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126 il figlio del reggimento.

gliamo la via di Padova e ci dirigemmo a quelle case. Appena oltrepassata la locanda, che delle case era l’ultima, ci si doveva presentare allo sguardo, tutta ad un tratto, Venezia. La più parte di noi non l’aveva mai veduta; e però, come fummo giunti presso al casale, ci cominciò a battere il cuore molto forte. La vedremo finalmente, si pensava, la vedremo codesta benedetta città; ancora cinquanta passi; ancora quaranta; ancora.... oh come mi tremano le gambe! Ancora venti passi, dieci.... Qualcuno si soffermò e si guardò intorno sorridendo come per dire: — Oh vedete un po’ come sono ancora ragazzo! Ancora cinque passi.... Eccola! — Un fremito mi corse da capo a piedi, e il sangue mi si rimescolò precipitoso. Restammo tutti immobili e senza parola.

Dinanzi a noi si stendeva un vasto spazio di terreno incolto e nudo, sparso qua e là di guazzi e di larghi pantani, dopo il quale si vedeva in lontananza luccicare un tratto di lacuna e al di là di questo, Venezia. Essa ci appariva, come a traverso di una nebbia rada, in un lieve colore azzurrino, che le dava un non so che di delicato e di misterioso. A sinistra, quel suo ponte immenso, stupendo; a destra, lontano lontano, il forte di San Giorgio, e più in là molti altri forti sparsi per le lagune, che apparivano appena come punti neri. Era uno spettacolo maraviglioso. Il luogo intorno intorno era deserto, e tirava una brezzolina che faceva stormir forte gli alberi vicini; unico rumore che si sentisse.

Nessuno parlava, tutti contemplavano attonitamente Venezia.

— Orsù! — gridò all’improvviso uno de’ miei compagni, un bell’umore, amico un po’ troppo tenero, se si vuole, delle bottiglie e del baccano; ma buon ragazzo quanto altri mai. — Orsù, non istiamo qui a fare i sentimentali. Chi lo beve un dito di vino? —