccierà l’oppressor!
E il coro:
Quanto è mesta la sera
Con tal presagio in cor!
E i baccanti:
Che squisito barbèra!
Che spuma! Che color!
Questi due ultimi versi furon cantati con meno vivezza degli altri. Che la solitudine del luogo, e il morire del giorno, e la vista di Venezia che si andava popolando di lumi cominciasse a mettere un po’ di malinconia anche nel cuore dei baccanti?
O madre, sul tuo seno
Vorrei chinar la testa,
E sciorre al pianto il freno,
E infonder nel tuo cor
Questa dolcezza mesta
Che mi sembra dolor.
E il coro:
Vorrei chinar la testa
Di mia madre sul cor.
E due voci dell’altro gruppo:
Non mi romper la testa,
Fammi questo favor.
Gli altri non risero più. Fu ripetuta altre due volte l’ultima strofa. I baccanti non fecero più parola e si voltarono tutti verso Venezia. Cantammo una quarta volta l’ultima strofa; ma Carluccio non la cantò più; ne aveva compreso il significato, povero ragazzo, e gli si era stretto il cuore; l’ora, il luogo e quella stessa musica lenta e mesta della canzone gli avean destato nell’anima una subita e viva tenerezza.
— Cos’hai Carluccio che tieni la faccia nascosta nelle mani? — io gli sussurrai nell’orecchio.
— Nulla.
— Senti.... E se noi ti dessimo un’altra mamma che ti volesse bene davvero?
Mi guardò cogli occhi spalancati. Io gli parlai lungamente a bassa voce; egli stette ad ascoltarmi senza batter palpebra. — Ebbene? — gli domandai quand’ebbi finito. Non mi rispose; andava strappando i fili d’erba che aveva intorno. — Ebbene? —
Si alzò di scatto, salì di corsa sull’argine e s’andò a nascondere al di là; dopo un momento si sentì uno scoppio di pianto così disperato che mi fece tremare il cuore.
— Cosa c’è? — domandarono gli altri.
— C’è quello che si poteva prevedere. — Tutti tacquero e si udirono distintamente i singhiozzi di Carluccio.
— Bisogna lasciar che si sfoghi, — disse uno; — ne ha bisogno, povero fanciullo, e gli farà bene.
Ripigliarono la canzone:
O madre, sul tuo seno
Vorrei chinar la testa
E sciorre al pianto il freno,
E infonder nel tuo cor
Questa dolcezza mesta
Che mi sembra dolor.
Fra verso e verso si sentiva il singhiozzare stanco e lamentoso di quel poveretto.
Lo spettacolo di Venezia, in quel punto, era incantevole.
— Zitti! — disse improvvisamente un di noi. — Tutti ammutolirono e tesero l’orecchio: il vento ci portava or sì or no un suono fioco di trombe.
— È la fanfara dei croati di Malghera! — esclamò il padovano.
Non dimenticherò mai lo strano senso di malinconia che provai in quel momento.
È inutile ch’io ripeta i pianti, le disperazioni e le preghiere di Carluccio; basti il dire che più d’una volta la pietà ch’ei ci fece fu tanta da metterci in procinto di mandar tutto a monte. Ma si trattava della sua salute e tenemmo fermo. L’idea però d’una buona famiglia che lo avrebbe protetto, e messo alla scuola e mandato ogni giorno alla passeggiata coi fratelli piccini dell’ufficiale, e che, a un bisogno, se lo sarebbe preso in casa come un figliuolo, e lo considerava già fin d’allora come tale; questa idea, e più l’avergli letto una lettera affettuosissima della madre del suo ospite in cui erano fette mille promesse e mille assicurazioni che Carluccio sarebbe stato il più caro oggetto dei suoi affetti e delle sue cure; tutto ciò mitigò d’assai il suo dolore e fece sì che, dopo aver tentato e ritentato più volte di smuoverci dalla nostra risoluzione, egli si rassegnasse alla dura necessità, sospirando: — Ebbene.... allora.... tornerò a casa! —
Dopo qualche giorno levammo il campo a ci mettemmo in cammino alla volta di Padova. Vi arrivammo un bel mattino allo spuntar del sole. Si entrò per il Portello e si passò per quasi tutte quelle medesime strade che avevamo percorse la prima volta. Giunti ad un certo punto, vedemmo tutto ad un tratto staccarsi dalle file l’ufficiale padovano e con esso Carluccio che si teneva con tutte e due le mani il fazzoletto sugli occhi, e dirigersi tutt’e due rapidamente verso il portone d’una casa signorile. Giunto al limitare, Carluccio si arrestò un istante, voltò verso di noi la faccia convulsa e lagrimosa e, alzando le braccia, singhiozzò una parola che nessuno capì; i soldati gli rimandarono il saluto coll’atto della mano; egli scomparve.
Dopo quel giorno non lo vedemmo più. Abbiamo però saputo quindici giorni dopo, che appena lasciato il reggimento egli era stato condotto in casa di quel mio amico, e quivi ricevuto da tutta la famiglia colle più vive dimostrazioni di sollecitudine e d’amore; come la matrigna, che già da qualche giorno l’aspettava, s’era recata piangendo a visitarlo in quella casa, e se l’era ricondotto con sè, e gli usava ogni maniera di riguardi e di garbatezze; non certo per sua bontà, chè non n’era capace; ma perchè, sapendolo amato e protetto da una famiglia agiata, ne sperava e ne aspettava qualche soccorso di danaro per sè, oltre i frequenti regali che riceveva il figliuolo. Il qual soccorso, tra parentesi, non si fece attendere molto, e fu largo e si andò ripetendo di mese in mese con sua grande sorpresa e non meno grande soddisfazione. In seguito ci fu scritto che Carluccio stava bene; ma ch’era sempre un po’ malinconico; specialmente quando vedeva andare alla piazza d’armi i reggimenti della guarnigione e sentiva sonar le bande e i tamburi. Allora diventava pensoso e sospirava, e qualche volta si andava a rincantucciare in un angolo della stanza, e piangeva in segreto.
