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116 il figlio del reggimento.


— Sentano, — ripigliò l’ufficiale con voce vibrata; — v’è un dolore appetto al quale la morte dei nostri più cari, la perdita delle nostre più belle speranze e i più inattesi e più fieri disinganni della vita non sono che una mestizia sfuggevole, un turbamento leggero, un nonnulla; e questo dolore è quello che ci strinse l’anima quella sera.... Il mattino felici, ebbri di gioia, ardenti di un entusiasmo che ci cavava le lagrime e ci faceva prorompere in grida da forsennati, impazienti della battaglia, certi, si può dire, della vittoria; e poche ore dopo.... ecco quell’esercito tanto fresco di gioventù, tanto pieno di vita, tanto forte di ardimento e di fede, quell’esercito idolatrato dalla patria, frutto di tanti sacrifici, oggetto di tante cure, argomento di tante trepidazioni e di tante speranze; eccolo, poche ore dopo, vinto, disordinato e sparpagliato per la campagna, rifar mestamente le vie percorse il mattino quasi in sembianza di vincitore.... Ah! gli è uno spettacolo che strazia l’anima, che atterra, che schiaccia; è un dolore che nessuna parola umana basta a significare. — Chi ci renderà, — domandavamo desolatamente a noi stessi, — chi ci renderà il nostro cuore di stamane, il nostro orgoglio, la nostra fede, la nostra forza? Chi ci richiamerà negli occhi quelle lagrime d’entusiasmo? Chi rialzerà l’edifizio su queste dolorose rovine? E che dirà il paese?... Oh, il paese! — Il pensiero ne rifuggiva atterrito; ci pareva di risentire le grida e gli applausi con cui le popolazioni delle città ci avevano accompagnati alle porte, e quegli applausi e quelle grida ci scendevano nel cuore e gli davan delle strette terribilmente dolorose. — Oh tacete! — dicevamo dentro di noi — tacete, siamo soldati, e il nostro povero cuore si spezza! —

Seguì un minuto di silenzio. Il consigliere esclamò mestamente: