L'incendio nell'oliveto/Capitolo V
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V.
Si era verso Pasqua e la domanda dì Stefano non arrivava ancora. Neppure zio Predu, dopo una breve visita cerimoniosa di ringraziamento per le gentilezze ricevute, non s’era più fatto vedere, forse per non destare una vana emozione con la sua presenza; ma ogni volta che incontrava Agostino gli diceva:
— Oh, preparami un bicchiere di vino buono perchè devo venire a visitare nonna tua.
E tutti aspettavano questa visita; ma il tempo passava, e c’erano dei giorni nei quali un’aria di tristezza gravava sull’intera famiglia, come se non si dovesse sperare più in nulla; giorni grigi, quando Nina, taciturna e di cattivo umore, sembrava d’un tratto invecchiata e trascurava le faccende domestiche come una serva stanca, e la nonna pensava che Stefano esitasse a fare la domanda perchè forse informato da qualche maligno della relazione di Annarosa col figlio del fabbro, e si faceva anche lei triste, più severa del solito; e Annarosa sentiva tutto il peso di questa tristezza, di questa diffidenza, e aspettava la domanda di matrimonio come il carcerato colpevole e confesso aspetta la sua condanna: almeno tutto sarà finito e ci si rassegnerà. Ma come anche in fondo al cuore del colpevole c’è la speranza del miracolo dell’assoluzione, così in fondo ella sperava in qualche cosa di straordinario che impedisse a Stefano di fare la domanda.
Nulla però accadeva; i giorni passavano eguali; anche Gioele non dava segno di vita. Annarosa non cessava di pensare a lui, e si sentiva sempre fitte nel cuore le parole dell’ultima lettera; a volte si sorprendeva ad aspettarlo dietro i vetri, o correva ad aprire la porta, se qualcuno picchiava, con la speranza e la paura che fosse lui; ma anche con la paura e la speranza che fosse zio Predu.
Un giorno che il fabbro venne per accomodare un ferro del portone, ella gli si avvicinò, con la speranza angosciosa ch’egli parlasse di Gioele. L’uomo però lavorava in silenzio, senza badare a lei: era scarmigliato, nero e sporco come un vero zingaro, con la camicia aperta sul petto villoso. Mentre batteva il ferro e apriva e chiudeva il portone guardandolo attentamente da una parte e dall’altra, alcuni ragazzi della strada si offersero a tenergli la borsa di pelle con gli strumenti; egli lasciava fare, senza inquietarsi, con un chiodo in bocca.
— Questo è dunque quel diavolo chiamato grimaldello, — disse un ragazzo, traendo dalla borsa un ferro sottile con la punta a uncino. — Amici vecchi siete, con questo, zio Michele, oh! Raccontateci di quando andavate ad aprire per ridere le porte delle chiese, e la gente diceva che erano gli spiriti, oh!
Egli sorrise, stringendo il chiodo fra i denti; ma un altro ragazzo osservò:
— Per ridere! Per ridere! Forse era sul serio che le apriva!
Allora egli sputò il chiodo; e Annarosa fuggì per non sentirlo a giustificarsi e a raccontare le sue avventure.
Finito il lavoro, il fabbro entrò per ricevere la mercede: la nonna lo invitò a sedere, perchè faceva così con tutti, anche per curiosità di sentire le notizie del vicinato, e gli scalò qualche cosa sul prezzo del lavoro eseguito.
Egli protestava, contando le monete con le sue dita nere.
— Lei sta bene, qui seduta nella sua scranna come una regina, ma lo so io quanto costa adesso il ferro, con la guerra!
— Sei diventato avaro, Michele Sanna! Vuoi arricchire?
— E le imposte che pago? E quell’altra imposta di mio figlio? Io, almeno, non avrò fatto molto onore ai miei genitori, ma spese non ne davo. Vossignoria mi darà un altro franco.
— Come sta il tuo ragazzo? — domandò la nonna. — Ti darà spese, sì, ma ti farà onore.
— Chi ne sa niente? — egli disse contrariato; — l’onore servirà per lui, le spese le ho io, e so io come tutto costa, adesso, con la guerra. Dunque quest’altro franco non me lo dà? Lo metteremo in conto per un’altra volta. Sì, — disse poi, buttandosi le monete dentro l’apertura della camicia, — Gioele verrà per Pasqua.
Annarosa, in piedi presso la tavola, ebbe l’impressione ch’egli si volgesse a guardarla: arrossì e fuggì via anche di lì, spinta da un senso di gioia e di umiliazione.
— È inutile che torni; è inutile, — diceva ad alta voce, correndo giù per l’orto come per sfuggire Gioele; poi rientrò per dire alla nonna che versasse dunque al fabbro il prezzo che egli pretendeva; ma il fabbro era già andato via.
★
La sera del giovedì santo venne finalmente, inaspettato, zio Predu Mura. Camminava forte sul suo bastone, e andò dritto verso la nonna, alla quale Mikedda con fretta silenziosa accomodava i piedi sulla pietra del focolare.
— E dove sono gli uomini? — domandò guardandosi attorno. Poi sedette e sputò sul fuoco senza tanti complimenti, come faceva a casa sua, cosa che nelle visite precedenti non s’era mai permesso.
Infine disse:
— Ebbene’, ce la date questa signorina?
Annarosa stava seduta sotto la finestra e guardava il gattino che le scherzava intorno. Aveva un’aria distratta, ma il cuore le batteva forte. Le parole di zio Predu le parvero la sua sentenza di condanna.
