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il figlio del reggimento. 131

l’ultima strofa. I baccanti non fecero più parola e si voltarono tutti verso Venezia. Cantammo una quarta volta l’ultima strofa; ma Carluccio non la cantò più; ne aveva compreso il significato, povero ragazzo, e gli si era stretto il cuore; l’ora, il luogo e quella stessa musica lenta e mesta della canzone gli avean destato nell’anima una subita e viva tenerezza.

— Cos’hai Carluccio che tieni la faccia nascosta nelle mani? — io gli sussurrai nell’orecchio.

— Nulla.

— Senti.... E se noi ti dessimo un’altra mamma che ti volesse bene davvero?

Mi guardò cogli occhi spalancati. Io gli parlai lungamente a bassa voce; egli stette ad ascoltarmi senza batter palpebra. — Ebbene? — gli domandai quand’ebbi finito. Non mi rispose; andava strappando i fili d’erba che aveva intorno. — Ebbene? —

Si alzò di scatto, salì di corsa sull’argine e s’andò a nascondere al di là; dopo un momento si sentì uno scoppio di pianto così disperato che mi fece tremare il cuore.

— Cosa c’è? — domandarono gli altri.

— C’è quello che si poteva prevedere. — Tutti tacquero e si udirono distintamente i singhiozzi di Carluccio.

— Bisogna lasciar che si sfoghi, — disse uno; — ne ha bisogno, povero fanciullo, e gli farà bene.

Ripigliarono la canzone:

O madre, sul tuo seno
Vorrei chinar la testa
E sciorre al pianto il freno,
E infonder nel tuo cor
Questa dolcezza mesta
Che mi sembra dolor.