IX.
Cinque mesi erano trascorsi dall’ultima volta che l’avevamo veduto. Il mio reggimento era di presidio in una piccola città della Lombardia. Una mattina, uscendo di casa, incontro il mio amico di Padova, che mi si accosta, e con un viso stranamente turbato mi porge una lettera, dicendomi: — Leggi. — E senz’altre parole mi lascia e si allontana. Spiego il foglio, guardo; erano due lettere: l’una scritta da Carluccio, di cui riconobbi, a prima vista, i grossi caratteri; l’altra sottoscritta: — la tua affezionatissima sorella. — Era la sorella del mio amico. La lettera del ragazzo aveva la data di dieci giorni addietro; quella della sorella era del giorno innanzi. Lessi questa per la prima.
Due ore dopo ero in quartiere.
La mia compagnia era divisa in sette o otto gruppi, sparsi pei cameroni, e seduti dinanzi a certi cartelloni dov’erano stampate a caratteri di scatola le lettere dell’alfabeto. Un caporale per ogni gruppo insegnava a leggere indicando le lettere con una bacchetta di fucile. Mi avvicinai, non visto, ad uno di quei gruppi. Due soldati, seduti sull’ultima panca e mezzo nascosti all’occhio del caporale da coloro che avevano davanti, stavan col capo chinato e l’occhio intento sur un foglio di carta, dove l’un di essi andava disegnando non so che cosa con un mozzicone di matita. Quando mi videro, non furono più in tempo a nascondere il foglio, e levatisi in piedi subitamente, me lo porsero e stettero ad aspettare cogli occhi bassi una lavata di capo. Su quella carta v’era un abbozzo informe di una testa, che però, da una tal quale rotondità di contorni e da una certa boccuccia piccina piccina, poteva interpretarsi per la testa d’un fanciullo.
— Chi avete voluto fare con questo sgorbio? — domandai.
All’udir la mia voce, tutti gli altri s’alzarono in piedi.
— Chi avete voluto fare? — domandai un’altra volta.
— Carluccio.
— Carluccio è morto.
— Oh! — esclamarono tutti ad una voce guardandosi l’un l’altro.
— Già, proprio morto, povero ragazzo, a causa di quelle maledette febbri. Ecco, questa è una sua lettera ch’egli scrisse qualche giorno fa, ed è diretta a tutti i soldati della compagnia. Prendete, caporale, e leggetela. —
E mi trassi in disparte. Tutti si strinsero tacitamente attorno al caporale e questi cominciò a leggere. Non ne aveva letto ancora due righe che passò la lettera ad un altro, e cavò di tasca il fazzoletto; la più parte degli altri soldati fecero lo stesso.
— Buoni ragazzi! — io pensavo intanto guardandoli da un angolo del camerone. — Carluccio non c’è più, Carluccio è morto; avete tutti perduto un amico che amavate e che vi amava; è vero, poveri ragazzi, pur troppo; anch’io ne soffro nel più vivo del cuore; ma.... Ebbene, e io amerò lui in voi; tutta quella parte di affetto ch’io portava a Carluccio, d’ora innanzi l’avrete tutta voi altri...; vi amerò più di prima. E tu, o povero Carluccio, assicurati che la tua memoria non si perderà mai più fra di noi; io ti giuro in nome di tutti i soldati che amasti e che t’amarono, ti giuro che il tuo nome rimarrà legato alla bandiera del nostro reggimento come una tradizione preziosa, la quale ci terrà sempre vivo nell’anima il culto degli affetti gentili e una mesta pietà degli infelici.
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— E la morale? — io domandai al mio amico appena ebbe detta l’ultima parola.
— La morale, — mi rispose, — è questa. Vi ha un segreto per cui la vita del soldato, anche quando è più dura e penosa, possiamo farcela parer bella e contenta; è il segreto che ci dà il vigore nelle fatiche, la costanza nei sacrifizi, l’ardimento nei pericoli, e una forte e serena tranquillità in faccia alla morte; e questo segreto è tutto compreso in una parola.... Amare!
Io gli strinsi la mano.
— Se mai ti piglierà vaghezza di scrivere questo racconto, — egli soggiunse — e se, avendolo scritto, te ne verrà alcuna lode, ti prego di non farne un merito a me; io non ti avrei raccontato nulla, o t’avrei fatto un racconto freddo e sbiadito, se l’amicizia che strinsi poco tempo fa con un bel ragazzino, affettuoso e gentile come Carluccio, non mi avesse ravvivate nella memoria tutte le particolarità di quel fatto, e ridestata nel cuore quella fiamma di affetto che era necessaria perch’io te le narrassi con un po’ di vivezza. Il merito del lavoro, se merito avrà, sarà in parte tuo e in parte di quel caro ragazzo. Egli ha nome Ridolfo. Te lo dico pel caso che tu volessi dedicargli, in mio nome, il tuo racconto, e aggiungere in fondo all’ultima pagina queste mie parole, acciocchè, dov’egli le legga, si ricordi di me. —
Dunque io dedico il racconto a te, caro Ridolfo; è poca cosa; ma tu che sei tanto buono, baderai soltanto a quel che v’è di meglio: il cuore.
Vogli un po’ di bene a me pure, caro bambino. Addio.