Eppure pensò che bastava una parola sola per liberarsi; ed ebbe desiderio di dirla, questa parola. Sentì un gran caldo alla testa e come un’onda di nebbia avvolgerla. Poi rivide tutto chiaro nella stanza illuminata dalla lampada; la tavola lucida con un riflesso d’oro, la figura tozza di zio Predu, seduto sulla sua ombra, sullo sfondo rosso del camino, la matrigna pallida e composta come una statua: sentì l’odore di selvatico che il vecchio, sebbene pulito e vestito con un costume nuovissimo da vedovo, spandeva intorno: e pensò quello che sarebbe accaduto se rispondeva di no.
Zio Predu forse, sebbene offeso, fingerebbe di prender la cosa in ridere. La nonna crollerebbe come un muro vecchio all’urto del piccone.
— Annarosa, vieni qui.
Era la voce della nonna che la richiamava completamente dal suo cattivo sogno. Si alzò e si avanzò rigida, obbediente, mentre zio Predu volgeva il viso a guardarla: un viso grande, barbuto, con gli occhi nerissimi cerchiati e la grossa bocca carnosa, con un’espressione di maschera satirica che pure incuteva rispetto e quasi timore.
Nell’andare incontro a quello sguardo vivo che l’esaminava da capo a piedi e pareva la spogliasse, Annarosa ebbe l’impressione che zio Predu, pure assumendo un tono serio, si burlasse un po’ di lei.
Infatti le domandò:
— Ebbene, sei disposta ad alzarti presto, la mattina?
— Quando non ho sonno, sì! — ella rispose fissandolo negli occhi: ma subito lo vide aggrottare le sopracciglia e le sembrò di sentire la nonna palpitare di spavento. No, non erano momenti da scherzare, quelli! Abbassò gli occhi e le parve di avvolgersi in un velo, come la monaca che va a fare i voti.
— Annarosa s’è sempre alzata presto, la mattina, — assicurò la vecchia. — Ragazza solerte è.
Ma adesso fu zio Predu a scoraggiarla.
— Bada, Annarosa, che da fare ce n’è, in casa mia. Moglie mia, Paschedda, non riposava un momento, eppure diceva che alla notte, appena fatto il primo sonno, si svegliava pensando di aver dimenticato qualche cosa. Era una donna robusta, abituata all’antica. Tu sei sottile come uno stelo. Non metterti in mente di entrare in casa di signori. La roba, c’è, grazie al Signore, ma badarci bisogna, altrimenti non si campa. Stefene ama la vita semplice, oh, bada! La vita che abbiamo sempre fatto, da famiglia di gente all’antica. Non dico che tu debba fare il pane d’orzo e andare a cogliere le olive, ma, infine, alzarsi presto la mattina bisogna.
Ella rispose, quasi sottovoce, con una umiltà che nascondeva a stento un fondo di amarezza:
— E la vita nostra com’è? Tutti lavoriamo. Non c’è altro da fare.
Il viso del vecchio si illuminò, per un momento, mentr’egli diceva:
— Oh, bada, Stefene è un buon ragazzo: ti accorgerai chi è lui, quando lo conoscerai.
Poi subito riprese la sua aria di lieve derisione.
— Perchè stai così, a occhi bassi? Prendi dunque una sedia e mettiti qui a sedere.
La nonna disse con voce turbata:
— Annarosa, pensa di dar da bere a questo vecchio.
— Oh, vecchio! Vecchio! Protesto! È più vecchio il diavolo, di me!
Annarosa andò a prendere il vino, dall’armadio di cucina; lo versò piano, guardando il bicchiere, pensò che le sarebbe toccato vivere chi sa quanti anni con quell’odore di selvatico attorno, e ne provò un senso d’angoscia. Poi mise il vassoio sopra la cappa del camino e sedette fra la nonna e zio Predu. Ecco, era già prigioniera; zio Predu teneva il bicchiere fermo sopra il pomo del bastone e d’un tratto s’era messo a parlare con la nonna, ricordando un loro incontro, in una festa campestre, e un fatto strano quivi accaduto.
— Ti rammenti, Agostina Marini? C’era un cavallo malato di bolsaggine, condotto da uno straniero; d’un tratto un uomo si avvicina e dice: questo cavallo è mio, mi è stato rubato dalla tanca. Lo straniero gridava e protestava: fece vedere il bollettino come aveva comprato il cavallo, ma l’uomo diceva: io il tuo bollettino lo metto ad accender la pipa; il cavallo è mio. E prese la testa della bestia fra le mani, lo guardò negli occhi, disse: mi riconosci? Il cavallo nitrì; tutti noi si sentì un brivido. Ma lo straniero non si voleva arrendere. Ebbene, disse l’altro, facciamo una prova: io monto il cavallo e lo faccio correre nonostante la sua bolsaggine. Lo straniero acconsentì. L’altro montò il cavallo e il cavallo si mise subito a correre. In un attimo sparvero cavallo e cavaliere: il bello è che non tornarono indietro e lo straniero, imbambolato, continuò, se gli piacque, il viaggio a piedi. Ti ricordi, Agostina Marini?
— Ricordo bene, Predu Mura!
Zio Predu bevette e fece atto di sollevarsi per rimettere il bicchiere che Annarosa fu pronta a togliergli di mano. Egli parve gradire quest’attenzione; tornò a guardarla e rivolse il discorso a lei.
— Eppure il cavallo, comprendi, ragazza, apparteneva proprio allo straniero. Questo si è saputo dopo. Tu dirai: che uomo svelto, il ladro! E io ti rispondo: tutti i ladri sono svelti. Che cosa t’immagini, ragazza? Sono uomini di talento i ladri: e faticano, per il loro scopo. Ebbene, e poi c’è un’altra cosa: che scontano sempre: dacchè mondo è mondo il male si è sempre scontato, o in un modo o nell’altro. In quella festa, dunque, molti deridevano lo straniero e quasi quasi invidiavano il ladro. Ebbene, ti dico, ragazza, io amo piuttosto essere derubato e malmenato, che rubare e malfare io. Anche per la coscienza, oh, intendiamoci, non per il solo timore del castigo. Poi ti dico una cosa; che il ben fare vien sempre compensato. È un pregiudizio il credere che i malfattori e gli uomini di cattiva coscienza siano fortunati e i buoni no. Non è vero! Lo affermo! Avrei mille esempi da contare.
