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il figlio del reggimento. 105

questo poi non me lo volli proprio addossare. — Ci pensino gli altri — dissi tra me; — io la mia parte l’ho fatta. — E cercai e pregai uno per uno i miei amici perchè facessero quel che restava da farsi. — Che c’entro io? — mi fu risposto da ognuno di loro. — Ed io? — domandavo alla mia volta. — Ebbene, non c’entriamo nessun dei due. — E il dialogo si troncava così. Tornai alla tenda indispettito.

— Carluccio!

— Che cosa vuole, signor ufficiale?

Bisogna che tu venga con me fino al villaggio, a pochi passi di qua. —

Un subito sospetto gli attraversò la mente; si fece serio serio, e mi guardò fiso negli occhi. Io non aveva saputo dissimulare il mio disegno nè col suono della voce nè coll’espressione del viso; mi voltai da un’altra parte, e finsi di cercar qualcosa nella mia borsa da viaggio.

— Mi vogliono mandare a casa! — egli gridò tutt’ad un tratto; ruppe in un pianto disperato, si gettò in ginocchio ai miei piedi, e ora giungendo le mani, ora afferrandomi per la tunica, cominciò a dire con impeto vivissimo di passione: — No, no, signor ufficiale, non mi mandino a casa, per pietà, per pietà; io non posso tornare a casa, io piuttosto vorrei morire; mi tengano qui, mi diano da fare tutto quello che vogliono chè io farò tutto, e al mangiare ci penserò io.... Per pietà, signor ufficiale, non mi facciano tornare a casa....

Io mi sentiva straziare il cuore; mi contenni un istante e poi proruppi anch’io: — No, no, datti pace, Carluccio, non piangere, non aver paura, non ti rimanderemo a casa, no; resterai con noi, sempre con noi, ti vorremo sempre bene...; te lo prometto, stanne sicuro, non piangere, povero ragazzo; non pianger più....

A poco a poco si quietò.