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il figlio del reggimento. 127


Qualcuno gridò di sì, altri assentirono coi cenni, Carluccio corse alla locanda, e noi ci sedemmo lungo il ciglio dell’argine vôlti dalla parte di Venezia.

— Ecco l’amico dei galantuomini! — esclamò quel mio amico accennando il vino che giungeva. — Mano alle bottiglie, su i bicchieri! — Si sa, noi militari, in campagna, non si sta lì alla goccia; si tracanna a occhi chiusi, e però non è a maravigliarsi se dopo qualche minuto vi fu qualcuno che si sentì in vena di cantare.

— Di’, tu, padovano, insegnaci una bella barcarola, tu che ne sai tante e ce le urli nell’orecchio dalla mattina alla sera, volerti o non volerti sentire. —

E tutti gli altri: — Sì, insegnaci una bella barcarola. —

— Rivolgetevi a lui, — rispose il padovano appuntando il dito verso un suo vicino, che pizzicava di poeta e di tenore. — Fategli improvvisare una romanza a lui, che è del mestiere.

— Bravo! Sicuro! — esclamarono tutti gli altri in coro. — Animo, signor poeta, fuori la romanza, fuori la musica, fuori la voce, e presto, e senza farsi tanto pregare, com’è uso di voi altri accozzatori di strofe. —

Credo che il mio amico, a cui erano rivolte queste parole, avesse già una poesia bella e fatta nella testa, perchè accettò l’invito troppo prontamente e con un troppo aperto sorriso di compiacenza. Ad ogni modo però, egli non tirò fuori che dei versi dozzinali; versi da campo, che vuol dire roba da strapazzo.

— Ci vorrebbe una chitarra....

— O dove s’ha da pigliarla qui una chitarra? Mi fai ridere.

— Aspetta, aspetta, — gridò un terzo e si diresse di corsa verso la locanda. Indi a poco, tornò con una chitarra in mano: — Voleva ben dire io che non s’avesse