E infatti raccontò parecchi di questi esempi. La vecchia ascoltava con attenzione, approvando col capo; Annarosa aveva l’impressione ch’egli parlasse così per incoraggiarla nel suo sacrificio, e si annoiava; ma sentiva anche una vaga speranza in fondo all’anima, come una voce lontana che le promettesse davvero una misteriosa ricompensa.
Empì nuovamente il bicchiere e zio Predu lo accettò senza farsi pregare; questa volta però lo tenne in mano anche dopo vuotato, e si rivolse a Nina. Gli occhi gli brillarono.
— Dunque, ce la date questa signorina?
La donna, ch’era stata sempre silenziosa e ferma al suo posto, sorrise, un sorriso scintillante, ma non rispose.
Non toccava a lei rispondere.
E Annarosa tentò di prender la cosa allegramente.
— Prendetemi pure, — disse, poi impallidì e non parlò più.
La nonna allora tese la mano sana: zio Predu gliel’afferrò, la scosse un poco entro la sua, gliela rimise in grembo; ella sentì tante promesse in quel gesto, la sicurezza del patto stretto; e lagrime di gioia le riempirono gli occhi dopo tanto tempo che non piangeva più.
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Fu stabilito che Stefano farebbe la sua prima visita il giorno di Pasqua: il venerdì e il sabato le donne pulirono la casa da cima a fondo, compresa la camera di zio Juanniccu, dove Annarosa si trattenne con curiosità. Era una stanza sotto il tetto, una specie di soffitta, ma alta e ariosa: i mobili più disparati la ingombravano, perchè egli portava su, da quaranta anni a questa parte, tutte le sedie, gli sgabelli, gli armadi e i tavolini rotti o in disuso, e li appoggiava contro le pareti, senza del resto curarsene più. Fra gli altri c’era un antico mobile di ebano, intarsiato d’avorio, dal quale erano stati tolti dei pezzi per applicarli sul cassettone della nonna, mezzo secolo avanti. Annarosa si turbava ogni volta che rivedeva quell’avanzo di mobile di lusso; le pareva un fossile, residuo di una età di preistoria famigliare, e provava un senso d’orgoglio al pensiero che la sua famiglia era antica, e capiva in certo modo l’istinto di zio Juanniccu a circondarsi di quei rottami, — rottame in mezzo ad essi.
Il sabato furono fatti anche i dolci. Tutto procedeva in silenzio, e pareva che nulla d’insolito fosse accaduto. Lo stesso Gavino, in vacanze, pure aiutando le donne e rubacchiando il più che poteva dei dolci, cercava di non far chiasso: e aveva l’impressione che il matrimonio della sorella fosse un avvenimento misterioso, grande, ma da tenersi segreto il più possibile, come il matrimonio di un principe con una donna di diversa condizione. Andò anche a cercare nel vocabolario la parola morganatico. «Morganatico, add. aggiunto di matrimonio, ed è quello in cui sposando un uomo qualificato una donna di grado inferiore, le dà la mano sinistra in luogo della destra, e stipula nel contratto che la moglie continuerà a vivere nel grado suo, per forma che i figliuoli, quanto alla eredità, son considerati come bastardi, e non possono portare il nome e l’arme della famiglia.» Poi corse a dare la mano sinistra a Mikedda che gliela prese e la guardò di sotto e di sopra credendo ch’egli avesse una spina.
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Ed ecco la mattina di Pasqua, mentre le campane riempivano di un lieve rombo di gioia l’aria vaporosa, nell’aprire la finestra Annarosa vide Gioele nella strada.
Il suo primo movimento fu di ritirarsi, per paura ch’egli volesse dirle qualche cosa; ma egli camminava serio, a testa bassa, col suo passo lesto lievemente cadenzato, rasentando le case ed il muro di fronte. Non aveva ombrello, sebbene piovigginasse, e neppure più il mantello; era vestito di grigio, con le falde di un cappelluccio verdastro abbassate sui folti e lunghi capelli.
Arrivato sotto la finestra di Annarosa abbassò ancor più la testa; pareva attento solo a non scivolare sull’acciottolato umido della strada; ed ella si sporse, ebbe desiderio di chiamarlo, fece di tutto, infine, per attrarre l’attenzione di lui. Ma egli andava oltre, rasente il muro, col suo cappello verde che nel grigiore luminoso della strada metteva una nota primaverile. Ella sperò che passasse così guardingo per assicurarsi di non essere osservato, e che tornasse indietro: invece lo vide allontanarsi, sparire senza neppure voltarsi.
Allora si sentì umiliata.
— Sa che tutto è finito e non vuole più neppure guardarmi. Ha ragione, del resto; perchè deve guardarmi?
Aspettò ancora; forse Gioele sarebbe tornato indietro per la curiosità di vedere s’ella era ancora alla finestra; ma Gioele non ripassò più.
— È finito tutto. Meglio così. Però, perchè scrivere che mi avrebbe atteso alla porta? Ed io che lo aspettavo davvero! Egli è tornato per farmi dispetto, per dimostrarmi che mi disprezza. Meglio così. Ma perchè neppure mi saluta più? Che cosa gli ho fatto?
Per calmarsi corse nell’orto; voleva anche lei andarsene indifferente sotto la pioggia, farsi bagnare come una foglia. Tutto era finito, del passato, tutto ricominciava, come dopo l’inverno ricomincia la primavera.
— Anch’io non lo guarderò mai più; che m’importa di lui? Avrò dei vestiti di seta e gioielli e pelliccie; sarò bella ed egli avrà rabbia a guardarmi, un giorno.
Scese fino alla punta dell’orto e s’affacciò sul muro. Finiva di piovere: le ultime goccie le cadevano sui capelli, le scivolavano sul collo e le davano un brivido come le penetrassero nella carne.
Poi il cielo cominciò a spaccarsi come una vôlta in mosaico che qualcuno pestava; e i frammenti cadevano, di qua e di là dietro i monti fumanti, finché apparve l’azzurro con ancora qualche trama di nuvola; brandelli dell’inverno che una mano invisibile ritirava dietro l’orizzonte, riponendoli per un altro anno.
Addio; il lungo inverno se n’è andato davvero, finalmente: l’odore delle viole e dei ciclamini sale dalla valle, gli alberi dell’orto hanno già qualche ciuffo di foglioline in cima, e i rami ancora nudi mostrano le unghie rosse delle gemme: e sopra ogni gemma s’è posata una goccia d’acqua come un insetto di luce.
Ed ecco Annarosa che s’appoggia al muro e comincia a piangere, mormorando!
ti amo, ti amo. — A chi dice «ti amo» non sa: a Gioele, alla primavera, alla vita: non sa, ma sente una gioia sensuale mischiarsi al suo dolore, e le lagrime le cadono sulla punta delle dita come la pioggia sulle gemme.
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Tutta la giornata non fu che un’attesa e un preparativo per la visita di Stefano, sebbene si ostentasse una calma profonda evitando financo di parlare di lui.
Nel pomeriggio Mikedda, pure vestita a nuovo, non fece altro che spezzar legna e caricare il fuoco del camino: volle anche, con le sue dita tutte rotte dalle scheggie, aggiustare i capelli sulla fronte della vecchia padrona, tirandole un ricciolino bianco sulla tempia e annodandole poi bene sotto il mento le cocche del fazzoletto nuovo.
In ultimo le accomodò i piedi sulla pietra del focolare, stendendovi su la veste.
— In coscienza mia, adesso il fidanzato, quando viene, s’innamora di lei, tanto è bella. Non le manca che una rosa in mano.
La vecchia padrona lasciava dire e fare; tutto era permesso, quel giorno, anche di scherzare con lei.
Solo la inquietava un poco la continua assenza di Annarosa, sempre in giro per l’orto o nelle camere di sopra. La voleva seduta accanto a lei in attesa, come sedeva la nuora.
— Nina mia, — disse cominciando a impazientirsi, — cerca Annarosa, che si faccia trovare almeno qui nella stanza. E manda a chiamare tuo figlio dalla strada: e tu, tira un po’ giù quel fazzoletto sulla fronte.
Pazientemente la donna obbedì; mandò Mikedda in cerca di Gavino, chiamò Annarosa, si tirò il fazzoletto sulla fronte, e tornò, così mascherata d’ombra, a sedere accanto al camino.
Ma nè Annarosa scendeva, nè Gavino rientrava. Mikedda gridò dalla porta di cucina:
— Egli sta in mezzo alla strada a spiare l’arrivo del fidanzato e dice che fa quello che gli pare e piace.
— Gli dirai che lo vuole la nonna.
Mikedda uscì e rientrò.
— Dice che non gl’importa nulla nè di me, nè della madre, nè della nonna.
— Va a chiamarlo tu, Nina mia.
La nuora uscì a malincuore, tirandosi ancor più il fazzoletto sulla fronte; ma appena mise fuori la testa dal portone vide in fondo alla strada già invasa dal crepuscolo, avanzarsi quietamente la figura di Stefano con un punto rosso in mezzo al viso pallido: e si ritrasse rapida, mentre Gavino correva incontro al fidanzato, afferrandogli la mano e toccandogli il braccio come per assicurarsi ch’era veramente lui.
Era veramente lui, alto e grave, col soprabito abbottonato, il cappello duro dal quale sfuggivano le punte arricciate dei capelli scuri. Aveva i baffi così neri, tagliati corti sulla bocca carnosa, e gli occhi così cerchiati, che parevano tinti.
Arrivato al portone si tolse il sigaro di bocca, ne scosse la cenere, poi lo guardò e lo buttò via; e mise la mano sulla spalla di Gavino come per farsi condurre da lui.
E andarono diritti dalla nonna, sulla quale egli si chinò, col cappello in mano, salutandola quasi cerimoniosamente. Poi si sollevò e prese la mano che Annarosa, sopraggiunta rapida e silenziosa, gli porgeva.
Per qualche attimo nessuno parlò. Erano tutti turbati, anche la matrigna, anche la serva, che accostava tutte le sedie della stanza al camino.
— Siedi, — disse finalmente la nonna, tendendo la mano tremante.
Stefano si tolse il soprabito, e apparve in un corretto abito nero, con la cravatta nera, serio e grave come un vedovo.
— E Agostino? — domandò.
— Verrà fra poco. Siedi.
Egli sedette, gettandosi un po’ indietro sulla sedia e accavallando le gambe pesanti. E Annarosa notò subito ch’egli aveva i piedi grossi e le mani bianche, ma grandi sui polsi forti. Rassomigliava al padre, nelle membra che, sotto le vesti borghesi accurate ed anche eleganti, tradivano la razza paesana: il viso però era melanconico, con due pieghe intorno alla bocca sensuale e gli occhi dolci, sognanti.
— Agostino sarà qui fra poco, — ripeteva la nonna con accento di scusa; — anche oggi, sebbene Pasqua, è dovuto scendere all’oliveto perchè qualcuno ha portato la notizia che dei buoi pascolano di frodo laggiù e rovinano gli olivi. Ma fra poco sarà qui. E padre tuo come sta?
— Oh, lui sta bene! — esclamò Stefano: e cominciò a parlare del padre con un’ammirazione che a momenti aveva però una lieve tinta di canzonatura bonaria. Il tono della sua voce era basso, eguale, ma caldo e armonioso. — Trova sempre da fare, anche lui. S’alza all’alba e va a messa, poi guarda i suoi cavalli, la sua giumenta, il suo puledrino appena nato. Adesso ha anche due martore, in casa; anzi, invita Gavino a visitarle. Riceve poi tutti i giorni, quando è in paese, persone che vengono a domandargli consigli o farsi aggiustare qualche dissidio fra loro. Sembra l’avvocato in casa nostra. Se sono presente io, certuni desiderano anzi che mi ritiri. È vero che egli li riceve nel cortile, sotto il fico, se non piove; fa come i Giudici sardi antichi, che ricevevano i sudditi e pronunciavano lì per lì sentenze e condanne senza bisogno di carta bollata.
— Uomo d’altri tempi è, Predu Mura, — disse la nonna con ammirazione. — Vedendolo mi pare di vivere davvero in altra epoca. Uomini così, adesso non se ne trovano più; pare un sogno d’incontrarli.
— Ma no! Tutti i tempi hanno avuto ed avranno uomini deboli e uomini forti.
— E dove sono questi uomini forti, adesso? Non vedi come la gente è meschina? Anche giovani di buona famiglia, anche uomini anziani, abbandonano il paese, emigrano, tornano che non sono più nè paesani nè borghesi, trasvestiti come maschere, con cattive abitudini. Non sanno più lavorare la terra, non osservano più le leggi di Dio.
— I tempi sono cambiati, — ammise Stefano: — ma è il mondo che cammina.
Ella insisteva, felice dell’attenzione che egli le prestava.
— Non è camminare buono, questo, ti pare? Tu hai studiato e conosci il mondo meglio di me. Ma dimmi quando c’è mai stato tanto amore per il denaro, tanta poca coscienza in ogni cosa?
Annarosa pensava: e noi, non siamo qui per il denaro?
Poi tentò di parlare anche lei: ma s’accorgeva che la nonna la sorvegliava, e sentiva che qualunque cosa avrebbe detto sarebbe male a proposito.
Infatti sollevò subito un mormorìo di protesta quando, facendosi coraggio, ripetè una cosa che aveva letto in un giornale.
— Se si farà la guerra la gente cambierà di carattere. Ma si farà la guerra?
— soggiunse subito.
La nonna, la serva dall’uscio socchiuso di cucina, la matrigna che sedeva all’angolo del camino e pareva volesse nascondersi nell’ombra, Gavino che si appoggiava alle spalle di Annarosa, tutti si volsero a Stefano con curiosità ansiosa.
— Si farà, — egli disse con calma.
Allora la nonna diede un grido.
— E Agostino? Me lo prenderanno?
— Se occorre lo prenderanno.
— E tu, — domandò Annarosa dopo un attimo di esitazione, — sarai richiamato?
— Anch’io, certo. Ma c’è tempo.
Mikedda si avanzò di qualche passo, poi ritornò sull’uscio. Voleva domandare se anche zio Taneddu verrebbe richiamato. Tutti parlavano della guerra, nel vicinato, molti aspettavano di essere richiamati, alcuni volevano partire volontari.
Annarosa disse un’altra cosa che fece ridere Gavino.
— Se fossi uomo chiederei subito anch’io di andare volontario.
— Piano! Ci vorrebbe il consenso della nonna.
— Me lo darebbe: se no scapperei.
La nonna la guardava severa. Del resto Stefano non dava molta attenzione alle parole di lei: parole di donna, di ragazza. Le donne, specialmente le ragazze, parlano facilmente di tutto, anche se non capiscono niente: e d altronde è bene che certe cose neppure le capiscano. Pensino all’amore, alla casa, alla famiglia, alle loro vesti, ai loro piccoli interessi: tutt’al più l’uomo può discutere di cose gravi con loro per galanteria, senza intaccare menomamente il suo concetto virile della vita, della patria, dei suoi doveri d’uomo e di cittadino.
Dunque egli non giudicò opportuno continuare a parlare della guerra, anche per non addolorare la nonna che lo guardava con occhi supplichevoli e severi come se la guerra dipendesse da lui. Per divertirla, anzi, raccontò un’avventura accaduta la notte avanti. Una donna gelosa si era trasvestita da uomo per aspettare che il marito uscisse di casa dell’amante, e gli si era avventata contro con un randello rompendogli la testa.
— Alle grida dell’uomo accorsero i carabinieri in pattuglia e inseguirono la donna finchè questa non si fermò alla sua porta. Solo allora il marito s’accorse ch’era lei. Per volere di lui la cosa è stata messa a tacere. Io l’ho saputo per caso ma non vi dico i nomi.
— La donna è Mariana Fera, malanno abbia, disse Mikedda dall’uscio di cucina.
— Io lo sapevo già.
Stefano si volse a guardarla. Annarosa e Gavino ridevano d’intesa, ed egli aveva l’impressione che si burlassero di lui. Tuttavia continuò a raccontare le storielle del paese. Disse che era stato a messa e aveva veduto una signora già vestita di bianco nonostante la giornata ancora invernale. Ma era una forestiera, moglie di un impiegato amante della caccia; e tutti e due, moglie e marito, passavano per essere due stravaganti.
— L’altra notte il marito è stato giù nella valle, per cacciare un cinghiale; appostato fra le macchie ha atteso non so quante ore. Finalmente ecco il fruscìo, ecco il noto passo del cinghiale; spara, corre a guardare. Aveva ammazzato un bue.
E d’un tratto si volse verso l’uscio di cucina per vedere se la servetta era già informata anche di questo.
— Gliel’hanno fatto pagare trecento lire; ed era un vecchio bue magro.
— Bisognerebbe mandarlo nel nostro oliveto, dove tutte le notti ci sono dei buoi che pascolano di frodo, — disse Annarosa.
E si alzò, pensando che per tutta la sua vita avrebbe sentito Stefano a raccontare di queste storielle.
Aiutata da Gavino andò a prendere dalla tavola, sulla quale era stata messa una bella tovaglia antica da comunione, il vassojo dei dolci e il vino; nel tornare verso Stefano lo vide che guardava il posto lasciato vuoto da lei e le parve che gli occhi di lui, sollevandosi e incontrandosi coi suoi, fossero diversi, vivi e ardenti.
Egli la guardava come la vedesse solo in quel momento; e doveva trovarla graziosa e di suo gusto, e così china a offrirgli un calice di vino sul vassojo scintillante, perchè il suo viso s’animò di gioia.
Prese anche un dolce offerto da Gavino, ma raccontò che quando era studente e tornava per le vacanze di Pasqua la madre preparava dei canestri pieni di focacce e dolci, per lui che non ne mangiava.
— E dateli ai ragazzi o ai poveri, — le dicevo: — ma lei aveva preparato le focacce per me e le lasciava muffire piuttosto che darle ad altri.
— Perchè era avara, — pensava Annarosa, e ricominciò a ridere mentre Gavino diceva con serietà che per lui invece i canestri con le focacce e i dolci erano sempre chiusi a chiave. Ma la nonna cominciò a perdere la pazienza: sollevò la canna, e il rossore cattivo dei suoi movimenti di collera le colorì il viso.
Annarosa se ne accorse e fu pronta a riprendere il suo posto accanto a Stefano: anzi si sporse un po’ in avanti e mise la sua mano sulla mano della nonna dicendo:
— Non ci sgridate se ridiamo tanto; è per l’allegria, non vedete?
Mentre ritirava la mano, Stefano gliel’afferrò e la tenne un po’ stretta nella sua grossa e calda mano di pastore. A quel contatto ella arrossì: le sembrò che egli la stringesse tutta, e ne provò un turbamento confuso che subito, però, si convertì in dolore. Pensava a Gioele.
Stefano intanto con la mano libera traeva di saccoccia un astuccio facendone scattare la molla; e nella nicchia di velluto turchino dell’astuccio apparve un piccolo orologio d’oro attaccato ad una catenina sottile come un filo.
Era il suo dono di fidanzato. Annarosa lo tenne in mano e tutti vennero a vederlo. Gavino volle anche toccarlo e lo tenne per la catena facendolo dondolare come un ragno d’oro attaccato al suo filo. Poi ella si passò al collo la catenina e regolò l’ora con l’ora dell’orologio di Stefano.
Così le loro vite dovevano correre assieme, minuto per minuto, meccanicamente.
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Uno scalpitare grave di buoi annunziò il ritorno di Agostino. Nel vano della porta apparve come nello sfondo bigio d’un quadro la sua figura a cavallo fra due grossi buoi neri ch’egli si traeva appresso prigionieri: in fondo la figurina scura di zio Taneddu, con la barba rossiccia lasciata crescere in segno di lutto, salutava Mikedda ferma sul portichetto col lume in mano.
E mentre i due servi s’incaricavano di legare i buoi e il cavallo, Agostino entrò, senza dimostrare troppa fretta nè troppa gioia; strinse la mano a Stefano; poi sedette accanto alla tavola, con le ginocchia unite, il pugno chiuso. Era stanco ma soddisfatto. Soddisfatto perchè vedeva il suo miglior sogno conchiuso; Stefano Mura seduto al suo focolare, e sul petto di Annarosa la catenina d’oro, segno della promessa di matrimonio; ma soddisfatto anche perchè gli era riuscito di portare prigionieri i buoi che pascolavano di frodo nell’uliveto.
— Mi scuserai, Stefano, se non mi sono fatto trovare in casa per la tua visita, — disse gravemente.
Stefano lo guardava con un’aria lievemente canzonatoria che ricordava quella del padre.
— C’erano qui le donne a ricevermi!
— Lo so, perdio, che non venivi a visitare me. Tu dirai però che il santo giorno di Pasqua non si va in campagna. C’era bisogno, però, lo vedi. Li vedi come son grossi i due amici? Del resto, loro facevano il fatto loro; è il padrone, il malfattore, e dovrà lui ben rifarmi dei danni; se no lo farò condannare per pascolo abusivo: e pagherà, oh, mi dovrà ben compensare questa giornata di Pasqua.
Stefano però, che sapeva per pratica come vanno a finire queste cose, dava consigli concilianti; raccontò di un contadino che per vendicarsi d’una contravvenzione per pascolo abusivo aveva stroncato tutti gli alberi d’un podere; e parlava ad Agostino come ad un ragazzo, cercando di metterlo in paura per convincerlo ad essere clemente coi contadini.
Rigido sulla sua sedia, col pugno chiuso, Agostino non si lasciava convincere: difendeva i suoi diritti e poco gl’importava che i contadini fossero poveri ed esasperati da una condanna cercassero di vendicarsi.
La giustizia e la coscienza non badano a queste cose.
La nonna approvava con la testa.
E poiché la discussione continuava e fu chiamato anche zio Taneddu per sentire il suo parere, Annarosa si alzò e s’avvicinò alla finestra. Ed ecco la visione della mattina rinnovarsi. Gioele passava dall’altro lato della strada già illuminata dalla luna, rasentando il muro. Andava verso casa. La sua figura slanciata, i capelli lunghi, il vestito chiaro e il cappello verdastro, lo stesso suo passo cadenzato, gli davano un’apparenza singolare quasi fantastica.
Durante la giornata Annarosa, per quanto si fosse affacciata alle finestre, non l’aveva più riveduto: e nessuno doveva sapere del suo ritorno perchè neppure Mikedda, neppure Gavino, nessuno ne aveva parlato. Ed ecco che egli appariva nel crepuscolo lunare come un’ombra colorata. Pareva fosse stato tutto il giorno nella valle verde, tuffato in un bagno d’erba e di luce, e tornasse riportandone la freschezza radiosa.
Annarosa appoggiò il viso ai vetri e abbassò gli occhi pieni di lacrime. Le pareva di essere sospesa in un punto misterioso, fra il sogno e la realtà: alle sue spalle risuonavano le voci che discutevano di cose volgari; e il sogno passava nella strada fra il chiarore del crepuscolo e della luna.
D’un tratto sentì come se picchiassero ai vetri. Sollevò gli occhi e vide Gioele che s’era fermato e la guardava. Le parve che gli occhi di lui brillassero come due stelle. E prima ch’ella stessa si rendesse ragione di quel che faceva corse nell’ingresso e socchiuse la porta.
La strada era deserta. Gioele tornò indietro, le si fermò davanti silenzioso, con le mani bianche abbandonate sui fianchi. Non pensava neppure a togliersi il cappello. Ella lo vedeva attraverso il velo tremulo delle sue lagrime e le pareva che la figura di lui e la strada e tutta la terra e il cielo oscillassero.
Non dissero una parola; ma una strana scena muta accadde fra loro. Ella scese lo scalino della porta e Gioele le prese la mano e fece un passo come dovessero andarsene assieme; la sua mano era sottile, fresca come bagnata di rugiada. Annarosa ricordò la mano di Stefano ed ebbe paura. Si sentivano fino alla strada le voci là dentro che discutevano: le sembrò che tutti, anche la nonna, si alzassero per inseguirla. Tornò sullo scalino della porta, e prese l’altra mano di Gioele; e se le portò al viso ardente, le due mani fresche come due foglie, si asciugò le lagrime con le dita di lui: poi lo respinse lievemente accennandogli di andarsene; ed egli obbedì.
★
Fu quella sera stessa che la nonna volle parlare con Juanniccu.
Sebbene tutto andasse bene non era contenta, la nonna, e sentiva il bisogno di sfogarsi con qualcuno.
Era già a letto, sola con Mikedda, perchè Annarosa e la matrigna erano andate a partecipare ad una famiglia di parenti l’avvenuto fidanzamento, e Agostino era in giro per l’affare dei buoi.
— Sta attenta, — disse alla serva, — appena il padrone Juanniccu rientra, fammelo venire qui: e tu poi va a letto.
Poco dopo Juanniccu attraversò le stanze, col suo modo furtivo, col passo molle delle sue scarpe logore: e aveva ancora come nei giorni d’inverno il risvolto della giacca tirato su, sul collo rientrante fra le spalle. Quel passo, quell’odore di abbandono e di miseria ch’egli spandeva intorno a sè, umiliarono e turbarono più del solito la madre.
— Siedi, — ella disse scuotendo la testa sul guanciale per liberare l’orecchio dalla cuffia. — Saputo lo hai che oggi Stefene è venuto per la sua prima visita? Siedi.
Egli sedette, con le mani in tasca, tutto abbandonato su di sè.
— Saputo l’ho.
— Ebbene, non ti pare sia tempo che tu pensi a fare una vita più cristiana? Almeno adesso, per il decoro della famiglia? Oggi, giorno di vera Pasqua per noi, dove sei stato tu?
— Qua e là, — egli disse con un cenno vago della testa.
— Quando si mangiava l’agnello mandato in dono da Predu Mura, questo mezzogiorno, io pensavo a te. Pensavo: tutti hanno la loro passione, poichè anche Cristo l’ha avuta, ma per tutti viene un giorno di Pasqua. Solo per te non viene.
Non ti sei neppure cambiato, oggi. Il vestito nuovo ce l’hai, e anche le scarpe.
Te le abbiamo fatte apposta e tu non le metti. Mettile, domani, tieniti pulito. Anche Agostino mi ha raccomandato di dirtelo. Non fare arrabbiare Agostino. Lo sai che è buono, ma guai se perde la pazienza; allora è come la giusta ira di Dio: non perdona più. Ma dove dunque sei stato, oggi?
— Ebbene, da loro.
— Da chi?
— Da loro. Dai Mura. Sono, andato a trovare zio Predu, questa mattina, ed egli mi ha fatto stare a mangiare con loro: anche nel pomeriggio ha voluto che restassi con lui a fargli compagnia.
La madre aprì gli occhi, sbalordita, poi li chiuse forte. Avrebbe pianto: se avesse potuto: ma non piangeva mai. Ricordò quello che la nuora diceva sempre di Stefano:
— Stefano è buono.
— Stefano non ha detto nulla, che tu eri là. Ma ecco perchè non ha chiesto di te.
— C’è poco da chiedere di me, — egli disse, e chinò il viso sul petto, sognando.
Aveva bevuto molto con zio Predu, e gli pareva di essere ancora là, nella grande cucina che aveva l’aspetto e l’odore di un ovile, col rumore dei cavalli che scalpitavano nel cortile, il cane accovacciato davanti al focolare e qualche agnello scorticato, nudo, col grappolo violaceo delle viscere pendenti dal ventre spaccato, appeso ai piuoli della parete.
— Che cosa ti diceva il vecchio? È contento?
— Contento è.
— Che pensi, tu? Li farà sposare presto quei ragazzi? Non conviene per il lutto, ma sarebbe meglio farli sposare presto.
Che dice, il vecchio?
— Nulla mi ha detto, di questo. Parlava della moglie morta come sia ancor viva ma lontana di casa. Ma è sano e forte, zio Predu. Quello è uomo che se vede che le cose non vanno bene, riprende moglie.
Ella tornò a spalancare gli occhi, e come un mondo di formiche le si destò dentro come dentro un tronco morto.
— Tu sragioni, Juanniccu; pazzo sei.
È destino che ogni volta ch’io parlo con te mi debba arrabbiare. Sei proprio il castigo dei miei peccati. Perchè le cose non devono andar bene? — proseguì, tirando fuor delle lenzuola la mano e agitandola come avesse ancora la canna. — Uomo savio è, Predu Mura; e alla sua età non si fanno più sciocchezze; perchè dovrebbe riprender moglie? Non ci andrà in casa Annarosa? E la casa gliela saprà custodire. E ancora bambina Annarosa; a volte ride senza ragione e si agita come la foglia al vento; ma a Stefano piace appunto così, me ne sono accorta bene, oggi: egli è troppo quieto, ma appunto per questo ha bisogno di una donna che gli giri attorno e lo rallegri un poco. Annarosa si burlava quasi di lui, oggi, e un bel momento se n’è andata fuori della stanza come se la visita non fosse per lei. Ebbene, Stefano la guardava con gioia; le ha preso due volte la mano, la seconda volta appunto quando è rientrata nella stanza, e pareva volesse portarsela via. Perchè le cose non devono andar bene? Lascialo venire tre o quattro volte e vedrai come tutti e due si innamorano. Adesso non si conoscono ancora, ma si conosceranno.
— Eppure....
— Eppure? Tu vedi sempre cose che non esistono. Il vino ti fa sognare.
Egli infatti sognava anche in quel momento. Il vino bevuto gli fermentava dentro; e lì, nel tepore e nella quiete della camera in penombra, l’ubriachezza gli cresceva come la febbre.
Gli pareva di non potersi più muovere di lì; ma ci stava bene; aveva l’impressione di essere come un corpo liquido dentro un vaso di cristallo. E vedeva una grande pianura verde con tanti piccoli cespugli dorati, e un popolo di farfalle variopinte che svolazzavano intorno, si incrociavano, si univano, si separavano, andavano incontro ad altre, ad unirsi di nuovo, a separarsi di nuovo. Tutto procedeva bene, armoniosamente, in una danza fatta di silenzio, di dolcezza, di voluttà. Perchè nella vita degli uomini non poteva procedere così?
— Tutto va bene, sì, — mormorò; — ad Annarosa piace Gioele, e a Nina piace Stefano. Anche a lui piace Nina. E lasciateli fare. E lasciate che si piacciano e che si prendano. Tutto va bene.
La vecchia tentò di sollevarsi sul letto, col viso congestionato. Le pareva che Juanniccu la percotesse. Ricadde, sudata, sospirando; gridò con voce grossa:
— Vattene, idiota! — ma tese il braccio e lo afferrò per la manica; ed egli da prima si mise a ridere, come si divertisse a spaventarla, poi le vide gli occhi luccicanti nel viso livido e provò un senso di paura.
Anche lui temeva di farla morire: si svegliò dal suo sogno e riabbassò la testa sul petto.
Quando ebbe ripreso respiro ella disse:
— Juanniccu, ubriaco sei, ma la coscienza ce l’hai. Bada che tu adesso, tu hai detto una cosa grave. Perchè l’hai detta? Tu calunnii la tua stessa famiglia. Ma non ti lascerò andar via di qui, mi trascinerò dietro di te, se tu non mi spieghi le tue parole.
— C’è poco da spiegare! Avete sì o no mandato voi Nina in quella casa? L’avete mandata. E Nina è donna e ancora giovane. E ha gli occhi in faccia. Allora ha guardato Stefano e Stefano è uomo e anche lui ha gli occhi in faccia.
— Anche tu hai gli occhi in faccia, idiota.
— Anch’io ho gli occhi in faccia, — egli ripetè pazientemente. — Così ho veduto che si guardavano.
Ella gli strinse più forte il braccio; tremava tutta, anche nella parte morta del corpo. Dopo un momento di silenzio domandò sottovoce:
— Che altro c’è stato fra loro?
— Nulla c’è stato. Si guardavano.
— Si guardavano! — egli ripetè per la terza volta, con voce un po’ stridente come stesse per piangere.
Poi tacquero. La madre gli lasciò il braccio, abbandonò la mano sull’orlo del letto e chiuse gli occhi.
— Nina è onesta, — disse finalmente. — Non lo ha neppure guardato in viso, oggi; è stata sempre silenziosa e nascosta. Sognato hai, tu. E t’impongo di non parlare più con nessuno d’una simile cosa. Neppure con me. Vattene.
Ma nel vedere che egli obbediva lo riafferrò per la manica.
— Dimmi una cosa. Si sono più veduti, loro due?
— Nina non è più tornata là, nè Stefano è mai venuto qui. Dove si vedevano?
— Vattene.
Eppure non lo lasciava, aggrappandosi a lui, nel suo naufragio, come ad un tronco morto galleggiante. Tante cose avrebbe voluto domandargli: tante cose che ella stessa sapeva senza risposta; ma quando egli accennò a rimettersi a sedere lo spinse con quanta forza aveva.
— Vattene.
E rimase sola, nell’ombra rossastra e tremula che pareva prodotta dall’agitazione del suo cuore.